Fare impresa in Slovacchia

Di Gianluca Ricci

 

C’è un milione di motivi se molte aziende si trasferiscono dall’Italia ai Paesi dell’est Europa. Non sono certo l’aria più respirabile né il clima più mite a spingere a simili decisioni.

Si tratta, più prosaicamente, di una banale questione di soldi.

Oggi il più vantaggioso paradiso economico, adatto a chi vuole cambiare vita, è rappresentato dalla Slovacchia: non a caso la disoccupazione a Bratislava e dintorni raggiunge uno dei livelli minimi di tutta l’Unione Europea, attestandosi a qualche decimale sotto il 4%.

Non si tratta di dumping, però, ovvero quel fastidioso fenomeno in base al quale, ovattando l’impatto di tasse e aliquote fiscali, si riescono ad attirare investitori che altrimenti avrebbero operato altrove; è questione di organizzazione, e anche un po’ di sfruttamento della manodopera, a dirla tutta.

In Slovacchia il salario minimo è inferiore ai 500 euro mensili, cifra che, se moltiplicata per il numero dei lavoratori necessari, può già da sola fare la differenza fra scegliere di far partire una fabbrica in Italia oppure da quelle parti.

In più ci si mettono pure le tasse sulle imprese, mediamente più basse di tre punti percentuali rispetto a quelle che gravano sulle aziende di casa nostra: 21% contro 24%, un’aliquota che garantisce comunque risparmi notevoli se proiettati su grandi numeri, a cui va poi aggiunta quello che a Bratislava chiamano “credito fiscale”, ovvero un intervento normativo a livello statale che garantisce alle imprese che ampliano la sede sul territorio o ne aprono una nuova un’esenzione decennale dal pagamento delle tasse.

Infine i livelli di scolarizzazione della forza lavoro, che non hanno nulla da invidiare a quelli italiani: dati ufficiali dell’Unione Europea certificano che in Slovacchia solo il 7% dei cittadini è in possesso del solo certificato di diploma della scuola media, contro il clamoroso 36% che si registra dalle nostre parti, mentre coloro che sono riusciti ad ottenere un diploma di scuola superiore corrispondono al 70%, contro il 44 dell’Italia.

Meno evidenti, anche se comunque impietose, le differenze fra i laureati: 31% Slovacchia, 26% Italia.

Insomma, una politica scolastica particolarmente efficace ha permesso ai cittadini di quel Paese di raggiungere livelli di istruzione significativamente elevati, una specificità che nel campo del lavoro è stata particolarmente apprezzata da chi ha investito lassù, visto che le maestranze più istruite necessitano mediamente di meno interventi propedeutici, e dunque di meno investimenti da quel punto di vista.

Il dato più eloquente per evidenziare la straordinaria competitività dell’economia slovacca rispetto a quella italiana, che spiega, anche se non giustifica, il fuggi fuggi generale dal nostro Paese delle aziende che possono permetterselo, è però rappresentato dal cuneo fiscale, ovvero la differenza fra quello che paga il datore di lavoro e quello che prende invece il suo dipendente: se in Italia i dati Ocse lo fissano al 47,8%, in Slovacchia invece si ferma al 41,5%.

Significa cioè che l’incidenza di tutte le imposte rispetto al costo complessivo del lavoro è notevolmente più bassa, con tutte le conseguenze del caso.

Un velo pietoso, infine, sul peso della burocrazia, in Italia una delle più asfissianti del mondo: in Slovacchia invece gli uffici lavorano per alleggerire la pressione su chi cerca di fare impresa e ne agevolano richieste e procedure.

Per gli imprenditori italiani ancora una chimera…