Incontro Salvatore Fundarò in un bar/libreria di una delle zone emergenti di Barcellona: L’Espai Capra del Poble Sec. Salvatore, alias Turi, è di passaggio, perché è un architetto urbanista siciliano che lavora per le Nazioni Unite a Nairobi. Turi, 46 anni, con una laurea in architettura conseguita a Palermo, si è trasferito a vivere a Barcellona nel ’97. Oltre ad aver messo su famiglia – con la moglie, Elisabet Roca, architetta catalana, ha due figli -, ha lavorato per vari studi di architettura, quando, con l’esplosione della crisi (nel 2009), è rimasto senza lavoro. Dopo alcuni anni di sporadiche collaborazioni freelance, viene chiamato a UN-Habitat di Nairobi, dove, oggi, si occupa di progetti urbanistici a livello mondiale.

Turi, come sei riuscito a passare da Palermo a seguire progetti di urbanistica in tutto il mondo come architetto dell’ONU?

Diciamo che si è trattata di una combinazione di molte circostanze … e un po’ di fortuna. La mia formazione e la mia carriera nascono a Barcellona. Messa in valigia la mia laurea in architettura, sono venuto a vivere qui; ho conseguito un master e seguito un dottorato in urbanistica. Questi mi hanno aperto le porte degli studi di architettura della città e, per un breve periodo, persino del Comune. Con l’arrivo della crisi, pero, ho perso il lavoro e, come molti architetti, ho iniziato a lavorare a piccoli progetti freelance. Uno di questi è stato realizzato in uno studio che doveva portare a termine un progetto puntuale per l’ONU. L’abbiamo fatto ed è andato molto bene. Per casualità, questo lavoro era seguito direttamente dal Direttore Esecutivo di UN-Habitat, il barcellonese Joan Clos. È raro che questo avvenga. Evidentemente, era un progetto a cui lui teneva molto. Joan Clos è stato sindaco di Barcellona all’epoca dei grandi progetti urbanistici che seguirono i Giochi Olimpici del ’92 ed era appena entrato in carica.

Di che progetto si trattava?

Questo progetto, come molti di quelli che vengono realizzati ad UN-Habitat, era lo studio e la realizzazione di un nuovo quartiere di Nairobi dove alloggiare le persone che arrivavano da diversi slums della città. Si trattava di creare un quartiere con housing: unità residenziali per famiglie molto povere abituate a vivere in baracche.

UNHCR costruisce, da anni, i campi profughi

Da quanto tempo lavori per l’ONU?

Da circa 3 anni. Quando iniziai, Clos era appena arrivato all’ONU ed ebbe una grande intuizione: creare un team interno di architetti operativi. C’è da dire che, fino ad allora, i progetti non si realizzavano internamente all’Agenzia. L’esecuzione dei progetti richiesti dagli Stati Membri veniva affidata a terzi ovvero a studi di architettura esterni. Con il mio arrivo, Clos pensò di ricreare l’atmosfera della “Barcellona degli architetti degli anni ‘90”. Iniziò così a chiamare a Nairobi queste professionalità per dare impulso alla sua idea.

Che cosa fa, in concreto, questo team di architetti?

Tra le altre cose, pensiamo il futuro delle città a livello mondiale; studiamo le tendenze; aiutiamo i paesi in via di sviluppo a creare modelli di città propri, sostenibili e realizzabili con i mezzi a loro disposizione. A volte, il nostro lavoro consiste semplicemente nel concedere quello che internamente chiamiamo il bollino blu. È, in pratica, l’approvazione di UN-Habitat ai progetti urbanistici dei diversi paesi. Ne hanno bisogno soprattutto quegli Stati che in passato non si sono occupati del medio ambiente. Ora si sono resi conto che il futuro è nella sostenibilità e vogliono mettersi alla pari, se non addirittura all’avanguardia a livello urbano.

È molto difficile avere quest’approvazione?

Lavorare con alcuni paesi sensibili ci permette di aprire delle porte e, per lo meno, di trasmettere delle raccomandazioni su come alcune questioni interne, soprattutto quelle relative ai diritti civili, dovrebbero essere gestite. Possiamo e dobbiamo dare degli imput e questo può contribuire ad apportare dei cambiamenti nella società iniziando con la gestione degli spazi pubblici. Per esempio, in un gruppo di UN-Habitat che ora sta lavorando in Arabia Saudita ci sono 3 o 4 donne al lavoro: un piccolo contributo che può aprire una breccia verso cambiamenti più importanti.

So che sei appena rientrato dall’Arabia Saudita. Dunque, l’ONU non lavora soltanto per i paesi in via di sviluppo ma anche per paesi molto ricchi?

L’ONU non raccoglie tasse, ha un governo sovranazionale e vive degli apporti economici degli Stati Membri. Questi servono per pagare i funzionari, coloro che hanno un contratto fisso. Per la maggioranza dei progetti, invece, si avvale delle sovvenzioni che arrivano dai vari donors. Questi possono essere Stati Membri o no. Siamo spesso chiamati da Paesi, come l’Arabia Saudita o la Cina, per lavorare a progetti specifici. In fondo, per i governi di questi paesi si tratta di trovare anche un escamotage per giustificare alcune scelte che potrebbero essere non accettate dalle frange più fondamentaliste. Una raccomandazione ONU può servire come scusa per apportare cambiamenti altrimenti impensabili.

Con le donazioni dei paesi ricchi riuscite ad aiutare anche quelli poveri?

Può succedere. A volte, riceviamo donazioni da usare per determinati scopi scelti magari dai donanti stessi, che ci permettono di contribuire concretamente allo sviluppo di determinate tematiche sociale: la condizione della donna, il lavoro giovanile, l’ambiente.

Torniamo ai campi profughi.

Per esempio, UNHCR costruisce, da anni, i campi profughi. Loro cercano gli spazi, montano le tende, tentano di impiantare sistemi di acqua corrente, servizi igienici … Come UN-Habitat abbiamo iniziato una nuova collaborazione con loro per fare di questi luoghi, di solito molto desolati, delle vere e proprie New Towns. Se pensi che in molti campi del Kenya vive già la seconda generazione nata lì! Stiamo parlando, infatti, di campi in cui finiscono a vivere per lungo tempo dalle 200mila alle 300mila persone.

UNHCR costruisce, da anni, i campi profughi

Quindi, il tuo lavoro, in questo caso, consiste nel trasformare i campi d’emergenza in zone abitative più stabili, più vivibili, piccole città, insomma.

In un certo qual modo, sì. Si tratta di introdurre nei campi dei criteri minimi di sostenibilità. Ad esempio: orti urbani, housing con un minimo di qualità; casette, al posto delle tende che soddisfino minimi criteri medio ambientali quali il riutilizzo dell’acqua piovana. Cerchiamo di introdurre un disegno urbano, facciamo piantare alberi lungo le strade, disegniamo zone verdi.

Esiste già un progetto pilota?

Sì. In questo periodo, stiamo lavorando alla costruzione di un campo che si trova nel Nord del Kenya, al confine con il Sudan, un paese in guerra da molti anni.

Perché c’è una sede distaccata dell’ONU a Nairobi che si occupa di architettura?

Non conosco la storia esattamente, però, a suo tempo, fu deciso che non tutte le agenzie delle Nazioni Unite si trovassero a New York, a Ginevra, a Roma o a Parigi. Due agenzie furono distaccate in Africa, a Nairobi: l’UNEP (programma per l’ambiente) e UN-Habitat (programma per gli insediamenti urbani). Dal mio arrivo in UN-Habitat siamo passati da 2 o 3 persone a un piccolo team internazionale di 12 individui. Io rispondo a un architetto, un altro urbanista italiano, poi ci sono due olandesi, un ragazzo spagnolo, una ragazza libanese un’altra finlandese … e penso che ci ingrandiremo ulteriormente.

Quali consigli puoi dare a un italiano che vuole fare la tua esperienza. Ci sono possibilità attualmente?

Sì. Per esempio, un giovane può iniziare a collaborare come volontario con una ONG. Inizia a lavorare sul campo e ad avere i primi contatti anche con l’ONU. Può entrare, così, in contatto con le Risorse Umane, uno dei mezzi classici attraverso il quale accedere a una carriera all’ONU. Qualsiasi persona può inviare il proprio curriculum sul sito delle Nazioni Unite ma i contatti diretti sono comunque importanti e costituiscono spesso il primo passo. Molti giovani, poi, entrano come borsisti ovvero stagisti non pagati per una durata di 6 mesi. Se sono bravi, a volte, vengono presi a lavorare. Si può entrare anche tramite volontariato. Questo è un sistema che permette di lavorare per uno stipendio minimo, pari a 1.000 dollari al mese, per alcuni mesi ed è sempre un modo per entrare nella rete dei contatti, dimostrare se si vale ed eventualmente essere assunti in un secondo tempo. Io direi che se un neolaureato ha 6 mesi della sua vita a disposizione e non ha ancora ben chiaro cosa vuole fare, può andare nel sito dell’ONU e fare domanda come borsista. Qualsiasi cosa succeda dopo, resta comunque un’esperienza consigliabile.

Quali sono i criteri minimi per essere presi in considerazione?

Innanzitutto, la conoscenza di almeno una delle due lingue ufficiali: inglese e /o francese. Poi, eventualmente, un master o un’esperienza sul campo che, di solito, viene convalidata.

Come si vive a Nairobi?

Nairobi è una città, dove, se tutto va bene, ci si annoia! Come qualsiasi altra grande metropoli subsahariana, le attività culturali sono poche, le differenze sociali ed economiche fra bianchi e neri enormi, criminalità e terrorismo islamico sono in forte aumento…Da “Bianchi” si vive comodi, ma blindati nei propri quartieri “per ricchi”; ci si muove solo in macchina (soprattutto di sera) da un posto sicuro a un altro. L’essere bianco, e quindi ricco, ti converte automaticamente in un obiettivo per molti.

Di Paola Grieco – Barcellona