Per comprendere meglio l’enorme divario fra l’Italia e gli altri Paesi, ecco alcuni dati: in Italia la tassazione media sugli utili d’impresa è del 31,4%, mentre nella vicina Svizzera, ad esempio, è del 20% e in Slovenia si attesta al 18%. Se poi sommiamo alla tassazione sugli utili d’impresa la tassazione sul lavoro, si arriva ad uno sconcertante 68,6% contro il 48,2% della Germania per esempio o contro il 37,3% del Regno Unito o il 21,2% del Lussemburgo. Quindi, nel Bel Paese non c’è solo il temutissimo fenomeno della “fuga dei cervelli”, ma anche quello della “fuga delle imprese”. Se nel passato il numero era stato abbastanza contenuto, negli ultimi anni è lievitato notevolmente, passando da un +4,5% ad un +65%. Osservando i dati, si nota come la Francia sia il Paese con il maggior numero di imprese partecipate da imprese italiane, ben 2.562 (9,4% del totale); seguono gli Stati Uniti (2.408 e 8,9% del totale) e la Germania (2.099 e 7,7% del totale). Mentre, la Lombardia è la regione italiana che presenta il maggior numero di investitrici: 9.647, seguita dal Veneto con 3.679 imprese e dall’Emilia Romagna (3.554). Messe tutte assieme costituiscono oltre il 72% del totale delle imprese che hanno lasciato il nostro Paese. Se da un lato la delocalizzazione tende ad aumentare la competitività di un’attività produttiva, dall’altro si corre il rischio di far crescere la disoccupazione nell’area in cui essa ha origine.

Ciò rischia di avvenire se i lavoratori espulsi dalle attività produttive non sono reimpiegati in altre attività presenti in loco. Ma quali sono i settori più interessati da questo fenomeno? Quasi un’impresa su due opera nel commercio all’ingrosso, a queste seguono le industria manifatturiere e quelle logistiche. Ovviamente tutto questo ben presto porterà un maggiore tasso di povertà nel nostro Paese, con conseguenze disastrose.

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