Pietro: “Un italiano a Okinawa” ci racconta la sua vita in Giappone

A cura di Nicole Cascione

Pietro Scòzzari, bolognese, cinquantotto anni, un passato da fotografo e scrittore, è finito quasi per caso a Okinawa, alla fine di un viaggio per scrivere un servizio per Panorama Travel che fu.

Stanco dopo circa un quarto di secolo passato tra aerei e valigie, lì ha trovato: “una seconda moglie, due gatte e un ambiente in buona parte adatto a me, anche se ero e sempre sarò un alieno”.

Pietro, quali sono state le tue prime impressioni una volta arrivato a Okinawa?

A un ospite neozelandese dell’ostello in cui alloggiavo dichiarai, estasiato (venivo da sette settimane in Cina): “Per la prima volta in vita mia sono in un nuovo Paese da quindici giorni e non ho ancora trovato nulla di fastidioso”, una sensazione mai vissuta prima. Poi, con il tempo, ovvio, anche qui emergono cose parecchio fastidiose: il cemento che copre tutto, gli alberi sterminati, la natura vista solo come ostacolo o strumento di lucro; ah, vorrei anche aggiungere l’ananas su certe pizze e la panna su certe carbonare.

Pietro Scòzzari

Quando e perché nasce “Un italiano a Okinawa”?

Dopo un po’ che sono arrivato nell’arcipelago ho deciso di scrivere un blog su Okinawa, in parte per promuoverne gli aspetti positivi e farla conoscere ai miei compatrioti, ma anche per costruirmi qualche nuovo contatto. In breve, diverse persone hanno iniziato a scambiarmi per l’ufficio del turismo o di collocamento e ho chiuso i rubinetti. Mi sono arrivati addosso contatti indesiderabili. Il blog si è quindi trasformato in una specie di diario dedicato alla mia condizione di alieno in terra venusiana. Di scarsa utilità per chi viaggia, ma per me utile a scaricare un po’ di micro-frustrazioni da dis/integrato.

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Di che cosa ti occupi?

Oggi la mia attività principale è quella di vendere dischi in vinile. Ho avuto la fortuna di essere finito nel Paese che produce i dischi di qualità migliore dell’intero Creato. Amo la musica e spacciarla mi fa sentire meno anziano. Di recente mi sono unito a un negozietto piccolo, ma agguerrito nella città in cui abito. Nonostante il mio giapponese da bambino dell’asilo, mi sfido costantemente con la Spett. Clientela. A volte riesco addirittura a capire che cosa vuole. Vendo anche oggetti vintage europei, quelli che in Italia sono svenduti nei mercatini dell’usato, ma che qui sono esotici. Da quando sono qui forse mi sento più europeo che italiano. Ho insegnato l’inglese e la lingua e la cucina italiane, ma dopo molto sudore ho capito che (1) amo insegnare solo a chi davvero vuole imparare qualcosa e (2) odio insegnare a chi insiste a infilare l’aglio dappertutto. Continuo a vendere le mie foto online, nel senso che un’agenzia le vende, però da qualche anno annaspa e ha smesso di pagarmi. Non credo più di poterlo definire un lavoro. Per pagarmi le caramelle, ogni mercoledì mattina tengo un micro-corso di notizie internazionali in inglese. Forse serve più a me, per mantenere il cervello attivo, che non ai miei attempati studenti per imparare la lingua di Shakespeare. Infine, ogni tanto faccio volontariato per aiutare i gatti randagi, anime innocenti in lotta quotidiana contro le auto e il cemento che fagocita tutto.

Pietro Scòzzari

Quali sono i pro e i contro del vivere in Giappone?

La lingua può essere un ostacolo, soprattutto per quelli come me che sono arrivati qui fuori tempo massimo (cervello già stagionato) per poterla assorbire e che non l’hanno studiata prima. Ma a Okinawa, per fortuna, ci sono un po’ di giapponesi che parlano l’inglese o addirittura l’italiano, più una folta comunità di espatriati di provenienza assortita. Alcuni sono pure persone decenti. I vantaggi di qua? La gente non urla gli affari suoi al telefono/fuma in faccia sui mezzi pubblici e dovunque. Nessuno cerca di investirti mentre attraversi la strada sulle strisce pedonali. Se davvero vuoi lavorare, qualcosa da fare la trovi. Già questi tre elementi mi sembrano sufficienti per una vita da emigrato.

Dal punto di vista professionale, quali differenze hai potuto notare rispetto all’Italia?

Qui, per una strategia di stabilità voluta dagli Alti Livelli, c’è la massima occupazione, anche se il Paese è in recessione e i prezzi aumentano costantemente. Conosco un sacco di gente che fa lavori assolutamente inutili, se non per l’utilità di portare a casa uno stipendio. Forse in Italia non avrebbero vita lunga. Qui, inoltre, c’è un cieco servilismo nei confronti del Capo, il quale ha sempre ragione, anche se non ce l’ha. In Italia siamo abituati a mettere in discussione tutto, qui nulla. La scuola giapponese ti educa a essere ingranaggio da ufficio. Io non ho mai voluto frequentare gli uffici italiani, figuriamoci quelli giapponesi…

Che cosa significa essere lavoratori italiani in Giappone? Hai incontrato qualche difficoltà o è tutto più semplice rispetto all’Italia?

L’uomo italiano medio è visto come un playboy, anche se felicemente sposato e fedele. La nomea è dovuta a un campano emigrato qua tanti anni fa e in TV diventato un’icona dell’italiano conquistatore di cuori. Nel lavoro – rispetto alla maggior parte dei giapponesi – siamo più creativi, sorridenti e agitati. Un amico ristoratore mi ha raccontato che a Tokyo preferiscono i pizzaioli giapponesi perché quelli italiani fanno le bolle della pizza una diversa dall’altra, mentre quelli locali…

Un grande vantaggio rispetto all’Italia è che qui la libera iniziativa economica viene stimolata e aiutata, non stangata sul nascere. Se vuoi aprire un’attività prendi una licenza – a costi abbordabilissimi – ti organizzi un po’ e puoi partire in quarta, auto-dichiarando quello che spendi e guadagni. Se fai fortuna paghi tante tasse, se a malapena sopravvivi nessuno ti dà il colpo di grazia, ti lasciano respirare (no, non mi chiamo Briatore).

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Quali sono le cose da evitare assolutamente in territorio giapponese?

Scambiare le case delle persone per marciapiedi (scarpe fuori!), spiegare che Pisa e pizza si pronunciano diversamente (mission impossible), pensare di essere giapponesi (anche se dovessimo parlare giapponese meglio dell’imperatore), drogarsi in strada (ci sono un sacco di poliziotti sfaccendati e non vogliamo fornire loro una scusa per guadagnarsi lo stipendio, vero?).

Qual è l’aspetto che più ti ha colpito del popolo giapponese?

Nel bene: la buona educazione (salvo casi eccezionali/alcolisti), anche se di pura formalità e facciata. Nel male: la capacità di far finta che tutto vada bene, anche quando non è proprio così.

Uno sguardo al futuro e uno al passato. Come sei cambiato in tutti questi anni di permanenza in Giappone e come ti vedi in un prossimo futuro?

Qui mi sono estremamente abituato alla buona educazione che, credo e spero, mi ha contagiato un po’. Credo che oggi farei una grande fatica a vivere in Italia (che ogni tanto visito, con sommo piacere, da turista) o altrove. Questo succede a molti stranieri che hanno abitato in Giappone, rientrare nella giungla di provenienza è un’operazione che ha funzionato solo per Greystoke. In un prossimo futuro mi vedo anziano e, se posso essere sincero, non mi sembra un gran bel vedere.

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