Federica e la sua vita in Myanmar (ex Birmania)

“Andare via, proprio perché ancora giovane, mi ha fatto ritrovare l’entusiasmo di rischiare e sperimentare cose nuove”. Un rischio che Federica ha affrontato a soli 26 anni e che l’ha portata a trasferirsi in Myanmar (ex Birmania), dove lavora in un’azienda. Un trasferimento causato dalla mancanza di prospettive e dalla stanchezza di subire una situazione che la privava di un futuro stabile. Ora Federica, nonostante le notevoli differenze culturali e la presenza di un governo discriminatorio nei confronti dello straniero, riesce finalmente a vivere una vita dignitosa in un paese che offre grandi possibilità in diversi settori.

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Federica, ci racconti qualcosa del tuo percorso professionale?

Laurea triennale in Economia con indirizzo in Marketing nel 2011 presso la LUISS (Roma); contemporaneamente ho lavorato in una società di consulenza comunicativa, inizialmente come segretaria, poi come aiuto nei team di lavoro, infine come supervisore; carriera sì, ma senza aumento di stipendio e con contratti di consulenza. Così ho lasciato il lavoro e mi sono concentrata sullo studio, pensando che con un titolo superiore avrei ottenuto uno stipendio migliore. Ho terminato l’università e ho frequentato un master in Fashion Management con indirizzo in Buying presso lo IED (Milano). Alla fine del master ho ricevuto diverse offerte di stage, ma tutte con un rimborso spese ridicolo. Così mi sono iscritta nuovamente all’università sotto la pressione dei miei genitori che sono ancora dell’opinione che il pezzo di carta è importante. Circa a metà percorso ero talmente stufa e annoiata che ho ricominciato a cercare lavoro. Sono stata assunta come stagista presso una grande azienda di abbigliamento italiana, lavoravo 10 ore al giorno con la speranza che alla fine dello stage mi riconfermassero, non perché il lavoro mi piacesse molto, ma perché era la mia unica alternativa. Invece non mi hanno riconfermata e ho ricominciato a cercare. Mi venivano proposti solo stage con piccoli rimborsi spesa, se non addirittura senza compenso.

Perché ad un tratto hai deciso di mollare tutto e andare via dall’Italia?

La mia ricerca di un lavoro vero è andata avanti per quasi tre mesi. Ero frustrata e demotivata: avevo un curriculum interessante, voti alti e diversi anni di esperienza lavorativa eppure non riuscivo a trovare nulla. Ho cominciato a cercare lavoro all’estero, ma a 26 anni si è vecchi rispetto a tedeschi o inglesi che terminano l’università intorno ai 23 anni. E noi italiani non siamo sempre stimati all’estro. Al limite della disperazione ho cominciato a chiedere aiuto a tutte le persone che conoscevo. Tra queste il capo di mia madre, che possiede un’azienda vinicola. Alla prima richiesta di aiuto mi ha risposto: “Trovati un marito ricco!”. In seguito ha accettato di spedire il mio CV presso il suoi importatori sparsi per il mondo.

Hai scelto tu il Myanmar o sei stata in un certo qual modo “scelta”?

Sono stata contattata da un signore svizzero che lavora in Myanmar e che mi ha offerto un lavoro.

Quali erano i tuoi dubbi iniziali sul posto?

Il mio primo grande dubbio è stato: “Dov’è il Myanmar??”. Onestamente l’ho sempre chiamata Birmania: Paese asiatico vicino all’India. Non sapevo cosa aspettarmi ed ho cercato di evitare di farmi troppe domande, ho deciso di partire a qualunque costo e mi ripromisi che mi sarei adattata a qualunque situazione. E così è stato: essere arrivata in Myanmar senza aspettative mi ha salvata, lo shock culturale è forte e senza una forte determinazione è difficile adattarsi.

Qual è stata la tua prima sensazione all’arrivo?

All’arrivo mi sono chiesta: “Dov’è la città?”. Ho avuto e ho tutt’ora la sensazione di vivere in un grande villaggio.

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Come si vive a Myanmar?

Il Myanmar come tanti altri Paesi emergenti è composto da due realtà: le grandi città e tutto il resto del Paese. Se si vive in città si riescono ad avere alcuni comfort a cui noi occidentali siamo abituati, come ad esempio supermercati, negozi di abbigliamento, taxi, acqua corrente (non potabile), connessione ad internet (anche se lentissima). Fuori dalle città non c’è nulla di tutto questo. Ma anche quando si vive in città bisogna scendere a compromessi. Ad esempio, la corrente elettrica non è garantita, quindi capita spesso che per qualche ora, anche per giorni, intere aree della città rimangano senza corrente. Molti uffici e negozi hanno dei generatori di emergenza, ma nelle abitazioni non c’è altro da fare che aprire le finestre e aspettare, il che implica restare senza aria condizionata con temperature che si aggirano normalmente intorno ai 30°/35° di giorno e 25°/30° di notte con un tasso di umidità del 70%/80%. Io ho comprato due ventilatori con batterie ricaricabili, si riesce a sopravvivere. Inoltre, gli affitti sono costosissimi, non si trova nulla in stile occidentale al di sotto dei 600$ al mese, come se non bastasse si deve pagare in contanti anticipatamente per un anno. Tuttavia il costo dei beni di prima necessità è basso. Si può mangiare un pasto decente per soli 3$, non appena si capisce dove andare. I taxi sono economici, una volta imparato a negoziare, e non si ha la reale necessità di un mezzo di trasporto proprio. Purtroppo non esiste un sistema bancario, quindi scordatevi di poter usare carte di credito o di trasferire denaro, bisogna premunirsi di contanti. Come è facile intuire, non è semplice iniziare una vita in Myanmare, pertanto è fondamentale lavorare per un’azienda con personale locale che vi possa assistere o conoscere qualcuno del posto che vi possa aiutare durante i primi mesi.

Quali sono i pro e i contro del viverci?

I contro sono veramente tanti, ma sono legati agli standard occidentali di vita. Una volta che ci si è organizzati con la propria casa, si riesce a ricreare un ambiente confortevole e si possono apprezzare gli aspetti positivi. La popolazione locale è molto ospitale ed estremamente curiosa verso gli stranieri, c’è tanto lavoro e la comunità degli stranieri, seppur piccola è molto attiva.

Non ti ha un po’ spaventata questo trasferimento a 26 anni in un posto così lontano sia in termini di distanza chilometrica che culturale?

Spaventata? Direi di no. Come capita a molti la vita in Italia era una continua fonte di frustrazione, non vedevo alcun futuro per me o per la nazione. Onestamente mi sentivo parte di una generazione perduta. Andare via, proprio perché ancora giovane, mi ha fatto ritrovare l’entusiasmo di rischiare e sperimentare cose nuove.

Qual è stata la cosa che più ti ha colpito del posto?

Con il passare del tempo sono rimasta colpita dalle similitudini con l’Italia. Soprattutto la centralità della famiglia. E’ stato come ritrovare dei vecchi valori che noi stiamo perdendo.

Come sono i rapporti con la popolazione locale? E soprattutto, come sei riuscita a superare l’ostacolo della lingua?

La popolazione locale è estremamente ben disposta nei confronti degli stranieri, più si è gentili più si viene apprezzati. Ho socializzato facilmente con molti colleghi: sono estremamente curiosi e vogliono imparare il più possibile. Non è sempre facile frequentarsi in quanto c’è un enorme differenza di disponibilità economica, anche una semplice uscita per andare al cinema per loro è una grossa spesa, inoltre è quasi impossibile pagare per loro, cercano sempre di apparire estremamente generosi. La lingua non è stata un grosso problema. Negli ambienti di lavoro quasi tutti parlano un buon inglese. Anche nella vita di tutti i giorni basta conoscere l’inglese, altrimenti da buona italiana, gesticolo, funziona sempre!

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Quali sono le differenze più evidenti tra la cultura italiana e quella birmana?

Come dicevo prima, sono molte le cose che accomunano le nostre culture, spesso ho la sensazione di vivere in qualche paesello del sud Italia. La centralità della famiglia, i figli vivono con i genitori finché non si sposano, spesso anche da sposati, i genitori influenzano le scelte dei figli e fanno molti sacrifici per assicurargli un futuro migliore. C’è un ritmo di vita tranquillo, molto distante dalle altre metropoli asiatiche. È molto importante l’opinione altrui ed è estremamente diffuso il pettegolezzo. Si usa celebrare matrimoni o altri eventi religiosi (come i nostri battesimi o comunioni) in grande stile, invitando parenti amici e conoscenti, ovviamente spendendo un sacco di soldi. C’è una totale sfiducia nelle istituzioni, ma qui a differenza nostra, hanno ancora paura del passato regime militare, per cui tutti si lamentano, ma nessuno agisce pubblicamente.

Quali sono gli aspetti che potrebbero mettere maggiormente in difficoltà coloro che intendono trasferirsi in terra birmana?

Sicuramente le istituzioni. Se le persone comuni sono ben disposte verso gli stranieri, il governo non lo è per niente. Ci sono diverse leggi che limitano la libertà degli stranieri e li discriminano. Ad esempio, non è permesso l’ingresso in alcune regioni o in alcuni edifici governativi. E se scoprono che uno straniero vive in un appartamento le bollette saranno circa 4 volte più care. Poi esistono tutta una serie di cose che uno straniero non può fare, come possedere totalmente un’azienda o lavorare per aziende che operano in alcuni settori. La cosa peggiore è che la legislazione è piuttosto nebulosa e in continuo cambiamento. Personalmente ho avuto dei problemi con il mio lavoro in quanto straniera, fortunatamente c’è tanta richiesta che in una settimana si trova qualcos’altro e spesso anche meglio.

Per quanto riguarda il lavoro, ci sono maggiori possibilità rispetto all’Italia? E in quale campo principalmente?

Ci sono enormi possibilità e la cosa migliore è che ce ne saranno molte altre nel futuro. Il Myanmar si è aperto alle società straniere circa 3 anni fa, ma non era del tutto pronto. Ora tutte le grandi società internazionali e quelle asiatiche sono interessate ad entrare nel Paese. La strategia degli ultimi anni e forse dei prossimi 2 o 3 è: stabilire una presenza nel Paese in modo da essere pronti una volta che l’economia comincerà la sua impennata. Pertanto, i lavori che oggi sono richiesti sono quelli legati al terziario, il Paese non è ancora pronto per produzioni industriali. Una particolare attenzione va dedicata al settore turistico e della ristorazione, in cui la presenza degli stranieri è anche gradita.

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Puoi dirci qualcosa riguardo il permesso di soggiorno? Si ottiene facilmente?

Dimenticatevi di avere il permesso di soggiorno, conosco persone che sono qui da 20 anni e sono sposate con cittadini del Myanmar e ancora hanno bisogno del visto. Principalmente ci sono i due classici visti, turistico o business, entrambi permettono di restare nel paese per 70 giorni, dopo di che si va a Bangkok e in una giornata o due si ottiene un altro visto all’ambasciata del Myanmar. Dopo 3 o 4 volte che si fa questa procedura si può chiedere un visto per più entrate, ma comunque bisogna lasciare il paese dopo 70 giorni. Il tutto sta nell’ottenere il visto giusto: con quello turistico è assolutamente proibito lavorare, per cui le aziende, anche se vi fanno un contratto, rischiano una multa molto salata e voi rischiate il rimpatrio; il visto business è molto più difficile da ottenere perché serve un invito da una società locale e che non sia sulle Black List. Quindi, se si trova lavoro prima di venire si può fare il visto business, altrimenti si fa un visto turistico, si cerca lavoro e nel momento in cui lo si ottiene, si va a Bangkok a farne uno business (ovviamente a spese dell’azienda). In Italia ci vuole quasi un mese per ottenere qualunque visto per il Myanmar, per cui se si è di fretta conviene farlo a Bangkok, tanto quasi tutti fanno scalo lì.

Per quanto tempo rimarrai a Myanmar?

Non ho una data di scadenza ma credo che mi fermerò per molto più tempo.

E poi, quali sono i tuoi progetti futuri?

È difficile fare progetti precisi sul futuro, il Paese è in continua evoluzione e ci sono continui cambiamenti. Quando sono partita 3 mesi fa lavoravo per una società che oggi non esiste più, il nuovo lavoro è in un settore affine in rapida evoluzione, sembra che ci saranno delle grandi possibilità di carriera, ma non si sa mai. Qui sto imparando che bisogna essere pronti a cogliere le nuove opportunità al volo, ma bisogna avere sempre un piano di salvataggio.

federicacacciavillani@gmail.com

A cura di Nicole Cascione