Vivere a Pechino: la storia di Dario

Pechino: capitale di un paese che sta facendo registrare uno sviluppo economico straordinario e, apparentemente, senza battute d’arresto. Tradizione e modernità quasi senza controllo, passato e futuro si intrecciano nei giorni e nella vita di questa città sull’onda delle contraddizioni. Un territorio vastissimo e una popolazione in continua crescita fanno di Pechino quasi una nazione all’interno di un’altra nazione. Ne parliamo con Dario Falconi che ci vive e lavora e che ce la racconta con garbo e in modo quasi letterario, restituendoci una sensazione quasi fisica di una città caleidoscopio di stimoli e suggestioni.

Dario Falconi, insegnare a Pechino

Cosa facevi in Italia prima di partire? E dove vivevi?

Viveva a Civitavecchia, piangente (perché si dice sempre “ridente”? “piangente” rende più giustizia a Civitavecchia. Aggettivo non necessariamente negativo ma onnicomprensivo di aspetti amabilmente malinconici e odiosamente lugubri) cittadina portuale in provincia di Roma. Sono un laureato in Lettere Moderne, professore (o aspirante tale), drammaturgo, apprendista scrittore. Insomma: in Italia ero un disoccupato nullafacente.

Per quali giri del destino Pechino è arrivata nella tua vita?

Io e Pechino ci incontriamo per la prima volta nel lontano 1999. Mio padre vi lavora per tre anni. Io avevo appena finito il liceo ed ero attanagliato da una forma virale di tardoadolescenza fastidiosa. Prendete le nevrosi di un tredicenne, sommategli l’ottuso idealismo di un diciottenne e avrete tra le mani un mostro o Dario Falconi a Pechino nel 1999. Questo per dire che la mia percezione della città fu, al tempo, molto approssimativa in considerazione anche del fatto che gran parte dell’anno lo trascorrevo in Italia tra lezioni, esami, partite di calcetto, traumatici innamoramenti e devastanti cene con liceali nostalgici. Dal 2001 all’ottobre del 2010 Pechino, la Cina e l’Asia sembrano scomparire definitivamente dal mio grottesco scenario esistenziale ma un’email inaspettata contravviene a questo fatale destino. Una lettrice presso l’Università di Lingue e Cultura di Pechino (sapete cos’è una lettrice? Se ci sono studenti cinesi che studiano lingua italiana, ci devono essere insegnanti madrelingua. Insomma, un lettore italiano è uno che legge in italiano e parla in Italiano. Scherzo, ovviamente fa anche molto altro: ride in italiano, mangia in italiano, chiede indicazioni stradali in italiano) doveva tornare in Italia per motivi familiari. La preside del dipartimento, la professoressa Zhao Xiuying (illustre italianista), aveva urgente bisogno di trovare un sostituto per il nuovo semestre che sarebbe incominciato nel marzo 2011. Cose da fare: lezioni per i corsi intensivi e di laurea, portare avanti un corso di Letteratura italiana moderna e contemporanea e un corso di latino base per gli studenti del master e un sostegno valido per l’ultimazione del nuovo vocabolario Zanichelli Cinese-Italiano. Lavoro a cui la professoressa teneva molto e su cui sta lavorando da almeno una decina d’anni. Competenze richieste: una Laurea in Lettere e delle pubblicazioni. La lettrice in questione mi conosceva e ha fatto il mio nome. Tempi di risposta strettissimi. Dall’oggi al dopodomani, per dire. Oggi ne parlo con la mia ragazza. Oggi lei mi dice ci pensi? Domani io penso ci penso? Dopodomani la risposta è sì.

Come è stato il primo impatto con questa città?

28 febbraio 2011: Neve. Cielo minacciosamente grigio. Il piccolo appartamento è gelido. L’acqua della doccia è fredda. Dopo un volo di undici ore devo: (nell’ordine) capire chi sono e dove sono e perché sono, incontrare i miei nuovi colleghi, prendere informazioni di varia natura (orario di lavoro, supermercato più vicino, abbonamento a internet, dove prendere qualcosa di caldo tipo guanti, stufe, polenta con salciccia, non necessariamente per mangiarla ma anche per metterci le mani dentro). Insomma, il mio impatto con la città è stato incantevole. Tanti inconvenienti. Poco tempo per pensare.

Che tipo di vita conduci?

Turbolenta-Variabile. Lavoro: dal lunedì al venerdì ho lezione (una media di quattro ore giornaliere), preparazione delle lezioni per il giorno successivo, attività extra-accademiche con gli studenti, riunioni dipartimentali, correzioni esami e imponderabili incognite del momento. Il cosiddetto tempo libero (libero da cosa? Dal lavoro? Forse è un’espressione appropriata solo per chi detesta quello che fa. Non è il mio caso), che per me è sempre equivalente a quello impegnato, è vario ed estremamente eventuale. Oltre alle proverbiali attività dell’ozioso che sono leggere, scrivere, vagheggiare su internet, girare video idioti, guardare incomprensibili telenovelas cinesi, mi lascio coinvolgere nelle più bizzarre attività come tenere un corso teatrale in una casa famiglia per malati di mente nella periferia pechinese o essere assoldato da un fotografo per una importante pubblicità televisiva. Vivendo all’interno del campus di una università di lingue straniere già uscire di casa è un’esperienza esotica e affascinante. Ragazzi di tutti i continenti creano una piccola società multirazziale festosa e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Dario Falconi, insegnare a Pechino

Come sono accolti gli stranieri in Cina? È difficile integrarsi?

Forse sarebbe più opportuno domandarsi come gli stranieri accolgono la Cina. L’equivoco della globalizzazione può ingenerare disorientamenti. Le distanze che la tecnologia ha fisicamente assottigliato restano inalterate a livello culturale, sociale e antropologico. Per fortuna, direi. L’omologazione globale è il delirio al quale stiamo andando incontro. Ho sempre molta difficoltà a parlare di “Cina” sia per una natura compulsivamente avversa alle generalizzazioni sia per l’umana impossibilità di cogliere specificità di un territorio così smisurato e vario. Sebbene esistano condizionamenti linguistici, storico-culturali comuni preferisco parlare di “Cine” (espressione intellettualmente onesta perché in fondo si tratta sempre di suggestioni personali, visionarie. Cinematografiche, appunto). Il cinese che frequento è il pechinese. Orgoglioso e profondamente nazionalista, lavoratore indefesso e austero, il pechinese ha il volto costantemente corrucciato ma dietro questa impenetrabile maschera il più delle volte si cela una natura molto affabile, discreta e ospitale. Integrarsi significa non essere né troppo prevenuti né troppo ingenuamente emulativi. Ogni essere vivente diffida istintivamente tanto dagli scettici per partito preso quanto dagli adulatori in cerca di partito.

Come sono i giovani? Intendo dire se sono lontani dall’occidente come mentalità?

Sono lontani dall’occidente almeno quanto i nostri giovani sono lontani dall’oriente. Per il resto hanno le medesime aspirazioni e paure. Rispetto ai “nostri” sentono di poter ottenere quello che desiderano e appaiono più entusiasti e aggressivi verso ciò che li attende. Anche loro passano gran parte del loro tempo su internet a chattare e a scaricare film e musica, hanno sempre le cuffiette dell’mp3 negli orecchi, coltivano molte passioni, s’innamorano e negano sistematicamente di essersi innamorati.

Insegnare italiano all'estero  pechino

Qual è, per te, l’aspetto più difficile nel rapportarsi ad un popolo così profondamente diverso da noi?

L’aspetto più difficile è accettare razionalmente che sia proprio così diverso da noi. Se lo si affronta con gioiosa curiosità e intraprendente fatalismo, tutto quello che ti capita può rivelarsi intrinsecamente sorprendente. Se, invece, ci si sente minacciati dalla inevitabile “diversità” si rischia (a molti stranieri succede) che il confronto con la Cina traumatizzi. Forse il miglior modo per adattarsi è sentirsi ovunque dei disadattati e accogliere ogni novità come una benedizione.

Ci racconti un po’ la “tua” Pechino? E in cosa riesce a sorprenderti ogni giorno?

Pechino è una città difficilmente “spiegabile” a chi non ci sia mai stato. Probabilmente un turista la potrebbe definire genericamente “brutta” perché in fondo non ci sono molte attrazioni da ammirare (piazza Tian’anmen, La Città Proibita, un paio di Templi e qualche parco). Una città ricostruita e quadrata che si estende lungo un territorio talmente vasto e in rapida estensione di cui è praticamente impossibile individuarne i confini. A volte, più che abitanti di Pechino ci si sente cittadini del proprio abnorme quartiere. Ad esempio io potrei definirmi un woudaokouse perché vivo nella zona università di Woudaokou, piena di caffetterie, locali notturni e ristoranti. In realtà Pechino si nasconde agli sguardi indiscreti e la sua bellezza ossia la sua essenza più intima non è scolpita su qualche glorioso monumento ma è quotidianamente messa in scena dalla placida laboriosità dei suoi interpreti che, nei labirintici vicoli di alcuni suggestivi hutong, vendono di tutto, giocano a carte, ridono di gusto, litigano furiosamente, cantano, guardano la televisione, pranzano, cenano, dormono. Il tutto accade, il più delle volte, contemporaneamente. Ecco, questo riesce sempre a sorprendermi: la voracità caotica, a volte quasi fastidiosa, attraverso la quale fagocitano inarrendevolmente l’esistenza.

Immagino sia una città ricca di contraddizioni, come tutte le grandi città: modernità e tradizione. In cosa è ancora tenacemente legata alla sua storia?

La Cina ha storicamente un rapporto molto controverso con la sua storia e Pechino ne è testimonianza emblematica. Appena qualcosa rischia d’essere annoverata come antica, ecco che viene ristrutturata, nel migliore dei casi, o, più frequentemente, distrutta. Ogni traccia del passato millenario è considerata una minaccia al rinnovamento, un impedimento costante all’edificazione di una Nuova Cina. Quindi, se si vuole cercare “tradizione” nell’aspetto esteriore di questa città si rimarrà profondamente delusi. Eppure, l’elemento tradizionale resta presente come un’impronta marchiata a fuoco nei comportamenti abituali delle persone anche al di là della loro medesima volontà. Insomma, un cinese (con le dovute eccezioni, ovviamente. Le risposte esigono generalizzazione. Perdonatemi) mantiene atteggiamenti, abitudini, educazione e formazione di matrice irrimediabilmente confuciana.

Un italiano a Pechino

C’è qualche angolo o qualche quartiere che ti emoziona particolarmente?

Indubbiamente il Gulou, uno dei pochi quartieri ancora salvi (forse per poco) dal cannibalismo urbanistico. Dedalo di hutong dove si consuma l’autentica vita pechinese tra piccoli ristorantini ed eleganti locali notturni ornati da sensuali lanterne rosse.

In cosa, dal punto di vista personale, ti ha messo particolarmente in gioco e in discussione vivere a Pechino?

Essere stranieri non è mai un’esperienza pienamente appagante. Sentirsi stranieri ancora meno. Pechino in ogni istante ti ricorda che non sei cinese. Tuttavia questo consapevole disagio costante è una terapia d’urto contro l’inconsapevole disagio costante opposto: il provincialismo megalomane.

Dal punto di vista socio-economico che città è Pechino?

La crescita economica è visivamente constatabile. Vengono edificati avveniristici centri commerciali (a volte di pessimo gusto) nel giro di pochi mesi. C’è un entusiasmo contagioso che assomiglia a certe nostre atmosfere dei primi anni ’60. La velocità di questi cambiamenti mette in evidenza contraddizioni e disuguaglianze in modo macroscopico. I lavoratori migranti che arrivano dalle campagne vivono condizioni di estrema indigenza. Una nuova borghesia di arricchiti si confonde per le strade con nuove categorie di poveri. Nelle università c’è fermento e dinamismo.

Che rapporto ha la gente con la classe politica e dirigente che continua a definirsi comunista?

In Cina c’è un regime vecchia maniera. Non ci sono elezioni, non c’è libertà di stampa, censura su internet (o tentativo di… perché i modi per aggirarla ormai ci sono), molta propaganda, ora di politica (leninismo, marxismo e maoismo) fin dalle elementari al posto della nostra ora di religione. A differenza dei cosiddetti regimi democratici il dispotismo del potere non è biecamente esercitato. Il tutto avviene senza ipocrisie. La prevaricazione è ostentata e trasparente. Un orgoglio nazionalista foraggia una specie di generico ed epico sentimento di appartenenza nei confronti del fervore rivoluzionario che condusse Mao alla fondazione della repubblica nell’ottobre del 1949. La classe politica risulta inarrivabile dalla gente e quindi non c’è nemmeno il tentativo di rapportarcisi. Nelle università, come sovente accade, c’è invece grande tensione a tal proposito e non è raro che studenti cinesi facciano ingenue apologie dell’occidente libero e democratico.

Un’usanza, tra le tante, che ti ha colpito profondamente.

Il momento conviviale di un pranzo “importante” prevede un cerimoniale molto coinvolgente dove si assiste a una sorta di ritualizzazione del brindisi. Ogni tanto qualcuno si alza e, prima di porgerti il calice per il consueto tintinnio benaugurante, ti sussurra parole di convenzionale amicizia. Difficilmente si esce sobri da queste abbuffate.

La pagina FB di Dario:

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A cura di Geraldine Meyer