Oggi Alex è sposato e continua il suo impegno verso l’Africa, soprattutto costruendo nel quartiere di Dakar, Pikine, dove è nato, nuove relazioni tra italiani e africani, basate sull’aiuto e il rispetto reciproco. Proprio per questo qualche mese fa il comune di Pikine gli ha conferito la cittadinanza onoraria. L’associazione Chiama l’Africa da la possibilità di visitare l’Africa in modo molto diverso dai soliti viaggi organizzati, secondo il principio del turismo responsabile. Allora “partiamo”.

Alex, come sei arrivato in Italia?

Posso dire che la mia non è la storia di un’emigrazione forzata. Non sono stato costretto ad emigrare da difficoltà economiche, o da mancanza di lavoro. Anzi. Sono infatti nato a Dakar, la mia famiglia mi ha fatto studiare e, finita la scuola, ho vinto un concorso e ho cominciato a lavorare nei cantieri navali del porto di Dakar. Una vita normale, forse anche la possibilità di far carriera. Ma sono sempre stato un sognatore. Fin da ragazzo ricordo che sognavo di viaggiare, di andare a conoscere altre parti del mondo. Così, anche meravigliando i miei genitori, a 18 anni ho deciso di lasciare il lavoro e di mettermi in viaggio.

Sognavo di far amare il Senegal senegalese

E sei arrivato in Italia?

No, in Italia sono arrivato tanti anni dopo.

Viaggio lungo, dunque..

Avevo il lavoro, è vero. Ma nel quartiere dove sono nato, a Dakar, c’erano molti che lavoravano sulle navi. Tornavano e raccontavano di luoghi e di cose che per noi erano sconosciute. Una vera e propria tentazione per me che fin da quando avevo 12, 13 anni sognavo di conoscere il mondo. Così ho deciso di partire. Sono andato in Mali, dove sono rimasto due settimane. L’obiettivo era arrivare in Europa, ma la strada era ancora lunga. Dal Mali sono passato in Algeria, poi in Libia, dove sono restato due anni. In Libia, infatti cercavano manodopera e ho trovato subito lavoro. Guadagnavo anche bene, avevo una piccola impresa edile. Ma la voglia di arrivare in Europa restava forte. Per cui sono partito per la Francia. All’epoca non era difficile arrivare in Europa perchè ancora non era richiesto il visto. Ma non avevo alcun permesso per cui sono restato. Oggi come oggi sarei stato considerato un clandestino, ma all’epoca non era così.

Poi dalla Francia sei passato in Italia?

La strada per l’Italia è stata lunga e non era nei miei obiettivi iniziali. Il caso ha voluto che approdassi in seguito alla culla del Mediterraneo. Intanto mancavo dal Senegal da quasi cinque anni e sentivo nostalgia di casa, dei miei fratelli, di mia madre che adoravo. Non sapevo che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei rivista, quando è morta io ero in Italia in una condizione in cui mi era impossibile uscire in quanto in attesa dei documenti. In quel momento di transito io ero in un limbo burocratico e amministrativo, senza passaporto non sarei più potuto ritornare, mi avrebbero potuto arrestare, sarei andato incontro a innumerevoli rischi e pericoli. Penso sempre a mia madre, alla sua voce, ai suoi gesti. Mi ha sempre chiamato Elhaji (che significa il pellegrino, il viandante) e il nome che lei pronunciava è stato profetico, in famiglia tutti mi chiamano Elajhi, anche mia moglie, che è italiana, quando mi ha conosciuto mi ha detto che non ero fatto per fermarmi ma che sarei sempre andato via e che questo era l’unico modo per farmi tornare. Dopo poco tempo che ero a casa a Dakar ritornò più forte che mai il desiderio di partire. Il desiderio di impegnarmi per il mio paese era fortissimo, il mio continente, la mia gente. Avevo maturato in quegli anni l’idea che l’Africa avrebbe dovuto fare un lungo cammino di liberazione che l’affrancasse dal retaggio neocoloniale. Non poteva bastare l’indipendenza nazionale, l’Africa avrebbe dovuto costruirsi in maniera diversa, senza copiare i modelli che venivano dall’esterno e che di fatto continuavano in forme diverse il rapporto coloniale. Ne discutevo spesso con gli amici del mio quartiere, anche perchè, pur vivendo in Senegal, un paese che con Senghor aveva intrapreso un cammino democratico, ci pareva che, nei fatti, la Francia continuasse a condizionare le nostre scelte nazionali. Già era in atto in quel tempo la lotta di liberazione di molte aree dell’Africa, noi giovani ci sentivamo pieni di speranza e fortemente coinvolti in tutti i movimenti di autodeterminazione dei popoli. Da qui la mia nuova partenza dal paese. Questa volta non in cerca solo di lavoro, ma avevo una missione, un ideale e l’Italia all’epoca mi sembrava il luogo dove potesse nascere qualcosa di buono e di giusto.

Era il 1990. In Italia sono arrivato come turista, si arrivava infatti senza visto di ingresso. Sono rimasto qui, naturalmente come clandestino, anche se allora le cose erano molto diverse da oggi. In 20 anni è cambiato tutto e oggi noi Africani o neri come ci chiamano quando vogliono essere gentili, in questo clima di divisione e di strisciante razzismo ne facciamo le spese per tutti, nonostante noi senegalesi siamo persone profondamente buone, oneste e gran lavoratori. Stiamo pagando un prezzo altissimo perché il confronto che è generato dalla curiosità, dal desiderio di conoscere, ora non esiste più in quanto fondato solo sulla paura. La paura dell’extra-comunitario.

Sognavo di far amare il Senegal senegalese

E come è stato il tuo primo approccio con il nostro paese?

Io sono una persona molto curiosa. Mi piace conoscere cose nuove, scoprire realtà diverse. Mi piace studiare, capire. Il primo impatto è stato molto positivo. Mi trovavo a Roma, una città ricca di storia, bella, tutta da scoprire e da riscoprire ancora. Gli inizi sono stati quindi molto belli, anche se ero arrivato in una città dove ero solo. Non avevo amici. Avevo messo qualcosa da parte per cui nei primi tempi potevo dormire in albergo. Ma i soldi non erano tanti, neanche sufficienti per un mese. A quel punto sono cominciate le difficoltà. La vita è diventata ricerca di sopravvivenza. Ho fatto anche degli sbagli, ho anche incontrato persone e compagnie non giuste. Devo dire che la mia salvezza è stata l’incontro con Napoli. In questa città esisteva un gruppo di persone e un giorno ho bussato alla loro porta. Sono stato accolto e da quel momento è iniziata una nuova tappa. Qui ho incontrato persone che per me sono state fondamentali, che mi hanno dato un esempio di vita, che mi hanno formato e a cui sarò legato per sempre. Permettimi di citarne almeno tre: Padre Federico, Antonio e quello che in quegli anni è stato il mio maestro e che tutt’ora continua ad essere uno dei miei migliori amici, Nicola Albanese.

E’ stato un periodo molto positivo nella mia vita. Tutto era basato sull’incontro, sul confronto, su lavoro e sulla convivenza. In fondo, condividevamo tutto. Per me quei due anni hanno segnato la strada di una vera e propria ricerca interiore.

Alex, prima di andare avanti in questa tua storia, voglio per un attimo ritornare al Senegal, alla tua famiglia. Tuo Papà aveva due mogli, tua madre era la seconda moglie. Un’esperienza che noi facciamo fatica a immaginare.

Sì, c’erano due mogli nella stessa casa. In Senegal vigeva la poligamia, oggi fortunatamente è molto meno diffusa, ma all’epoca era così. Io sono il primogenito di mia madre che era la seconda moglie e aveva otto figli, la prima moglie ne aveva cinque. Abitavamo nella stessa casa: io con i miei fratelli e fratellastri e con il fratello di mio padre, tutti una sola famiglia molto grande, quindi. Il matrimonio poligamico è molto problematico. Nascono spesso conflitti difficili da risolvere. Ho il ricordo di mia madre che spesso non andava d’accordo con l’altra moglie di mio padre e inconsapevolmente entrambe cercavano di coinvolgere anche noi figli nei loro litigi prendendo parte per una o per l’altra. Devo dire che ho avuto la fortuna di trovarmi con dei fratelli e dei fratellastri con i quali sono sempre andato d’accordo e tutt’oggi continuiamo a sentirci e a volerci bene. Mio padre è ancora vivo. Ha l’Alzheimer, ma continua ad essere seguito da mia sorella e dagli altri fratelli che sono rimasti in Senegal circondato dai nipotini sempre festosi e vivaci, non è mai solo.

Poi è avvenuto l’incontro con “Chiama l’Africa”

Sì. Anche quella una tappa fondamentale. Quando è nata “Chiama l’Africa” una comunità di Napoli “il Pioppo” ha subito aderito. Un’associazione che tentava di parlare di Africa in maniera diversa, che non si limitava a proporre una solidarietà basata sull’aiuto, ma voleva far conoscere l’Africa nelle sue potenzialità e nella sua positività. Ricordo lo slogan di allora “l’Africa può” e poi “l’Africa in piedi”. Tanti anni prima di Obama. La prima volta in assoluto che ho incontrato “Chiama l’Africa” è stato appunto a Napoli, nel corso di una iniziativa che si svolgeva all’aperto, con stand, giochi per i ragazzi, momenti di riflessione. Per me si trattava di una scoperta nuova perchè ero abituato a sentire parlare di Africa solo per raccontare drammi o problemi. Una cosa che per un africano spesso diviene umiliante. Quella era un’Africa che non tendeva le mani per chiedere di essere aiutata, ma che interloquiva con gli altri continenti e le altre culture. Antonio, il responsabile di una comunità, mi chiese di andare a Trento, dove si svolgeva un seminario di alcuni giorni, per mettere a fuoco la campagna che poi sarebbe partita per un lungo viaggio in Italia. Tre grandi Tir, allestiti in una mostra virtuale e itinerante che venivano montati nelle piazze italiane e che proponevano una visione positiva del continente africano. Quando ho partecipato all’incontro di Trento non avrei mai immaginato che sarei stato scelto per accompagnare questo lungo viaggio di Chiama l’Africa in oltre 50 città italiane.

Questa per me è stata una nuova opportunità che mi ha, in un certo senso, fatto scoprire di nuovo l’Africa, il mio continente e che mi ha fatto conoscere bene l’Italia.

La mostra è durata circa un anno e mezzo ed io sono stato ospite in ogni città per un’intera settimana. Questo mi ha consentito di scoprire e di poter ammirare i posti in cui mi trovavo non solo visitando luoghi d’arte e di bellezza paesaggistica, ma attraverso l’incontro con le persone, con la società civile.

Sognavo di far amare il Senegal senegalese

Alex, sei stato due anni in viaggio per l’Italia, accompagnando questo evento sull’Africa. Che ricordi hai di quell’avventura?

Si è trattato davvero di una avventura. Ogni settimana una nuova città, una nuova piazza. Nuovi incontri, Nuovi rapporti. Nuovi studenti pieni di domande e curiosità. Ricordo l’inaugurazione di questo evento, a Firenze, in piazza della Repubblica. Ricordo, certo, le autorità: il Cardinale Piovanelli, il sindaco Primicerio, il sottosegretario Serri. Ricordo sopratutto che a Firenze ho incontrato per la prima volta nella mia vita Joseph Ki Zerbo, l’uomo, lo storico che ha dato all’Africa una dignità, una storia che prima le veniva negata. Qualche anno dopo, al termine di un convegno ad Ancona, mi è stato chiesto di accompagnare Ki Zerbo, già vecchio e stanco a Bologna. Siamo andati insieme, sono stato con lui a cena, poi il giorno dopo l’ho accompagnato all’aeroporto. Mi pareva un sogno! Tra me pensavo di essere un privilegiato. Sai, ogni bambino africano della mia generazione, che ha studiato a scuola i libri di Ki Zerbo, ha sognato di poterlo incontrare almeno una volta.

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Poi altre persone: ricordo, ad esempio, il premio Nobel Wole Soyinka. Sono stato due giorni con lui, abbiamo parlato a lungo del continente africano e delle sue prospettive. Per me si è trattato di un vero e proprio privilegio. Di una grandissima opportunità.

Poi i tanti incontri. Il flusso continuo di persone che chiedevano di parlare dell’Africa, che si accalcavano a vedere i materiali che portavamo con noi. Che avevano voglia di discutere, di capire. E’ stato proprio durante questa avventura che, di fronte a tante persone che mi chiedevano dell’Africa, ho pensato che sarebbe stato bello poterle accompagnare a vedere con i loro occhi, a incontrare l’Africa vera. Non quella delle cartoline, o degli stereotipi, ma quella della gente. Ma i fatti da raccontare sarebbero tanti. Così come gli incontri, le tante persone con le quali ho fraternizzato, ho scoperto tanto interesse per la nostra Africa.

Ho solo un rammarico. Durante questo viaggio per l’Italia ho incontrato tante sorelle e tanti fratelli africani. Avrei voluto creare un legame stretto tra di noi, che da questi incontri potesse nascere qualcosa di stabile. Forse non ci ho messo tutto l’impegno possibile, ma devo dire che non ci sono riuscito. Anche se continuo a conservare tante amicizie nate allora, molti si sono persi, le difficoltà e le traversie spesso hanno la meglio sugli ideali.

E in una di queste tappe hai incontrato Nadia

Nadia abita a Imola ma l’avevo vista a Reggio Emilia, a Faenza e a Pisa in occasione della mostra interculturale, qualche minuto per scambiare qualche parola o informazione e poi basta. Il fine settimana spesso lo dedicava a visitare mostre, alla partecipazione di eventi interessanti e tutte le cose di cui era appassionata. Così quando l’ho rivista anche a Imola siamo scoppiati a ridere perché l’avevo già incontrata in molti luoghi dove io ero stato e non capivo se ero io a seguire lei o era lei a seguire me. Il caso mi aveva fatto approdare in quel luogo. Nadia faceva parte dell’equipe che aveva preparato il nostro arrivo e ci ha accolto. Una tappa, quella di Imola, molto ben organizzata. Ovviamente è nata un’amicizia e si scherzava spesso accusandoci reciprocamente di essere l’uno l’inseguitore dell’altro.

In seguito venne a Roma per la conclusione della mostra ed il grande concerto finale, continuammo a frequentarci nel tempo, poi quando nacque qualcosa di più fu inevitabile fare una scelta e mi trasferii a Imola. Poi dopo molti anni di convivenza abbiamo deciso di sposarci. Come sempre dietro a ogni uomo c’è una donna che ispira e condivide progetti e sogni. Perciò ricordo con molto piacere la tappa di Imola. Non solo per questo, ma anche perchè a Imola ho incontrato Don Gigino, allora Direttore del Centro Missionario Diocesano. Una persona che stimo molto, che ritengo quasi un padre. A Imola è stato proprio Don Gigino a darmi un lavoro presso un’associazione che era ospite del Centro missionario diocesano, come animatore culturale. Può sembrare una banalità. Ma tu sai che io provengo da una famiglia musulmana, nonostante questo Don Gigino mi ha voluto a lavorare con lui. Facevo un doppio lavoro: andavo nelle scuole e in diversi incontri a parlare di Africa, lavoravo presso la cooperativa San Cassiano che si occupava di commercio equo e solidale e poi davo una mano in un’azienda meccanica fuori Imola. Io non avrò mai sufficienti parole e preghiere per ringraziarlo.

Sognavo di far amare il Senegal senegalese

Poi è arrivato “ChiAma il Senegal”

Durante il lungo viaggio per l’Italia, avevo incontrato tantissime persone che volevano conoscere l’Africa, ma non ne avevano l’opportunità. Ancora oggi, anche se le cose sono abbastanza cambiate, chi vuole conoscere l’Africa è costretto a mettersi in circuiti turistici che non segnano un incontro con l’Africa. Certo, l’Africa è anche Malindi, o i centri turistici di Zanzibar. Ma conoscere solo quest’Africa è riduttivo. Per questo ho pensato di far qualcosa per far conoscere agli italiani la mia Africa, in questo caso il Senegal. Così ho iniziato ad occuparmi di Turismo responsabile. Il primo viaggio non è stato turistico, è stato tra poche persone, un piccolo gruppo di amici, praticamente pionieri. In quell’occasione abbiamo avuto modo di vivere la vita dei quartieri, dei villaggi, delle associazioni, della società civile, di conoscere tanti ragazzi. Quando sono tornato in Italia ho dato inizio ad un progetto strutturato, abbiamo creato un sito, abbiamo finalizzato i progetti, sono tornato spesso in Senegal per dare continuità ai progetti in collaborazione con le comunità locali. Ho iniziato volendo diffondere un’ idea diversa dell’Africa rispetto al modo in cui viene sempre presentata. In genere qui si dà molto risalto all’Africa come luogo di emergenza continua, di bisogno, di disperazione. La si vede spesso sotto una luce molto negativa. Questa visione è in parte falsa, così come il rapporto che si creava durante i primi viaggi tra turisti e senegalesi, era sbagliato e squilibrato. Io ho cercato di impostare tutto sull’incontro tra le persone, tra la gente. Prima di tutto, le strutture dove andiamo appartengono o sono gestite da senegalesi, sono ben tenute e a basso impatto ambientale quindi rispetto per tutto, per la persona ma ovviamente anche per l’ambiente. In secondo luogo durante il nostro soggiorno cerchiamo di vivere anche la quotidianità, godiamo oltre che delle meraviglie naturali, anche della compagnia della popolazione locale, un dialogo continuo, oserei dire privilegiato.

E’ nato così il tuo impegno nel quartiere di Pikine dove eri nato

Sapevo che a Pikine – oggi comune a parte, il più grande dell’area metropolitana di Dakar – c’erano alcuni vecchi amici che stavano impegnandosi per cercare di dare nuovo sviluppo al quartiere. Ho pensato di partecipare e collaborare con i miei amici. Ho creato un legame con il quartiere, anche grazie all’aiuto delle persone che venivano dall’Italia. Sono nati così diversi progetti. La cosa più bella è che non li abbiamo pensati noi per loro, non li abbiamo imposti dall’alto, ma abbiamo prima conosciuto le comunità locali, instaurato un dialogo con loro per poi collaborare alla realizzazione di progetti pensati e costruiti da loro e per loro. Il primo di questi è stato la realizzazione di un kit anti-malaria, in particolare di zanzariere. Abbiamo finanziato ben 3880 zanzariere. Oltre a questo portavamo anche medicinali e materiale didattico alle famiglie.

Poi è nato un secondo progetto che continua tutt’ora. Quello dell’adozione scolastica delle bambine. Esiste in tutto il Senegal un altissimo tasso di abbandono scolastico da parte delle bambine. Si aggiunga a ciò il fatto che, da molti anni, il governo senegalese non paga nulla alle scuole. Mette a disposizione solo i locali. Tutto il resto, compreso gas ed elettricità, deve essere reperito dalla scuola stessa. Sono le associazioni di quartiere che si organizzano per trovare fondi. Da qui è nata l’idea di questo progetto, partito nel 2003. Abbiamo incontrato il direttore della scuola e sono state scelte 100 bambine fra le più bisognose per fare questa “adozione scolastica”. Ciò significava dare a ognuna di loro il materiale necessario per l’intero anno scolastico e pagare degli istitutori per il doposcuola. All’inizio pensavamo di occuparci solo del ciclo elementare, che dura sei anni. Il primo anno è andato bene, abbiamo raccolto fondi, grazie soprattutto al turismo responsabile. Siamo riusciti ad andare avanti anno dopo anno e adesso 69 bambine delle 100 adottate andranno al liceo. Quest’anno partirà un altro gruppo e per questa ragione abbiamo deciso di seguire le bambine anche negli studi superiori. All’inizio c’era molta diffidenza da parte della popolazione locale, dei genitori, del quartiere. Quando hanno visto che la cosa andava avanti e funzionava, hanno preso a cuore il progetto. Anche il sindaco di Pikine ha capito che è un progetto innovativo, che accompagna le bambine nel futuro. Sono diventato cittadino onorario di Pikine grazie a questo progetto, di cui tutti, ora, si fanno promotori.

Sognavo di far amare il Senegal senegalese

E dei luoghi conosciuti dopo? Prima che arrivassi all’Italia?

Ti avevo accennato che ero stato inizialmente in Mali e poi in Libia dove tra l’altro ci sono moltissime comunità berbere. Ora ChiAma il Senegal propone percorsi anche in Mali nei paesi Dogon dove ho rapporti di amicizia e in Marocco soprattutto nei villaggi berberi, che per le esperienze fatte mi sono familiari. In entrambi i luoghi il fattore comune è l’ospitalità e l’accoglienza ed essendo il Senegal il paese della Teranga che vuol dire appunto accoglienza e ospitalità si capisce come tutto è collegato. Spesso quando mi chiedono cos’è la vita rispondo che per me è la magia degli incontri. Questi incontri di fatto hanno segnato tutti i miei percorsi.

Alex, siamo arrivati alla fine di questa chiacchierata. Solo un’ultima domanda. Continui ancora a sognare come quando da ragazzo ascoltavi i marinai del tuo quartiere che raccontavano le loro storie?

Certo, gli anni sono passati. Ma io sono rimasto quello di allora. Ho fatto tanti incontri nella mia vita. Ho conosciuto momenti belli e anche momenti di estrema difficoltà. Sono partito dal mio quartiere di periferia e ho avuto la fortuna di poterci tornare, dall’Italia, per fare un cammino insieme a quella che oggi è Pikine in cui vive tanta gente che allora non c’era, ma che è sempre la mia gente. Sono in Italia, ma ho l’opportunità di lavorare con e per la mia Africa. Si sono avverati tanti dei miei sogni e forse anche molti di più. Ma quella voglia di scoprire cose nuove e di dare una mano per cambiare il mondo c’è ancora tutta. Per questo, in forme certo diverse, il mio viaggio continua, non potrebbe essere altrimenti, io sono Elajhi (il viandante).

A cura di Geraldine Meyer

www.chiamafrica.it

www.chiamasenegal.it