Nessuna scelta obbligata. Ha pianificato di andarsene negli anni dell’Università, dopo alcune visite negli Stati Uniti. Lì e’ rimasto affascinato dal sistema con cui si fa ricerca.
Allora, come ha deciso di mettere radici in America?
Volevo insegnare e fare ricerca nell’Università americana. Il modo migliore per cominciare mi sembrava fare un dottorato là. Ha funzionato.
Ha lasciato i suoi amici, la sua famiglia. Un sacrificio?
Questo cliché della famiglia e degli amici è un po’ abusato. Per me non è stato un dramma, perché non sono stato costretto , è stata una mia scelta di vita. E poi, grazie ai mezzi di comunicazione e a quelli di trasporto, parlo dell’aereo, le distanze fisiche non sono più quelle di una volta. Io ed i miei parenti ed amici ci vediamo e sentiamo più spesso di altre persone che vivono lontane in Italia.
L’Italia le stava troppo stretta, le Università non erano all’altezza delle sue aspettative?
Ci sono diversi centri di eccellenza nell’Università italiana nel mio campo. L’università nel complesso funziona, però, in maniera molto diversa. Ho preferito il modello americano.
Il mito dell’America prende sempre tanti ragazzi. Ma cosa c’è dietro? Un rispetto maggiore per gli studenti e chi fa ricerca?
Sì, ma anche strutture, fondi, meritocrazia, competizione, buoni salari e così via.
Di cosa si occupa?
Di ragionamento automatico orientato alla verifica del software. In particolare, studio e sviluppo tecniche di intelligenza artificiale per scoprire automaticamente errori in un programma, o certificare la loro assenza. L’obiettivo è migliorare la qualità e l’affidabilità del software. Lavoro dal 1999 per la University of Iowa, una Università pubblica nello Stato dell’Iowa.
In Italia non avrebbe avuto le stesse possibilità di affermarsi e fare carriera?
Non saprei dirlo. A giudicare dalla carriera fatta da alcuni colleghi coetanei, forse avrei avuto possibilità simili se fossi rimasto. Per chi comincia adesso però direi senz’altro di no. Conosco tanti giovani dottorati in informatica, persone validissime, le cui prospettive di carriera in Italia sono essenzialmente nulle.
Cosa c’è che non va nell’Università e nel mercato del lavoro in Italia?
I problemi dell’università italiana sono ben noti. Ultimamente si parla molto di baronati, avanzamento per raccomandazioni. Quello che spesso si trascura è che negli ultimi anni ci sono stati pochissimi concorsi e che c’è una spaventosa mancanza strutturale di fondi. Mi preme dire che in Italia ci sono tantissimi ricercatori eccellenti. Molti sono in situazioni di precariato da anni, senza possibilità di uscirne. Tutti, precari e non precari, si devono arrangiare ogni giorno per ovviare alla carenza di fondi e di risorse. Nonostante ciò riescono a produrre risultati di livello internazionale.
Come li considera?
Onestamente non so come facciano. Ho molto rispetto per queste persone. Mi chiedo quant’altro potrebbero fare se avessero a disposizione quello che hanno i loro colleghi in altre nazioni.
E del mercato del lavoro italiano, cosa dice?
Il problema fondamentale è la sua rigidità. La burocrazia e la difficoltà di licenziare portano al risultato perverso che entrare nel mondo del lavoro legittimo è molto difficile. Quelli che già ce l’hanno difendono il posto ed i loro privilegi con i denti. Quelli che non ce l’hanno sono condannati ad anni di lavoro nero, precariato, o alla ricerca di santi e padrini.
Abbiamo intervistato Francesco Dalessandro, barese, che vive a Londra, il quale ha detto che nel Belpaese non c’è meritocrazia. E’ d’accordo?
Direi di sì.
Perché non si premiano i migliori?
Questa è una domanda difficile. Non sono un sociologo, ma mi pare che la meritocrazia sia possibile solo in realtà sociali con forte e diffuso senso civico, rispetto per le istituzioni (ben oltre la famiglia) da parte degli individui, tutela dei diritti degli individui da parte delle istituzioni, senso del dovere e del giusto. In Italia, per vari motivi storici e culturali, queste condizioni semplicemente non ci sono.Ma la cultura americana non è basata su una competitività che alla fine ammazza il più debole, magari volenteroso, ma privo di strumenti?
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Questo mi sembra un luogo comune. La mia esperienza mi porta a dire che chi sa fare e si dà da fare ha successo. E’ vero che le classi deboli sono meno tutelate in America che in Europa. Ma allo stesso tempo la mobilità sociale è molto più alta.
La cultura americana non premia i più “forti”?
Dipende dalla definizione di “forti”. Se vuol dire “potenti”, la cosa è discutibile. In questo senso, la società e la cultura americane sono molto più eque di quella italiana.
Invece, l’Italia chi premia?
E’ risaputo: i più furbi.
Cosa non sopporta dell’America e degli americani?
La cosa che mi colpisce di più sono gli eccessi del consumismo, che comunque comincio a vedere anche in Europa. E poi l’idea diffusa che più è meglio (più grande, più spazioso, più veloce, più zuccherato, più speziato, …). In generale, noto una certa tendenza all’esagerazione, in vari sensi.
Cos’altro odia dell’Italia?
La necessità della furbizia.
Non ha nostalgia dell’Italia?
Non rimpiango niente, perché ho avuto la fortuna fino adesso di ritornarci spesso e continuare a godere delle sue belle cose.
Tornera’ un giorno in Italia?
E’ difficile dire di no con certezza, ma non sto facendo progetti in questo senso.
In genere come trascorre le sue giornate?
Sono molto assorbito dal lavoro che è prima di tutto una passione. Quindi passo la maggior parte della giornata a lavorare in ufficio o a casa. Il resto del tempo lo passo con moglie e figlia. Ogni tanto sono via di casa per partecipare a congressi o visitare collaboratori in accademia o in industria. Tutto qui.
Quale la città in cui vive?
Vivo ad Iowa City, in Iowa, sul fiume Iowa. Per fortuna, non abito in Iowa Street (ce n’è una). E’ una tipica “college town” del Midwest americano. Grande campus al centro della città. Molto estesa in leggera collina, con moltissimo verde e case unifamiliari con il loro bel giardino. Una popolazione variegata grazie ad una università di livello internazionale. La maggior parte delle persone è originaria del Nord Europa. Tutte di una gentilezza squisita. Poco traffico, molto sicura, tasso di scolarizzazione alle stelle, molte famiglie giovani, scuole eccellenti, pochissima disoccupazione. Detta così sembra inventata, ma appare spesso nelle prime posizioni delle prime città più vivibili d’America.
La sera cosa si fa?
La città è medio-piccola (circa 90 mila abitanti). Oltre all’Università c’è un Policlinico. Anche se non sono comparabili con quelle di una grande città, ci sono varie possibilità di distrarsi: teatro, musica di vario tipo, concerti, conferenze. Io e mia moglie, però, abbiamo spesso giornate molto piene e siamo tendenzialmente pantofolai. Preferiamo spesso passare la sera a casa, magari rilassandoci con un film o un libro, quando nostra figlia che ha sei anni, è a letto.
Gli stili di vita sono, è ovvio, diversi. Ma in America non si è spesso in affanno?
L’affanno è una condizione soggettiva. E’ vero che gli Americani sono sempre molto presi. Ma spesso, per lo meno nei ceti medi e alti, è per scelta. Molti sono stakanovisti perché si identificano quasi completamente con il loro lavoro. Agli altri piace riempirsi le giornate ed i fine settimana con mille attività collaterali. Per invitarli a cena a casa tua li devi avvisare almeno una settimana prima, anche oltre.
E il clima?
Aspetto negativo. Le temperature sono polari durante l’inverno. Ma mi ci sono più o meno abituato. E, comunque scappo via in Europa durante le vacanze di Natale.
Per riaccoglierla cosa dovrebbe fare il nostro Paese?
Per me, niente. E’ troppo tardi.
Intervista a cura Cinzia Ficco