La scorsa puntata abbiamo parlato dell’inflazione e di quali strumenti si servono le autorità monetarie per controllarla quando ci sono segnali di un aumento eccessivo di questa. Quando la situazione storico/finanziaria è esattamente opposta, le banche centrali eseguiranno interventi di segno esattamente opposto a quelli cui si è accennato la volta scorsa ove si ipotizzava una inflazione crescente. Quindi avremo dal lato del costo del denaro una diminuzione dei tassi di riferimento (della BCE ad esempio) e, dal lato della quantità di moneta presente nel sistema, un incremento di questa attraverso operazioni di mercato aperto che si propongono come scopo di rendere disponibile una maggiore quantità di denaro e facilitare l’accesso al credito.
Questi interventi non hanno lo scopo diretto di far aumentare l’inflazione ma di stimolare lo sviluppo economico perchè, con ragionamenti di segno opposto a quelli intrapresi la puntata precedente, il minor costo del denaro e la maggiore quantità di moneta resa disponibile nel sistema stimoleranno l’aumento soprattutto degli investimenti (dal lato della produzione/offerta di beni e servizi). Si parla quindi di manovre monetarie “espansive” del PIL.
Ovviamente anche il lato della domanda si avvantaggerà di questa maggiore facilità di accesso al denaro (ad esempio perchè i prestiti personali avranno tassi minori e quindi più appetibili) il che ricreerà le condizioni per un incremento finale dei prezzi di beni e servizi. Ora la situazione attuale del sistema Europa è proprio di inflazione molto bassa o di deflazione. Il costo del denaro (tassi di riferimento BCE) è ai minimi storici e l’unico modo di incentivare ulteriormente l’economia è attraverso operazioni di iniezione di liquidità (Quantitative Easing).
Ossia, non potendo ulteriormente abbassare i tassi, la Banca Centrale Europea è costretta a immettere denaro ritirando dal sistema titoli di credito. Tutto ciò per evitare la deflazione che, per incredibile che possa essere, è un male peggiore, in certi contesti, dell’inflazione stessa. A questo punto, per tirare le fila di tutto il discorso delle puntate sino ad oggi, ci manca ancora un anello della catena: dobbiamo parlare dei titoli di stato. In realtà i titoli di stato si inquadrano tecnicamente nella categoria delle obbligazioni di cui abbiamo accennato nelle puntate precedenti. Si tratta quindi di una forma di finanziamento che invece di beneficiare una impresa privata o una banca, beneficerà i conti pubblici, ossia lo stato. Lo stato emette vari tipi di obbligazioni con caratteristiche diverse a seconda delle esigenze di liquidità che deve coprire. Ad esempio avremo i famosi BOT, per ottenere finanziamenti a breve termine che servono per coprire spese a breve termine, oppure i CTZ che servono per esigenze di finanziamento a medio termine e i BTP che coprono generalmente esigenze finanziarie a lungo termine.
In genere i titoli di questo tipo vengono chiamati BOND o BUND (in Germania). Molto conosciuto è divenuto, suo malgrado, il BUND decennale emesso dallo stato tedesco e che funge da riferimento per valutare la salute delle finanze degli altri stati. Ciò avviene comparando il differenziale tra il rendimento dei BUND tedeschi di durata decennale con analoghi titoli decennali emessi, ad esempio, dallo stato italiano (BTP decennali). Detto differenziale è stato denominato SPRED ed in questi ultimi anni è divenuto tristemente famoso per avere toccato valori molto alti.
Ciò sta a significare che i titoli di stato italiani, per essere appetibili in relazione al rischio che un investitore ha nel sottoscriverli (rischio di perdere tutto il denaro se i titoli non vengono rimborsati per mancanza di fondi dello stato stesso) devono offrire rendimenti molto più elevati rispetto agli analoghi titoli tedeschi che sono, invece, considerati i più sicuri sul mercato.
Infatti va chiarito che i titoli di stato, quando vengono emessi o sono collocati sul mercato, devono trovare dei sottoscrittori/compratori disposti a investire somme pari al loro valore per avere in cambio il rendimento promesso. E detti investitori saranno disposti a correre il rischio del mancato rimborso solo se i rendimenti di tali titoli saranno in grado di compensare detto rischio. Va da sé, pertanto, che quanto mai alto il rischio che si corre nel comprare/sottoscrivere certi titoli di stato, tanto maggiore dovrà essere il rendimento offerto da detti titoli perchè esistano investitori disposti a comprarli/sottoscriverli. Quindi tanto maggiore il differenziale (SPRED) tra il rendimento dei titoli italiani e quelli tedeschi (considerati come detto i più sicuri) tanto maggiore il rischio di chi li compra/sottoscrive. E se il rischio è tanto maggiore vuol dire che lo stato che li ha emessi non se la sta passando bene dal punto di vista finanziario.
Dobbiamo aggiungere al mosaico anche il fatto che gli investitori dei titoli di stato (di qualunque stato ovviamente) possono essere divisi in due grandi categorie: investitori interni ed investitori esterni. Gli investitori interni sono, ad esempio, le banche, le imprese, le istituzioni pubbliche e i cittadini dello stesso stato che emette i titoli. Mentre, logicamente, quando si tratta di banche straniere, imprese straniere, istituzioni pubbliche straniere o cittadini di altri stati, avremo la categoria degli investitori esterni.
Questo aspetto non è secondario perchè quando si verifica una situazione di DEFAULT, ossia lo stato non ha più i soldi per rimborsare tutti i titoli che ha emesso, deve essere presa la decisione di favorire (con i pochi fondi eventualmente rimasti) gli investitori esterni o quelli interni. Quando si verificò una delle ultime grandi crisi finanziarie dell’Argentina, a cavallo tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, il governo argentino dovette fronteggiare un inizio di guerra civile e per evitare il peggio decise di favorire, per quanto possibile, gli investitori interni a discapito di quelli esterni. Quando, anni prima, accadde la stessa cosa in Russia, lo stato, avendo i mezzi e il potere per poter controllare eventuali sommosse interne, decise di favorire gli investitori esterni (di cui aveva estremamente bisogno) a discapito di quelli interni.
Quando si verificano crisi di questa portata chi ci va di mezzo quasi sempre sono i piccoli risparmiatori che non hanno voce in capitolo. A tal proposito basta vedere quanto accaduto in Grecia recentemente. Oltre a perdere i soldi investiti nei titoli del proprio stato, i piccoli risparmiatori sono stati penalizzati anche dalle drastiche misure di emergenza che lo stato ha dovuto emanare per fronteggiare la situazione.
Il problema è che l’emissione di titoli di stato incontrollata può apparentemente sembrare un ottimo sistema per raggranellare denaro al fine di permettersi spese senza senso da un punto di vista economico/finanziario (ma magari molto utili per garantirsi voti, ad esempio). Uno stato, finchè gode di una certa fiducia da parte degli investitori (nazionali o esteri non fa molta differenza), può emettere titoli in gran quantità, salvo poi trovarsi dopo alcuni anni in grave difficoltà per rimborsarli o per pagare i semplici interessi periodici. Però con tutto il denaro raccolto grazie a dette emissioni può offrire un tenore di vita ai propri cittadini molto allettante che garantisce voti per molto tempo. Ma arriva il giorno in cui bisogna rimborsare i titoli in scadenza e per far questo bisogna avere le risorse necessarie. E se non si dispone dei fondi necessari bisogna ricorrere ai prestiti internazionali tipo Fondo Monetario Internazionale. Ma se non si dispone di sufficiente credibilità risulta difficilmente percorribile anche questa strada e si può arrivare al “gioco del ricatto”: il governo (come ha fatto appunto quello greco) dice che se non gli viene concesso un ulteriore prestito dichiarerà il DEFAULT, e così facendo azzererà il valore dei titoli di stato emessi sino a quel momento. A questo punto si tratta di vedere chi sono i principali investitori che sarebbero danneggiati da una simile decisione. Nel caso della Grecia erano le banche tedesche e francesi, le quali avevano massicci investimenti in titoli di stato greci.
Ecco perchè Germania e Francia si sono preoccupate molto di risolvere la situazione e pur minacciando e criticando il governo greco sapevano di fare rischiare molto le proprie banche. Quando intervenne il primo “salvataggio” della Grecia, in realtà le banche tedesche e francesi ( e anche tutte le altre che avevano titoli greci, incluse quelle italiane) dovettero accettare una “ristrutturazione” del debito pubblico greco (termine sintetico per indicare l’insieme dei titoli pubblici emessi) con l’effetto di garantire il rimborso di una parte dei titoli (poco più del 40% appena del valore e con scadenze maggiorate); ma l’altra parte si è irrimediabilmente persa.
Bene siamo finalmente arrivati a parlare di avvenimenti piuttosto recenti, è giunta dunque l’ora di cominciare a tirare le fila di tutto il discorso fatto sino ad oggi. Lo faremo al prossimo appuntamento.
Stefano Gentile