Che cosa è l’esterovestizione: definizione e significato

Pratica diffusa, la cronaca ci parla spesso di frodi fiscali in tal senso, l’esterovestizione – “vestire” una società come se fosse estera – è la fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, al fine di sottrarsi al più gravoso regime nazionale. (Cassazione civile, Sez. Trib., n. 2869 del 7 febbraio 2013).

Ciò che induce sempre più gli italiani ad aprire un’attività all’estero è sicuramente la presenza di una burocrazia più snella ed efficiente, ma soprattutto di agevolazioni fiscali spesso assenti in Italia.

Lo scopo principale dell’esterovestizione è proprio di fruire del regime di Paesi a fiscalità privilegiata e, dunque, di ottenere una minore tassazione sugli utili e le plusvalenze di cessioni di partecipazioni. In altri termini una società simula di essere residente all’estero per non essere assoggettata al regime tributario italiano.

Il concetto di esterovestizione societaria

È la Cassazione a definire il concetto di esterovestizione come un tipico fenomeno di abuso del diritto e addossa all’Amministrazione Finanziaria l’onere di dimostrare l’artificiosità dell’insediamento estero.

Il concetto di esterovestizione è collegato, inevitabilmente a quello di residenza fiscale. Difatti, è esterovestito quel soggetto che, pur avendo la residenza (nel caso di persona fisica) o la sede (nel caso si tratti di ente o di società) formale all’estero, ciononostante, al verificarsi di determinati presupposti, espressamente indicati dal TUIR – Testo Unico Imposte sui Redditi -, deve considerarsi fiscalmente residente nel territorio dello Stato italiano.

Ai sensi dell’art. 73 TUIR, infatti, si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato.

L’esterovestizione individua una realtà societaria in cui coesistono due diversi concetti di residenza:

  1. Formale, risultante dall’atto costitutivo o dallo statuto, che identifica il luogo in cui sono determinate le linee di indirizzo organizzativo e realizzativo dello scopo sociale (o per le persone fisiche: iscrizioni nelle anagrafi della popolazione residente);
  2. Sostanziale, che coincide con il luogo in cui le decisioni operative sono realmente determinate dagli organi posti all’apice della struttura imprenditoriale (per le persone fisiche: residenza/domicilio).

L’esterovestizione di un soggetto può essere, dunque, definita come un fenomeno dissociativo fra residenza formale e residenza sostanziale, posta in essere al fine di beneficiare di un regime fiscale più vantaggioso rispetto a quello del Paese di effettiva appartenenza.

Cosa significa essere accusati di esterovestizione

Con lo scopo di rafforzare la lotta all’evasione in ambito internazionale, dal luglio 2006, con il Decreto Visco-Bersani (Decreto Legge 223/2006, convertito in Legge 248/2006), nel testo dell’articolo 73 del TUIR sono stati introdotti i commi 5-bis e 5-ter, recanti la disciplina della presunzione di residenza in Italia di società ed enti esteri, al ricorrere di determinate condizioni.

Ai sensi dell’articolo 73, comma 5-bis, Tuir: «si presumono residenti in Italia, salvo prova contraria, quelle società o quegli enti che, pur avendo la sede legale o amministrativa all’estero, detengono direttamente partecipazioni di controllo ai sensi dell’art. 2359 comma 1 c.c., in una società di capitali o altro ente commerciale residente in Italia e, allo stesso tempo, sono assoggettati al controllo, anche indiretto, da parte di soggetti residenti nel territorio dello Stato italiano oppure presentano un organo di gestione composto prevalentemente da amministratori residenti in Italia».

Sullo specifico punto, l’Agenzia delle entrate nella circolare 28 del 2006, ha precisato che in applicazione della norma in rassegna, il soggetto estero si considera, ad ogni effetto, residente nel territorio dello Stato e sarà quindi soggetto a tutti gli obblighi strumentali e sostanziali che l’ordinamento prevede per le società e gli enti residenti.

Ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, ai fini delle imposte sui redditi, sono da considerarsi residenti in Italia le società e gli enti che hanno per la maggior parte del periodo d’imposta la sede legale, la sede amministrativa o l’oggetto principale nel territorio nazionale.

In virtù di questo la giurisprudenza dominante afferma che “L’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte di società avente residenza fiscale all’estero, la cui omissione integra il reato previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 5, sussiste se detta società abbia stabile organizzazione in Italia, il che si verifica quando si svolgano in territorio nazionale la gestione amministrativa e la programmazione di tutti gli atti necessari affinché sia raggiunto il fine sociale, non rilevando il luogo di adempimento degli obblighi contrattuali e dell’espletamento dei servizi”.

Reato di esterovestizione

L’esterovestizione di per sé non costituisce un reato. Si tratta di un fenomeno; la conseguenza di tale fenomeno può integrare:

  • un illecito penale, un reato a cui corrisponde una pena;
  • un illecito amministrativo ( una violazione amministrativa a cui corrisponde una sanzione).

L’illecito perpetrato da un ente esterovestito, la cui residenza sia stata riqualificata in Italia, consiste nell’omessa presentazione dei redditi o dell’IVA, che rappresenta un illecito amministrativo.

Quando l’impresa ha sede all’estero, ma la maggior parte dell’attività si svolge in Italia, la dichiarazione dei redditi va infatti fatta nel nostro Paese, altrimenti si configura evasione fiscale.

Nei casi in cui venga accertata l’esterovestizione di una società si può assistere alla configurazione del reato di omessa dichiarazione. Detto reato, tuttavia, non può considerarsi sistematicamente perfezionato, non solo perché è necessario verificare il superamento delle soglie di rilevanza penale (considerando altresì i componenti negativi di reddito), ma anche in quanto vi sono diverse fattispecie in cui è ipotizzabile la non punibilità, per carenza dell’elemento psicologico e per sussistenza di obiettive condizioni di incertezza.

Si può perciò dire che in ambito penale l’esterovestizione e, conseguentemente, l’eventuale realizzazione del reato di omessa dichiarazione, dovrà essere sostenuta acquisendo la prova, al di sopra di ogni ragionevole dubbio, della residenza in Italia della società avente sede legale all’estero, vale a dire della circostanza che essa abbia in Italia la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale.

E ciò, come già evidenziato e come confermato dalla Suprema Corte con la sentenza 22 novembre 2011, n. 7739, non potrà avvenire attraverso la sola dimostrazione della realizzazione dei presupposti individuati dall’art. 73, commi 5 bis e 5 ter, TUIR.

Quali sono le pene e le sanzioni in caso di esterovestizione

A livello penale la commissione del reato di omessa dichiarazione, punisce con la reclusione da 2 a 6 anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunta, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l’imposta evasa supera, con riferimento a taluna delle singole imposte, i 50.000 euro.

Analoga pena della reclusione è prevista per chiunque non presenta, essendovi obbligato, la dichiarazione di sostituto d’imposta quando l’ammontare delle ritenute non versate è superiore a 50.000 euro.

Potrebbero anche essere applicate le sanzioni penali previste in tema di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi. La sola punizione amministrativa, prevede il versamento di una sanzione che va dal 120% al 240% dell’imposta non dichiarata.

Come difendersi dall’esterovestizione

Le possibili tutele per il contribuente, atte a consentirgli di evitare detto spiacevole accadimento, sono principalmente tre:

  1. Credito di imposta: attiene alla normativa interna e permette di scontare la somma versata all’estero dal debito d’imposta dovuto in Italia, seppur solo fino ad una certa soglia prestabilita ed ammesse l’identicità di reddito colpito e periodo d’imposta di riferimento.
  2. Il ricorso, invece, fulcro imprescindibile del contenzioso tributario, altro ramo del diritto connesso al nostro argomento di indagine, consente di impugnare l’eventuale atto impositivo emesso dall’Amministrazione Finanziaria, disconoscendone la correttezza e suffragando la propria tesi con elementi fattuali e normativi. Tale possibilità, differente dalle cosiddette procedure amichevoli, permette una difesa anche solamente parziale, limitata, appunto, anche alla sola illegittimità della doppia imposizione.
  3. L’ultima chance di tutela, appurata l’emanazione di un atto impositivo contrario alle eventuali Convenzioni esistenti tra i Paesi coinvolti, consente al contribuente di presentare reclamo (c.d. procedura amichevole) all’Autorità competente del proprio Stato. Il fine, chiaramente, sarà quello di ripristinare la situazione prevista dalle pronunce convenzionali, evitando l’assoggettamento a duplice tassazione.

Casi pratici: Dolce e Gabbana

Uno dei casi più noti di esterovestizione, riguarda quello che ha visto come protagonisti Dolce e Gabbana. Oggetto delle contestazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate: la costituzione in Lussemburgo di una società denominata GADO S.a.r.l., alla quale era stata ceduta per un importo pari a 360.000.000 Euro la proprietà dei marchi della griffe precedentemente posseduti da Domenico Dolce e Stefano Gabbana: operazione realizzata dagli imputati nel 2004 che è stata considerata dagli inquirenti meramente simulata e finalizzata al solo ottenimento di indebiti vantaggi fiscali.

Contro la sentenza del Gup di Milano, che, in estrema sintesi, aveva viceversa ritenuto reale ed effettivo il trasferimento della proprietà dei marchi alla società estera GADO, e di conseguenza aveva ritenuto non sussistenti gli elementi oggettivi di tutte le fattispecie in contestazione, presentavano ricorso per Cassazione sia il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, sia l’Agenzia delle Entrate, in qualità di parte civile.

La Cassazione ha dato ragione ai due stilisti: con le sentenze 33234/2018 e 33235/2018, affermando che la posizione della società lussemburghese Gado Sarl, poi Dolce&Gabbana Trademarks – accusata di esterovestizione – va riesaminata alla luce dei principi del diritto comunitario sulla libertà di stabilimento, un principio fondante dell’Unione Europea che garantisce la mobilità delle imprese e dei professionisti nell’UE.

Come aprire una società all’estero senza rischiare l’esterovestizione

Il motivo principale per aprire una società all’estero, almeno nella maggior parte dei casi, è il desiderio di pagare meno tasse. Ci sono degli Stati che è possibile raggiungere in poche ore e dove è facile avere tasse molto più basse che in Italia. Per esempio a Malta alcune LTD possono arrivare a pagare anche solo il 5% di tasse.

Molti imprenditori, però, non effettuano questo trasferimento in modo corretto, incorrendo nella fattispecie di esterovestizione societaria. Pensiamo a quanti decidono di Investire in Romania, piuttosto che in Bulgaria o Serbia. Come abbiamo visto, chi vuole costituire una società all’estero gestendola dall’Italia deve pagare le imposte al Fisco Italiano, in caso contrario si commette il reato di omessa dichiarazione.

Come evitare l’esterovestizione delle società? Gli imprenditori italiani possono aprire una società all’estero senza rischiare l’esterovestizione, rispettando quanto richiesto dall’Agenzia delle Entrate:

  • L’ubicazione: sede fisica all’estero con tenuta libri sociali e contabili, tenuta di ogni prova documentale e contratto che funga da prova legale dell’effettiva gestione ed amministrazione all’estero dell’attività di business.
  • Svolgere l’attività nel Paese in cui si localizza l’attività d’impresa.
  • Tenuta di ogni verbale del CdA e di ogni biglietto di trasporto aereo o marittimo che può essere utilizzato come prova da opporre all’Amministrazione tributaria.

Società all’estero: la black e la white list dei Paesi

Le mete preferite da quanti vogliono aprire una società all’estero, sono i cosiddetti paradisi fiscali, paesi la cui tassazione è estremamente conveniente.

In generale viene considerato paradiso fiscale uno Stato che:

  • prevede una imposizione fiscale ridotta o l’assenza di imposizione;
  • l’assenza di trasparenza in ambito normativo;
  • il rifiuto di politiche a sostegno dello scambio di informazioni con altri paesi;
  • la mancanza di disposizioni che prevedono il requisito dell’esercizio di attività effettiva sul territorio nazionale.

Sono previste diverse norme antielusive riguardanti varie tipologie di situazioni, e relative sia ai trasferimenti di residenza che alla collocazione fittizia della stessa in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato (Stati c.d. di black list), nonché ad operazioni intercorrenti tra imprese residenti e imprese situate fiscalmente in tali Paesi.

Al contrario è previsto un elenco di Stati con i quali è attuabile lo scambio di informazioni che viene definito white list. Negli ultimi anni tantissime imprese italiane si sono spostate nei Paesi dell’Europa dell’Est: Romania, Ungheria, Polonia, Serbia, Slovenia, Bulgaria, Estonia paradisi fiscali presenti in “White List”. Poi ci sono Svizzera, Lussemburgo, Olanda e Malta.

La lista viene aggiornata ogni anno dal Ministero dell’Economia e dall’Agenzia delle Entrate, come riporta The Italian Times.

In particolare, molta prudenza, è consigliata a quanti vogliono aprire un’attività in Svizzera. Il Paese, infatti, è stato più volte nel mirino delle autorità fiscali italiane che hanno scoperto numerose società formalmente insediate in Svizzera, ma in realtà attive in Italia. Il 18% delle infrazioni, per un ammontare di circa un miliardo, hanno riguardato proprio la fattispecie di esterovestizione, in particolare nel settore dell’alta moda.

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Esterovestizione delle autovetture

Un altro fenomeno legato all’esterovestizione è quello legato al settore del trasporto. Non è raro, infatti, il verificarsi dell’esterovestizione delle autovetture, legato alla circolazione di veicoli con targhe straniere, di fatto sconosciute ed estranee alla Motorizzazione Civile italiana.

Proprio come per le società, chi immatricola un autoveicolo all’estero lo fa con l’intento di risparmiare indebitamente su spese di assicurazione, bollo auto e per evitare l’irrogazione di multe.

La norma di riferimento come contrasto al fenomeno dell’esterovestizione delle autovetture in Italia è l’articolo 93 del Codice della Strada (DLgs n 285/92). Questa norma prevede il divieto per i soggetti residenti in Italia di circolare con veicoli immatricolati all’estero da oltre 60 giorni. Questo a meno che a bordo non vi sia un documento avente data certa da cui risulti il titolo e la durata della disponibilità del veicolo, nel caso di utilizzo del veicolo in leasing o noleggio.

In altri termini i soggetti residenti in Italia da oltre 60 giorni non possono circolare su veicoli immatricolati all’estero e devono procedere alla re-immatricolazione degli stessi in Italia.

Se non è avvenuta la nuova immatricolazione dell’auto in Italia dopo un anno dalla sua importazione, allora è obbligatorio rimpatriare il veicolo. Chi viola la norma è punito con l’irrogazione di una multa di almeno €712,00 (fino a €2.848,00), con l’obbligo di procedere all’immatricolazione del mezzo in Italia entro 180 giorni. In caso di mancato adempimento si applica la confisca del mezzo.

In conclusione

Come abbiamo visto, l’esterovestizione è un fenomeno molto vasto. Si tratta di una fattispecie molto comune negli accertamenti fiscali, ma poco conosciuta da parte degli imprenditori. Per questo motivo, occorre prestare la massima attenzione alla propria pianificazione fiscale in ambito internazionale e tutelarsi da questa pratica illegale.

La cosa importante per evitare problemi è individuare in anticipo eventuali criticità della propria struttura societaria. Solo in questo modo potrete evitare noiosi e lunghi accertamenti fiscali. Per fare questo meglio affidarsi a dei professionisti esperti in questo ambito: dagli avvocati ai commercialisti.