I miei non hanno mai vissuto più di tre anni nella stessa città; all’inizio fu l’Inghilterra, poi la Scozia, in seguito il salto al di là dell’Oceano, in Texas, e poi di nuovo in Inghilterra. Posso dire di aver trascorso i primi 16 anni della mia vita in nove diverse città. E la chiamavano vita…

mal d'africa

Partire fu una scelta, non una necessità. Decisi che avrei lavorato fuori dai confini italiani come mio padre perché volevo scoprire il mondo con i miei occhi.

La prima tappa fu la Turchia, avevo visitato Ankara da adolescente, una visita fugace. Sulla strada che dall’aeroporto scendeva in città apparve un luogo per me del tutto nuovo, non immaginavo che viaggiare potesse darmi sensazioni così intense. L’Italia era ormai lontana, la Turchia si presentava misteriosa e colorata, non avevo paura, avevo voglia di scoprire. Da quel viaggio non mi fermai più, in pochi anni visitai, lavorando, tutto il medio oriente, Iran e Iraq compresi; ricordo un viaggio particolarmente avventuroso in Afghanistan in auto con due amici, un italiano nel suo anno sabbatico alla ricerca di se stesso e un giovane tedesco alla ricerca di un facile sistema di arricchirsi.

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Infine l’Africa.

La scoperta dell’Africa ha un impatto forte, è insieme una gioia e un dramma. Un cielo azzurro come il mare, così profondo che ti penetra nell’anima, la terra rossa, i fiori delle bouganville e quelli profumati delle magnolie. La gente color pece e gli odori, odori forti che non ti abbandonano mai, per tutta la permanenza in Africa. E poi il mal d’Africa un senso di struggente nostalgia che ti assale. Per chi c’è già stato, tornarci diventa quasi un obbligo, per chi non lo ha ancora fatto, sarebbe un peccato vivere senza mai esserci stati. Ho imparato a conoscere questo ‘male che non fa male’ e che invece provoca sensazioni forti e ti fa sognare anche se vivi fra mille problemi, nella terra più ricca del mondo ma anche in quella più crudele. La ricchezza non viene distribuita equamente, i soldi si fermano in mano ai potenti, in mano a coloro che governano e da lì in un girotondo infernale rimangono senza mai arrivare alla popolazione bisognosa.

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Ho vissuto nel nord della Nigeria, fra sabbia e invasi di grandi dighe inutili alla popolazione, serbatoi di quattrini per i ricchi africani corrotti; nelle foreste impenetrabili del Camerun a costruire strade e ferrovie e poi centrali per produrre quell’energia essenziale allo sviluppo del paese; in Togo cercando di decidere dove e come potevano essere impiegati i fondi della cooperazione italiana; sulle coste di Accra, in Ghana, per creare la più grande centrale a carbone africana che non è mai entrata in funzione, certo non a causa nostra; sono stato in Senegal dove la popolazione sorride sempre e non pensa al futuro incerto; in Burkina Faso dove la gente è poverissima e chiede cibo per strada offrendoti quel poco che ha in cambio; ho costruito una centrale in Zimbabwe, in mezzo alla foresta quando ancora si chiamava Rhodesia e i diamanti erano l’unica merce di scambio; ho visto l’Etiopia ed il Sudan con l’intento di aiutare la popolazione a sopravvivere; ho costruito una diga in Uganda e sono stato in Mozambico dove le ragazze ti fermano ai semafori e ti chiedono un po’ di amore; ho visto le meraviglie del Madagascar e le verdi foreste dove lo scempio umano compiuto in nome del commercio di legno esotico comincia davvero a pesare. Meraviglia, stupore, felicità e tranquillità sono solo alcune delle emozioni che la mia mente e il mio corpo hanno provato vivendo in Kenya e in Tanzania. Paesaggi che ti lasciano senza fiato, dove il caldo, il vero caldo, non ti pesa, dove il paesaggio è formato solo da due colori, quello rosso della terra e quello verde degli alberi. Ogni tanto si incontrano piccoli villaggi, fatti di capanne di foglie, pietre e qualche pezzo di legno. Tra queste capanne gli abitanti, con i loro abiti variopinti, colori forti che dicono qualcosa del cuore di chi li indossa.

Il primo cantiere era vicino a Nairobi, poi a Watamu, un’Africa incredibilmente bella. Le notti mi hanno regalato una tranquillità mai provata, con il fuoco acceso e un cielo stellato, incontaminato davvero difficile da descrivere.

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Ho conosciuto il South Africa ed è stato amore a prima vista.

Dapprima a Johannesburg per sei anni, ho seguito l’evoluzione del paese. Un paese che stava cercando di uscire dall’Apartheid ed entrare, con enormi problemi, in una nuova epoca. Un periodo difficile della mia vita, denso di pericoli e di paure. I primi tempi sono stati in assoluto i più duri, tutto mi appariva surreale, vivevo la violenza di quegli anni come si trattasse di una fiction, mentre per strada accadeva di tutto. All’inizio, soprattutto di notte, mi ritrovavo spesso sveglio e in tensione, in ascolto di un rumore anomalo, di un latrato di cane un po’ troppo insistente, di un cigolio sospetto. Mi alzavo, accendevo tutte le luci in giardino, controllavo. Mi chiedevo come si potesse vivere in quel modo per tutta la vita. Poi, come per ogni dolore o paura, sono arrivato a farci l’abitudine. Dopo qualche mese ero già capace di una sorta di automatismo che mi proteggeva: la notte non mi svegliavo più, sapevo che nel mio cervello ormai si era sviluppata una sorta di spia, pronta a lanciare lampi rossi in caso di reale pericolo. Sapevo che mi sarei svegliato solo in caso di reale pericolo. Me ne andai quando mi offrirono di lavorare in Cina, poi fu il Giappone a stregarmi e l’Indonesia, infine l’Australia dove vorrei tornare, aspettando che la vita scivoli via, lentamente. In seguito sono tornato in South Africa ma a Cape Town per vedere il mare, godere della pace di quell’angolo di mondo. Avevo appeso al chiodo la voglia di viaggiare ma poi con la crisi finanziaria mondiale il lavoro scarseggiava e così ho lasciato la mia ditta di import/export ad un socio e sono ripartito, destinazione Vietnam. A chi pensa che sia giunto il tempo di fermarmi dico che si sbaglia, la prossima meta è tutta da scoprire e sarà…

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Ve lo dico quando ci andrò!

Sergio

sergioinvietnam@gmail.com

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