Quale il ruolo dei professionisti in questo scenario?
La loro funzione all’interno della realtà internazionale deve evolversi pur mantenendo le proprie caratteristiche principali. Anche se, infatti, il concetto di “internazionalizzazione” si applica a tutti i percorsi di crescita che le imprese attuano sui mercati esteri, il termine ha assunto nel tempo un significato sempre più specifico, alludendo non più solo allo svolgimento di attività all’estero, ma anche ad una attenuazione della differenza di modalità e metodologie operative, di caratteristiche dei prodotti, di regolamentazione ed omologazione a livello internazionale, sempre per soddisfare le caratteristiche di domanda dei mercati locali.
Oggi si deve parlare di una internazionalizzazione “ragionata”, che cali l’azienda nella realtà dei mercati ai quali si rivolge o nei quali opera. La propensione a “guardare all’estero” da parte delle aziende italiane è stata tradizionalmente elevata in talune aree del Paese e più latente in altre. Oggi questa caratteristica si riscontra in realtà produttive che pure hanno una dimensione modesta, sia in termini di fatturato che di addetti.
Normalmente gli aspetti tecnici e legislativi (contrattualistica, regolamentazione del mercato del lavoro, ecc.) assorbono quasi completamente l’attenzione del management aziendale e/o della proprietà, che sottovalutano, ad esempio, l’importanza delle fonti di finanziamento del progetto di internazionalizzazione. La conseguenza immediata è che spesso le opportunità disponibili, sia a livello comunitario che a livello nazionale o regionale, restano inesplorate, il margine di guadagno dell’operazione si riduce e, a volte, si arriva a compromettere l’equilibrio finanziario dell’impresa.
Individuare la copertura finanziaria più adeguata per un investimento di internazionalizzazione significa in primo luogo avere gli strumenti tecnici per tradurre il progetto imprenditoriale in un piano dei costi e dei ricavi (business plan con conto economico prospettico e relativo cash-flow). Il passo successivo richiede la conoscenza delle varie linee di finanziamento suddividendole per area geografica, finalità di intervento, settore operativo.
Altro strumento di cui le PMI dispongono è la fiscalità internazionale, ovvero di quella leva che si occupa di ottimizzare la tassazione delle scelte economiche, nelle diverse fasi di sviluppo delle attività aziendali all’estero e nel rispetto delle norme esistenti. In questo senso, la pianificazione legale e fiscale riveste un’importanza primaria per qualsiasi azienda impegnata in un progetto di investimento all’estero (penetrazione commerciale e/o localizzazione produttiva). La fase di diversificazione operativa o di internazionalizzazione delle attività può infatti accompagnarsi tanto a soluzioni di tipo tradizionale quanto alla costituzione di società estere in aree fiscalmente privilegiate. Tali scelte devono essere integrate da interventi di tipo innovativo che abbiano come fondamento la validità economica dell’attività di pianificazione fiscale.
Nel concreto, queste soluzioni riguardano ad esempio la dislocazione ottimale, su base geografica, di centri di profitto e centri di costo, la specializzazione delle attività a seconda delle aree stesse, la favorevole localizzazione delle componenti di maggiore valore aggiunto nelle aree più favorevoli. La realtà nazionale spesso ignora questi strumenti ed è nella maggior parte dei casi, legata ad una forma di internazionalizzazione passiva e di marketing saltuario, invece di evolvere le proprie strategie verso un’internazionalizzazione ragionata, attiva, supportata dai vari strumenti fin qui esemplificati e rafforzata da operazioni di marketing totale.
Con il termine internazionalizzazione passiva si intende il commercio internazionale in cui é assente la ricerca diretta del cliente da parte dell’azienda, non esiste una politica promozionale strutturata ma esiste la figura di un esportatore esterno all’azienda che si assume in proprio il rischio di collocare la merce.
In questo caso il marketing è di tipo saltuario, senza adattamento del prodotto, del prezzo, senza studio del target di riferimento. Esemplificando questa situazione, un’azienda di piccole dimensioni rintraccia un agente che lavora principalmente in Giappone, vende la merce al medesimo e non ha alcun tipo di rapporto con il cliente finale giapponese, il quale per l’acquisto, il pagamento ed eventuali proteste si riferirà unicamente all’agente.
E’ evidente che un’internazionalizzazione di questo tipo prevede operazioni di marketing, ma ne è altrettanto evidente la superficialità. In altre parole le uniche azioni in tale senso saranno quelle di analisi dei bisogni di una particolare area geografica (anche se questo viene fatto raramente) e di ricerca di un esportatore.
L’internazionalizzazione attiva, quella ragionata, ha invece nell’azienda esportatrice la protagonista. Questa, infatti, attraverso operazioni di marketing totale, studia il paese di riferimento, ricerca le opportunità, analizza i mercati e la concorrenza, identifica metodi e soluzioni alternative di presenza e di vendita sui mercati, ricerca e seleziona il partner estero, anche finanziario, studia politiche di prodotto, eventualmente rivisitandolo per renderlo appetibile al mercato target e si accolla il rischio relativo all’operazione sul mercato estero.
Spesso questi passaggi non vengono affrontati quando si decide di affrontare un mercato estero, poiché inconsciamente si ritiene che avendo un discreto successo nel nostro paese, questo possa essere un buon “passaporto” per l’estero. Ma è noto come spesso, e questo è il caso, peccando di presunzione si commettano errori. È necessaria una presenza significativa sul mercato internazionale, sia attraverso forme classiche di internazionalizzazione, che attraverso forme più moderne e maggiormente determinanti. Scartato così il semplice commercio con l’estero tramite agenti, restano forme alternative di internazionalizzazione.
Agli imprenditori ed ai dirigenti delle PMI rimane ora la scelta tra una forma di approccio con l’estero ancora di carattere tradizionale, come gli IDE (Investimenti Diretti all’Estero) ovvero flussi internazionali di capitale attraverso cui un’impresa crea od espande la propria filiale in un altro paese, oppure altre tipologie di internazionalizzazione, ad esempio:
– i subappalti ed i decentramenti produttivi internazionali extragruppo (che permettono di disintegrare verticalmente le fasi di ciclo produttivo affidandone una parte ad imprese localizzata in paesi a basso costo di lavoro)
– la joint venture
– altri accordi di cooperazione industriale internazionale.
Ma quale elemento spinge un’azienda verso l’una o l’altra soluzione?
In termini di rischiosità, tempistica di realizzazione e grado di controllo della merce, sia gli IDE che le joint venture, presentano una certa somiglianza; molto diverso è invece il livello di conoscenza e di interattività con il cliente straniero.
Attraverso gli IDE si crea una filiale all’estero completamente controllata dall’azienda italiana e quindi poco integrata nella realtà straniera.
Una joint venture, al contrario, rappresenta un buon mix tra azienda italiana e azienda straniera, che collaborano, al fine di creare un prodotto maggiormente consono alla realtà in cui verrà venduto. E’ come se l’azienda italiana concedesse le conoscenze tecniche e quella straniera le utilizzasse per integrarle al meglio nella società in cui il prodotto finito dovrà essere inserito.
Avvalendosi di queste nuove strategie, l’azienda ha la possibilità di migliorare la propria posizione in ambito internazionale, attraverso la fidelizzazione del cliente, che gode della sicurezza di un prodotto Made in Italy (azienda italiana) ed il maggior contatto con i cambiamenti del mercato estero.
Allo stesso tempo la PMI ha la possibilità di raggiungere altri obiettivi di carattere maggiormente aziendale, come, ad esempio, il conseguimento di economie di scala (possibilità di accedere ad input quali materie prime e forza lavoro a costi inferiori), l’accesso a conoscenze tecniche, la realizzazione di sinergie con altre imprese ed il frazionamento dei rischi.
L’Internazionalizzazione quindi va vista in senso lato, non solo come vendita all’estero, ma deve essere intesa anche come collaborazione tecnologica, cessione/acquisto di know-how, (de)localizzazione produttiva, ottimizzazione delle reti distributive e, più in generale, tutto quello che sposta al di fuori dal territorio nazionale il confine delle aziende.
Il supporto di “tecnici dell’internazionalizzazione” è quindi fondamentale per la correttezza del processo.
A cura di:
Federico Pesiri, STUDIO PESIRI & PARTNERS SRL
e Fabio Chinellato, INFOCANARIE