Monica: ho trascorso tutta la mia vita adulta negli Stati Uniti

A cura di Maricla Pannocchia

Monica, originaria di Torino, ha lasciato il suo Paese natale nell’ormai lontano 1998, quando si è recata a Los Angeles per prendere parte a una internship. “Non ho scelto quella città in particolare ma ci sono finita proprio perché c’era l’opportunità della internship” racconta la donna, “All’inizio, i miei cari pensavano che fossi un po’ matta ma che poi sarei rientrata in Italia. Invece, ho deciso di rimanere a vivere negli Stati Uniti.”

A un certo punto, Monica ha detto addio a Los Angeles, spostandosi a Boston, dove ha incontrato suo marito, ingegnere come lei e torinese a sua volta. La donna, adesso, ha una famiglia con dei figli grandi e il focus è su di loro, “Voglio prepararli a lasciare casa quando, a 18 anni, andranno all’università. Se vuoi trasferirti qui con la tua famiglia, è importante informarti sulle buone scuole. Più un’abitazione è vicina a delle buone scuole, più costa.”

Monica si sente un po’ un’estranea ogni volta che torna in Italia, “Ci tengo a farlo, per mantenere i rapporti con la famiglia e per far sì che i nostri figli possano vedere nonni e cugini. Quando cammino per Torino, però, mi rendo conto che cerco i miei ricordi ma che non ho visto l’Italia evolvere quotidianamente, perché vivevo all’estero, e tante cose che so fare qui negli Stati Uniti, come accendere un mutuo, sarebbero difficili, per me, da fare in Italia.”

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Ciao Monica, raccontaci qualcosa di te. Chi sei, da dove vieni…

Ciao a tutti, mi chiamo Monica, vengo da Torino e mi dicono che si sente nell’accento e si percepisce nel mio senso dell’umorismo. In pratica, sono una Littizzetto nomade e prestata all’ingegneria. Vivo con mio marito, due figli, due gatti, svariate orchidee e due arnie, citati in rigoroso ordine di apparizione nella mia vita. Forse per scontare una giovinezza poco sportiva, adesso pratico sci, subacquea, pattinaggio su ghiaccio e vado a lavorare in bici, pedalando per 40km tutti i giorni. Mi piace leggere e cucinare, detesto cucire e stirare.

Quando e perché hai deciso di lasciare l’Italia?

Ho lasciato l’Italia nel gennaio del 1998, diretta a Los Angeles per completare una internship di 12 mesi in una multinazionale che produceva semiconduttori. Sono sempre stata attirata dalle sfide e volevo vedere se sarei riuscita a lavorare in un campo complicato, in una cultura che non conoscevo e in una lingua che parlavo a livello scolastico. Direi che, come sfida, poteva bastare. L’idea era di acquisire esperienza per rendermi più` appetibile quando, discussa la laurea, mi fossi messa alla ricerca di un lavoro in Italia. Una donna che cerca lavoro come ingegnere, nell’Italia di svariati anni fa, doveva avere qualcosa in più` per essere presa in considerazione. Alla fine, però, sono rimasta negli Stati Uniti, perché mi sono trovata bene e perché la cultura del lavoro, in Italia, specie per una donna in un campo percepito come maschile, mi sembrava claustrofobica.

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Come hai appena raccontato ti sei trasferita negli Stati Uniti nell’ormai lontano 1998. Com’era trasferirsi così lontano a quei tempi, quando non c’erano tutti i servizi e le comodità di oggi?

Los Angeles probabilmente era una delle città più facili in cui trasferirsi: era molto internazionale e quindi si facevano molte amicizie stimolanti. Certo, il caffè e la caffettiera te li portavi in valigia ma gli ingredienti per cucinare italiano, volendo, si trovavano, tranne, forse, il pane, che 30 anni fa si trovava solo come pane in cassetta, pre-tagliato e con una conservazione così lunga che sospetto fosse fatto di gomma (infatti ho imparato a usare la macchina del pane). In Italia telefonavo dal telefono fisso e la comunicazione era settimanale, in quel senso i cellulari hanno semplificato le cose. La radio in streaming non esisteva, così ho dovuto abbandonare la mia amata Radio Deejay, anche se, per combattere la nostalgia, frequentavo assiduamente la chat HTML sul loro sito, dove ho incontrato amici virtuali, alcuni dei quali mi accompagnano ancora oggi. In compenso, ho ascoltate ore di musica country, che mi ha anche aiutato a migliorare l’Inglese. Appena è arrivato lo streaming, sono tornata a Radio Deejay, perché sentirsi a casa, per me, è ormai un ibrido di cose italiane e di cose americane.

Come mai hai scelto proprio Boston? Come la descriveresti?

Sono arrivata a Los Angeles, che non ho scelto. Lì c’era la possibilità della internship. Ci ho vissuto 12 anni ma, a un certo punto, il panorama lavorativo era diventato poco interessante, probabilmente sarei dovuta andare nella Silicon Valley, a nord, ma quell’area era nota per uno scarso equilibrio tra vita privata e professionale, cosa che mi preoccupava, visto che stavo formando la mia famiglia. Inoltre, con i genitori in Italia che invecchiavano, le 14 o più ore di volo iniziavano a essere decisamente scomode.

Ci siamo quindi trasferiti a Boston nel 2008, seguendo il lavoro di mio marito, altro ingegnere torinese, incontrato a Los Angeles, perché chiaramente era destino che ci conoscessimo! Eravamo attirati dalla cultura più europea, dal clima con le quattro stagioni, dall’abbondanza di verde e di vita all’aria aperta nella bella stagione. Dal punto di vista lavorativo, Boston è ricca di opportunità nel campo della tecnologia, dal medicale alla robotica, ed è molto più vicina all’Europa, facilitando i contatti con le famiglie di origine, sia per i viaggi sia per le telefonate, visto che lo sfasamento orario è minore. Oggi, Boston è casa mia, è il luogo in cui sono nati i miei figli, è una città storica, con un fiume che l’attraversa, come Torino. Noi viviamo nella prima cintura, come molte famiglie, e abbiamo scelto una cittadina con buone scuole, piste ciclabili e pochissimo crimine.

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Hai notato dei cambiamenti, sia positivi sia negativi, da quando sei arrivata a oggi?

È difficile capire quanto sia cambiato il Paese e quanto sono cambiata io, che oggi sono più vecchia e con molte più responsabilità` di quando sono arrivata. In generale, credo che oggi ci siano meno opportunità per chi comincia da zero, anche se il mercato del lavoro è comunque più dinamico di quello italiano, e lo stesso vale per la società in generale. Anche qui, come nel resto del mondo occidentale, c’è un ritorno di una certa intolleranza culturale, anche se io, vivendo in Massachusetts, lo sento di meno. Forse il costo della vita è più alto, rispetto ai salari di vent’anni fa, ma non ne sono certa: all’epoca, avevo senz’altro meno spese! La vita degli immigrati è migliorata: le comunicazioni sono più facili, grazie agli smartphone, si trovano facilmente, almeno nelle città, prodotti italiani, incluso l’espresso. La diffusione di radio e TV in streaming ci permette di rimanere fluenti con la lingua e informati su quanto accade a casa.

Come hanno reagito amici, parenti e conoscenti davanti alla tua scelta?

Sono partita per restare un anno, i miei cari pensavano che fossi pazza ma vedevano la cosa come transitoria. Il viaggio era passeggero, la pazzia no! Quando ho deciso di fermarmi qui, ormai erano abituati alla mia lontananza, ero “l’americana” che tornava una volta l’anno, quella matta che sosteneva che il caffè americano non è così male e che si vive anche senza pizza settimanale 

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Come ti sei organizzata prima della partenza?

Avevo già viaggiato parecchio negli Stati Uniti prima di trasferirmi lì, guidando ore e fermandomi nei motel più economici che trovavo. In generale, questo è un buon modo d’iniziare a capire un posto, quindi, avevo un’idea generale di cosa aspettarmi e di quanto caotica fosse Los Angeles. La ditta per cui lavoravo mi ha dato un alloggio per i primi tre mesi, così ho avuto il tempo di capire a quanto ammontasse il mio stipendio al netto delle tasse e di cercare un piccolo alloggio arredato vicino all’ufficio. Ho dovuto rifare la patente, cosa che mi aspettavo, e ho comprato una macchina usatissima, da un conoscente di un collega. Credo che la cosa più difficile sia stata capire bene come funzionavano il piano pensione, il 401k, e l’assicurazione sanitaria, che era parte del contratto di lavoro. Mentre ero a Los Angeles, il primo anno, ho anche subìto un intervento chirurgico ma devo dire che coordinare l’assicurazione con l’ospedale è stato piuttosto indolore, l’intervento un po’ meno.

Puoi parlarci meglio del tuo lavoro?

Sono direttore tecnico di un programma per sviluppare un nuovo robot. Mi occupo della gestione tecnica di progetti di sviluppo di prodotti tecnologici. Negli ultimi anni sono passata alla robotica, prima lavorando sui robottini che aspirano i pavimenti, i Roomba, e oggi lavoro allo sviluppo di un robot per scaricare i camion che trasportano prodotti tra i vari centri di distribuzione.

È un lavoro che mi piace perché unisce la parte tecnica alle sfide che nascono dalla gestione di un team di persone, che spesso arrivano da tanti Paesi diversi. Mi richiede di tenere sotto controllo molti dettagli e di capire cosa vogliono dire per il programma in generale, in modo da prevedere e prevenire più guai possibile. È un’ottima ginnastica mentale, è come risolvere tutti i giorni un Bartezzaghi, ma con più adrenalina.

Che consigli daresti ad altre ragazze o donne che vorrebbero fare questa professione?

Se v’interessa, provateci seriamente e non lasciatevi scoraggiare da chi vi dice che non ci riuscirete mai, che è un lavoro da uomini o che, quando arriveranno i figli, dovrete fermarvi e allora tanto vale non cominciare affatto.

Si lavora per la maggior parte della nostra vita adulta, se fai un lavoro che non ti dà momenti di sfida e divertimento, diventa difficile. Inoltre, come cambiamo noi, nel corso della vita, possono cambiare anche i lavori e le carriere, non è mica proibito.

Preparatevi bene e non lasciatevi zittire, perché ancora oggi noi donne dobbiamo dimostrare di saper fare più dei nostri colleghi uomini. Se fate un errore, non fatene un dramma e non lasciate che questo mini la vostra sicurezza: imparate dall’errore e andate avanti, sapendo che, dopo aver sbagliato, siete migliori di prima, se avete imparato qualcosa.

Ricordatevi che il successo è diverso per ognuno di noi, cercate di capire in fretta cosa volete voi e lavorate per quello: convincerci tutti che vogliamo diventare CEO e che siamo disposti a lavorare 20 ore al giorno per diventarlo, o che il tempo per divertirsi e godersi la vita è sprecato, è una strategia di marketing per spremerci come il tubetto di dentifricio. Se non funziona per voi, non misuratevi con questa idea di successo.

Ricordatevi che spesso nella vita serve un po’ di fortuna, perché il talento e il lavoro contano, ma gli imprevisti capitano, e quando capitano non sono un riflesso del nostro merito.

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Pensi che gli stipendi siano in linea con il costo della vita?

Dipende molto dal lavoro, purtroppo anche qui la forbice tra chi sta bene e chi non arriva a fine mese si sta` ampliando ma, in generale, penso che, per i lavori qualificati, il rapporto salario/costo della vita sia più favorevole qui che in Italia.

Dipende anche molto da quale stile di vita si vuole adottare. Penso che oggi subiamo molti “bisogni” indotti e allora è facile trovarsi in situazioni in cui lo stipendio diventa stretto. Noi cerchiamo di spendere sulle nostre priorità e di essere più parchi sulle cose che non c’interessano: probabilmente la nostra spesa mensile per frutta e verdura fresca farebbe inorridire molti locals ma guidiamo utilitarie da cui ci aspettiamo almeno 10 anni di servizio. In generale, parlando con gli amici in Italia, sospetto che il rapporto tra costo della vita e stipendi sia ancora più favorevole qui, anche se la classe media si sta contraendo.

Puoi dirci il costo di alcuni beni e servizi di uso comune?

La benzina costa un quarto di quello che costa in Italia ma la frutta e la verdura sono mediamente più care del 50% (ovviamente il paragone è tra la cintura di Boston e quella di Torino ed è molto dipendente da dove vivi). Gli asili sono astronomicamente più cari qui, circa $2,500/mese per bimbi di 2 anni, e le università sono molto più care, soprattutto scegliendone una prestigiosa invece di quella del tuo Stato. In quel caso, si può facilmente spendere fino a 250k$ per la laurea di primo livello. Di contro, gli abiti costano meno qui e anche le cose per bambini in generale.

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Come valuteresti servizi come la sanità, la burocrazia e i mezzi pubblici?

Io ho sempre avuto buone assicurazioni sanitarie tramite il mio lavoro e mi sono trovata bene. La parte di costi che è rimasta a mio carico è stata significativa ma non peggio dei costi del privato in Italia, a cui sempre più persone devono ricorrere viste le difficoltà di accesso al servizio pubblico.

La burocrazia è molto più semplice che in Italia, almeno se sei un cittadino. Il rinnovo del passaporto si fa alla posta, per esempio, e così anche il rinnovo della patente, a meno che non si debba rinnovare la foto. Puoi far partire o fermare i contratti di luce, gas, Internet e telefono semplicemente online. In generale, le procedure sono semplificate e non esiste il concetto di carte bollate, notai e tutte le complicazioni del sistema italiano, che è ancora molto bizantino.

I mezzi pubblici sono un tasto dolente, perché sono inesistenti se non nelle grandi città, dove il servizio è generalmente appena mediocre.

Cosa bisogna avere, dal punto di vista burocratico, per vivere e lavorare lì?

Di solito, si comincia con un visto, che dev’essere sponsorizzato dal datore di lavoro. Il visto lavorativo generalmente non permette di cambiare lavoro, a meno che il nuovo datore di lavoro non sia disponibile a fare domanda per il trasferimento del visto. Quando si è già qui legalmente, si fa domanda per una Green Card, un visto permanente per il quale, soprattutto dopo la pandemia, ci sono anni di attesa. Una volta acquisita la Green Card, puoi rimanere qui, lavorare per chi vuoi e, dopo qualche anno, puoi richiedere la cittadinanza. Ovviamente, ci sono diverse varianti possibili, dalla lotteria della Green Card al matrimonio con un cittadino americano ma, in generale, prima trovi un datore di lavoro disposto a sponsorizzarti e poi puoi trasferirti.

Come ti sei mossa per cercare un alloggio?

All’inizio con le inserzioni sui giornali, che avevano nelle edizioni locali la sezione “Affittasi”, poi comprando casa tramite agenzia. Oggi si cerca casa, sia in affitto sia in acquisto, cominciando online, e probabilmente è un buon sistema perché puoi vedere le foto della casa, ma anche quelle della zona, su Google Maps, controllare i bollettini della polizia di zona, vedere quali supermercati sono vicino all’abitazione e se ci sono eventuali ristoranti e locali per l’intrattenimento.

Quali sono i prezzi medi e le zone in cui, secondo te, è possibile vivere bene spendendo il giusto?

Questo è molto soggettivo e dipende dal tuo “gusto” e dalla tua idea di vita…. In generale, in città costa di più ma la vita è più interessante per i giovani. Cambridge, per esempio, è proibitiva, infatti ci vivono molti giovani che condividono una casa con altre persone, soluzione non ottimale se hai una famiglia. Roslindale è più abbordabile.

Vivere nella cintura costa di meno e la vita è più piacevole se hai figli. La qualità delle scuole è un fattore rilevante per il costo delle case. Una città con ottime scuole ha case più care e tasse immobiliari più alte. Io vivo a Bedford, che è diventata un po’ cara negli ultimi anni, ma è ancora ragionevole. Se non interessano le scuole, ci sono molte cittadine più economiche e altrettanto carine, come Danvers o Saugus.

Come sei stata accolta dalla gente del posto?

In generale, bene. Alcuni hanno mostrato una certa perplessità per il mio accento, che mi dicono essere più da Est Europa che da italiana, ma solo perché gli americani, quando pensano agli italiani, s’immaginano qualcuno che parla come i Soprano. E con parecchia curiosità per la leggendaria cucina italiana, ovviamente!

Ho diverse conoscenze ma è difficile passare al livello amicizia, probabilmente perché un’amicizia stretta nasce anche da una cultura condivisa e poi perché, appena arrivata a Boston, ho avuto i miei figli e tra il lavoro full time e la cura della casa, il tempo e le energie che ho potuto investire nel costruire legami profondi è praticamente nullo. Adesso che i figli sono grandi, sto considerando come integrarmi meglio. In un certo senso, questo sarà il mio prossimo progetto.

Come descriveresti le loro vite?

Io vedo principalmente la vita delle famiglie nella suburbia: direi che sono persone molto occupate, come tutti al giorno d’oggi, ma che fanno molto per i figli, anche se non fanno le cose che farebbe una tipica famiglia italiana, per cui è facile pensare che non abbiano un senso della famiglia sviluppato. Per esempio, sacrificano i loro weekend e le loro sere per permettere ai figli di fare ogni sorta di sport organizzato, che qui è una piccola ossessione per chi ha figli, con un’abnegazione di cui io non sono capace. In generale, lavorano molto e fanno poche vacanze, anche se le famiglie più giovani mi sembrano più interessate a viaggiare con i figli nelle vacanze scolastiche. Le frequentazioni tra amici sono riservate principalmente alle uscite comuni, non hanno molto la tradizione d’invitare a casa loro, forse con le eccezioni dei barbecue estivi.

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In generale, non vedo molte differenze tra la loro vita e la mia.

Ogni quanto torni in Italia e cosa ti manca di più del tuo Paese natale?

Torniamo una volta l’anno, per aiutare i ragazzi a mantenere il bilinguismo e un rapporto con nonni e cugini.

Per quanto torni volentieri e mi spiaccia vivere lontana dai miei genitori, in particolare ora che invecchiano, non so se c’è qualcosa dell’Italia che mi manca davvero. Quando sono in Italia noto cose che mi sono familiari, anche se non sono più parte della mia vita, ma allo stesso tempo l’Italia non è quella che ho lasciato. In un certo senso, per me è un Paese straniero, perché non l’ho vista evolvere quotidianamente.

La verità è che quando sono a Boston mi sento a casa, con momentanee nostalgie per certi panorami o per determinati sapori. Quando sono a Torino, mi sento una turista nel mio passato, e, per quanto mi trovi bene e ami la mia città, mi sembra di girare Torino alla ricerca dei miei ricordi, non di vivere nella Torino di oggi.

Com’è una tua giornata tipo?

La mia giornata tipo è piuttosto impegnativa: sveglia alle 6:30, mi preparo dando un occhio ai ragazzi per essere sicura che siano pronti in tempo per andare a scuola, poi salgo in bici e mi faccio 20km sulla pista ciclabile che mi porta in città, ascoltando la radio in italiano. Ci metto un’ora, se ci andassi in macchina – come faccio quando abbiamo neve o ghiaccio per terra – ci metterei almeno un’ora e mezza, se non due. Arrivata in ufficio, doccia rapida e poi verso le 9 comincio a lavorare. Di solito, per il mio lavoro ho molte riunioni, perché coordino il progetto, aiuto a prendere decisioni, assegnare risorse e modificare i piani in risposta a imprevisti vari. Visto che sono una introversa che fa un lavoro molto socializzante, in genere preferisco pranzare da sola per ricaricarmi. Tra riunioni, creazione e revisione di documenti, la giornata di solito è piuttosto impegnativa e le 16 arrivano velocemente. A quel punto, mi rimetto gli abiti da ciclista e riparto con la mia bici per tornare a casa. L’ora di bici, in compagnia della radio o di un podcast, mi serve per organizzare i pensieri lavorativi e poi metterli da parte, per prepararmi a essere disponibile per la mia famiglia.

Il dopo lavoro è piuttosto tranquillo: prepariamo la cena, magari portiamo i ragazzi alle loro lezioni di musica oppure facciamo un bucato. La cena è imprescindibile come momento familiare, si cena insieme, in genere prepariamo cucina italiana, indiana, o una contaminazione tra le due. L’importante è che sia ricca di verdure, per la disperazione dei figli… Si parla della giornata trascorsa, confermiamo i piani per il giorno dopo, si commenta qualche notizia. Dopo aver riassettato la cucina, ci si rilassa con un po’ di TV o un libro, sul divano con figlia e gatti. L’adolescente di casa in genere sparisce per giocare sul PC. I Roomba e una signora delle pulizie ci aiutano a limitare il lavoro domestico, che di solito sbrighiamo al sabato con lo spesone settimanale. In estate, spesso facciamo dei barbecue e mangiano sul terrazzino, e ai lavori domestici si aggiungono la cura del giardino, del piccolo orto e delle arnie.

Quali sono state le principali difficoltà da affrontare e come le hai superate?

Probabilmente la difficoltà maggiore è costruire una rete di amicizie e di supporto ma non so se dipende dal fatto di essere emigrata o dal fatto di essere introversa e di essere arrivata qui quando, tra lavoro e figli, avevo poco tempo ed energie. Sospetto che, se mi fossi spostata da Torino a un’altra città italiana, sotto le stesse condizioni personali, avrei fatto altrettanta fatica.

Deduco che le difficoltà maggiori arriveranno negli anni della vecchiaia, perché l’assistenza agli anziani malati è molto cara e i piani pensione qui sono strettamente legati al mercato azionario, quindi, rischi che il tuo fondo pensione si riduca proprio quando ne hai bisogno.

E quali, invece, le gioie e le soddisfazioni?

Tralascio le cose personali, che non credo dipendano dal vivere qui, anche se sono molto contenta che i miei figli siano bilingue e si sentano anche italiani.

È senz’altro una soddisfazione lavorare in un campo molto competitivo e selettivo così come essermi costruita, negli anni, una posizione di leadership, nonostante usi una lingua che non è la mia lingua nativa e non goda del network professionale che qui si crea all’università.

Le poche amicizie che ho sono piuttosto strette, a dispetto delle diversità culturali, e molto varie. Credo che in Italia non sarebbe stato così facile confrontarmi con amici e colleghi di così varia provenienza e imparare qualcosa da tutti. Alla fine, il grosso insegnamento del vivere all’estero è proprio che le cose importanti sono spesso le stesse, anche se poi culture diverse le esprimono in modi diversi.

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Che consigli daresti a chi vorrebbe trasferirsi lì?

Consiglio d’informarsi molto bene, e non necessariamente sui social media, su come farlo in modo legale, per non correre rischi inutili. Suggerisco anche di documentarsi il più possibile su dove si andrà a vivere, oggi online si trova di tutto, dalle recensioni delle scuole ai rapporti sulla criminalità, fino alla mappa dei supermercati. Una buona pianificazione riduce le sorprese, che sono difficili da gestire all’inizio di un trasferimento all’estero, momento emotivamente vulnerabile per tante ragioni.

Consiglio, poi, di buttarsi un po’, lasciando perdere gli stereotipi e i pregiudizi. Magari non si trova la “vera” pizza sotto casa ma si sopravvive lo stesso sperimentando, per esempio, la cucina etiope. Le cose che non capiamo, in una cultura nuova, non sono “sbagliate”, sono “diverse”: provate più cose nuove possibile, così da capire cosa vi piace.

Viaggiate molto, se potete: gli Stati Uniti hanno parchi naturali bellissimi e ricchi musei. Approfittatene.

E quali a chi vorrebbe andarci in vacanza?

Vacanza a Boston? Non credo sia una meta per le vacanze ed è un peccato. Boston è una bella città, ricca di storia, con una biblioteca storica bellissima, un acquario interessante e musei che meritano una visita. La natura in Massachusetts è rigogliosa e offre posti interessanti per il campeggio nonché tantissime piste ciclabili o percorsi per camminate nella natura. Sulla costa, ci sono cittadine piccole e carine, con tanti negozi vintage. Purtroppo le spiagge sono belle ma l’acqua è molto fredda, quindi tintarella sì, bagni in mare molto meno. Cape Code è pittoresca e merita una visita!

Puoi suggerire ai nostri lettori dei posti poco conosciuti che, secondo te, meritano una visita?

A Boston, la biblioteca centrale in Copley Square, con la stupenda sala da tè, il Kelleher Rose Garden e poi i tanti pub con musica dal vivo, specialmente quella Jazz. Visitare i pub è una buona idea, anche perché qui ci sono ottime micro-birrerie.

Fuori Boston: Natural Bridge State Park e Rockport.

Se potessi tornare indietro, faresti qualcosa diversamente?

Probabilmente no, ma solo perché anni fa un’analista mi ha insegnato che è meglio usare le nostre energie per far pace con quello che è stato, piuttosto che alimentando rimpianti e ripensamenti, consiglio che cerco di seguire, perché mi semplifica notevolmente la vita.

Cos’hai imparato, finora, vivendo lì?

Probabilmente, avendo vissuto qui per il 50% della mia vita, e quindi per la maggior parte della mia vita adulta, direi che ho imparato soprattutto quello che qui si chiama “adulting”, cioè a funzionare come un adulto più o meno responsabile, il che include anche come comprare un’auto o accendere un mutuo… cose che non saprei fare in Italia!

Progetti futuri?

Principalmente aiutare i miei figli a decollare nella loro vita adulta, preparandoli a uscire di casa da diciottenni quando partiranno per l’università. Possibilmente andare in pensione a 65 anni, così da poter viaggiare un po’ con mio marito prima di essere troppo vecchi per farlo.

I contatti di Monica

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