“Ho mollato il mio Paese -spiega-  nel dicembre del 2003. In quel periodo il vescovo di Padova mi invitò ad accompagnare come missionario una parrocchia del nord di Quito, capitale dell´Ecuador. E questo perché dal 2000, anno della mia ordinazione diaconale, avevo chiesto di essere spedito in una delle missioni della diocesi della città di Sant’Antonio. Nel frattempo, il 3 giugno 2001 sono diventato prete. Ho cominciato a lavorare come pastore nella parrocchia cittadina di S. Bellino, vicino la stazione di Padova. Per due anni. Prima di essere prete e di studiare teologia, mi sono diplomato in ragioneria”.

Fabio Lazzaro, Ecuador

E ora di cosa si occupa?

Dalla fine di aprile, sono disoccupato. Spero di trovare presto un lavoro per sostenere le spese della mia famiglia. Siamo in tre. A giugno di due anni fa, dopo un periodo di riflessione, ho deciso di lasciare il sacerdozio. Qui si chiama “padrecito”.

Perché?

Non condividevo alcune regole della Chiesa. E poi il Signore mi ha fatto incontrare una donna splendida e speciale, che si chiama Olga, e che  ora è mia moglie. Ci siamo sposati con un rito ecumenico, afro, per l’esattezza, il 25 settembre 2010 e poi con un rito civile, nel municipio di Quito, il 23 marzo scorso. Tra il 2009 e il 2010 ho lavorato come coordinatore sociale nella Fundaciòn MCCH (Maquita Cushunchiq Comercializando como Hermanos) nella provincia di Cotopaxi, una delle più povere dell´Ecuador. Negli ultimi mesi sono stato responsabile del magazzino di un’azienda di vendita e distribuzione all’ingrosso e al dettaglio di Latacunga,  dove avevamo casa fino ad aprile scorso.

Dunque, è stato il Signore a metterle sulla strada l’Ecuador e sua moglie.

Sì, non ho scelto io questo Paese. Sono stato mandato e ci sono rimasto, colpito dalla vita semplice delle persone che ci vivono e dalla loro capacità di sopportare le ingiustizie. Senza contare che parliamo di una terra  ricca di bellezze naturali e di grandi tradizioni culturali. L’Ecuador è entrato in me e non è più uscito.

Ma ora dove vivete?

Ci siamo spostati ad Ibarra, meglio dire Juncal, dove vive una comunità di persone di colore, contadine. Si trova ad un’ ora di bus da Ibarra. Abbiamo scelto questo posto per condividere la vita della gente povera di qui. Io e mia moglie aiutiamo le famiglie ad alzare la testa, a riconquistare la dignità perduta, insomma,ad organizzarsi per raggiungere un livello di vita migliore. Altro obiettivo per noi è tutelare i valori della cultura afro, che si stanno perdendo.

Ci descrive il posto in cui vivete?

Premetto che ad Ibarra facciamo spese. Nella comunità di Juncal è nata mia moglie. E’ povera, ma con una grande cultura. Gli abitanti discendono dagli schiavi venuti dall’Africa, che lavoravano duro nelle grandi estensioni di terra. Si tratta di un’ etnia ancora molto emarginata in questo Paese e che subisce ogni giorno discriminazioni.

Cosa l’ha colpita subito?

Da sempre mi colpiscono: la forza interiore delle persone, il loro senso del divertimento, il loro spirito di libertà e la loro capacità di essere diretti nella comunicazione. A volte risultano persino  sgarbati. E poi il coraggio delle donne, che portano il peso di tutta la famiglia, visto che gli uomini lavorano poco e spesso lasciano loro la guida e l’educazione dei bimbi.

E il paesaggio com’è?

La comunità è situata al confine tra due regioni (Carchi al nord e Imbabura al sud). E’ lambita da un fiume. Lì, gli abitanti fanno il bagno tutti i giorni, si lavano e lavano pure i piatti. Intorno montagne. Viviamo a circa 1550 metri. Per questo fa caldo, ma non troppo, come sulla costa. Le temperature sono pari a quelle che avete in Italia tra giugno e luglio. E’ una zona abbastanza secca, anche se, strano, quest’anno sta piovendo molto. Si trova a quindici minuti da un centro turistico, ricco  di complessi balneari con piscine. Le potenzialità di crescita di questo posto sono enormi. Il turismo è una voce importante. Anche per questo abbiamo deciso di vivere qui. Vogliamo che la gente si organizzi, diventi cosciente delle proprie risorse e, magari, dia vita a consorzi. Si deve fermare l’esodo dei tanti giovani verso la capitale o all’estero!

Fabio Lazzaro, Ecuador

Come sono le persone?

Le persone qui, come in tutto l’Ecuador, sono molto accoglienti, amano molto fare festa, riunirsi con la  famiglia e gli amici. Molti di loro vivono alla giornata, senza grandi progetti di vita. Sono un po’ pettegoli, ma anche tanto solidali tra loro. Credono tanto negli spiriti, nelle influenze negative, che qui si chiamano “mal aire” e “mal ojo”.  Si vive in famiglie allargate e strane, dove a volte i bimbi sono educati dalla zia o dalla nonna e non dai genitori. Qui in particolare, parlo della comunità di Juncal, ci si saluta ogni volta che ci si incontra per strada. Detto all’occidentale, perdono molto tempo a stare fuori casa e a chiacchierare.

Altri aspetti particolari?

La musica qui è presente tutti i giorni e a tutte le ore, spesso a volume altissimo. Le donne sono la colonna della famiglia, quelle che lavorano di più, che non hanno orari per riposarsi, che soffrono molto per la violenza tra le mura domestiche, per gli insulti, per la scarsa considerazione. Sono loro che organizzano riunioni, educano i figli, investono molto tempo per lavare i piatti e i panni nel fiume (perchè spesso non arriva l’acqua), che amano ballare e pettinarsi per ore.

Mi sfata un pregiudizio sulla gente dell’Ecuador?

Non sono persone violente, come si dice, Al contrario, sono molto tranquille. Diventano un po’ aggressive quando si divertono, perché si ubriacano. Qui nello Juncal, comunque, il livello di violenza e di mancanza di rispetto, è più alto rispetto alla media nazionale.

Perché?

Qui i bimbi non vengono bene educati. Spesso sono lasciati a stessi per strada senza regole. Nelle famiglie non c’è dialogo. Quasi sempre si urla.

Come vengono accolti gli italiani?

Riescono ad integrarsi bene, come tutti gli stranieri, che in genere si chiamano “gringos”. Chiamano così anche me. Sono considerati superiori e migliori. Un credito alto hanno le mode e i gusti dettati dagli States. Mi pare ci sia una buona presenza di italiani. Non conosco i numeri. In tanti lavorano nel settore del turismo o sono titolari di pizzerie, bar, ristoranti. Ci sono anche molti missionari italiani nelle zone povere del Paese: preti di Brescia, Padova, salesiani.

Ma si trova facilmente lavoro?

Il lavoro lo trovi, se hai un titolo e conosci la lingua. E’ facile trovarlo come assistenti domestiche, guardiani notturni, muratori,  ed essere sfruttati. Bisogna stare attenti.

Concentriamoci sul clima.

E’ tropicale e caldo sulla costa e nelle zone intermedie, come dalle mie parti. E’ fresco e piacevole nella Sierra, e in genere sui 2500-2800 metri. Nell’Amazzonia è molto caldo e umido. Comunque, in Ecuador non esistono le quattro stagioni. Ce ne sono solo due: l’estate, da giugno a ottobre, quando in genere non piove e soffia un vento forte e l’inverno, con piogge e frane. La temperatura è costante per tutto l’anno. Siamo sui 18-20 gradi nella Sierra di giorno e sugli 8-12 gradi di notte. Varia a seconda della zona. Sulla costa si va dai 30 gradi di giorno ai 15-20 di notte. Nella zona in cui vivo, fa più caldo, ma è sopportabile, perché secco.

Come funzionano i servizi pubblici?

Questo Governo si sta impegnando per renderli più funzionanti. Ora dovunque si può trovare una cassetta per presentare reclami o suggerimenti. Si stanno investendo migliaia di dollari nel campo dell’ istruzione, della salute, della cultura, a favore dei portatori di handicap, delle infrastrutture (strade e ponti), dei trasporti nelle grandi città.

La vita è cara?

No, se usiamo i nostri parametri. E non lo è neanche nei centri turistici. Ma per molti del posto è ancora tanto difficile arrivare a fine mese o a fine settimana. Spesso non ci sono soldi per mangiare o curarsi. E questo anche perché non c’è la tendenza al risparmio.

Piatti tipici?

E’ difficile rispondere  a questa domanda, visto che l’Ecuador è multiculturale. Mangiano molto le zuppe, il pollo, perché costa meno, il maiale nelle feste e nei modi più svariati. Parliamo di maiale al forno, che si chiama “hornado” o fritto a pezzettini. Allora si tratta di “fritada”. Sulla costa si mangiano molto pesce e pollo con banana cucinata. I piatti tipici cambiano da zona a zona. Quello che non manca mai è il riso, che accompagna il cibo come il nostro pane. Presente è anche l’ajì, una salsa piccante.

Riti particolari?

Quelli per la Settimana Santa, la Festa del Corpus Christi. Si fa festa per il patrono di ogni piccolo comune, per il solstizio d’estate nella cultura indigena, per alcuni santi, come San Pietro a  fine giugno, per Natale con la grande devozione al Divino Niño, con processioni familiari e costumi locali. Nello Juncal, dove vivo, si festeggia con giochi, balli e concerti, la festa della mamma a maggio e quella del papà a giugno. Il Carnevale a febbraio richiama tantissimi turisti.

Come si trascorrono le giornate nello  Juncal?

In questo paesetto di campagna di giorno si lavora o si sistema la casa. Gli uomini lavorano nei campi. Quelli che hanno un camion o una macchina trasportano merce. Le donne lavorano, vendendo frutta, canna da zucchero in pezzetti, per le strade e nei mercati. Molte svolgono in  città lavori umili, come la pulizia delle case. Tanti sono impegnati nel contrabbando di vestiti, scarpe e altro proveniente  dalla Colombia. Il confine è a poco più di un’ ora da qui. La zona è molto povera e non offre molte possibilità di impiego. Così, la gente prova in qualsiasi modo a sopravvivere. Le case più lussuose qui appartengono ai parenti di calciatori. Parliamo di una zona da cui provengono talenti di fama internazionale nel calcio (Edison Mendez, Joffrè Guerròn, ed altri).

Fabio Lazzaro, Ecuador

Di sera, invece, cosa si fa?

La sera o nel tardo pomeriggio si gioca a carte, a volley per strada, si beve birra, si conversa tra amici, si seguono le “novelas”, che sono infinite qui.

Cosa offre Ibarra?

Ibarra è multiculturale. A livello naturale famose sono la Laguna di Yaguarcocha e quella di San Pablo a poca strada dalla città. Ancora, un nevaio – vulcano (Cayambe). Nel suo cratere c’è un lago (Cuicocha). E poi ci sono altre attrazioni: balli con vestiti locali, artigianato, cucina tipica.

Lati positivi e negativi della vita dalle sue parti?

Tra i primi: l’accoglienza, la disponibilità degli abitanti, la varietà di culture, la capacità di far convivere tradizioni differenti, l’attaccamento alle tradizioni. Tra gli aspetti negativi: la presenza ingombrante di sacchi di spazzatura in alcune zone, perché manca la cultura del rispetto per i propri comuni. Non ci sono strade asfaltate,  l’acqua non è molto pulita, e poi si ubriacano spesso.

Cosa non fare quando si arriva ad Ibarra?

Evitare quartieri un po’ a rischio ben identificati, nascondere macchine fotografiche o portafogli, e tenere stretta la borsetta. Sono consigli preziosi anche se ad Ibarra ci sono meno furti che a Quito, la capitale.  Qui, come in tutto l’Ecuador, inoltre, è bene evitare di bere acqua dal rubinetto e i succhi che vengono preparati con la stessa acqua.

Quanto serve per ricominciare lì?

La vita è meno cara che in Italia, anche se gli stipendi sono molto bassi. Io sono riuscito a costruire la casa senza indebitarmi. In Italia sarebbe stato impossibile. Tutto dipende dal lavoro che fai. Per esempio, io guadagnavo 780$ (circa 560 euro) ogni mese, l’anno scorso. Per l’ultimo lavoro lo stipendio era, invece, di 450$. Con il primo stipendio riuscivo a mantenere la famiglia, in modo modesto, con il secondo no. Ora da disoccupato spero si aprano presto delle porte. In genere, se hai capitali da investire, bene è considerare il settore turistico, quello dei servizi. Si possono aprire negozi medi o grandi. E poi c’è sempre spazio per inventare nuove occupazioni.

Consigli?

Venire a visitare di persona questo Paese, magari passando per la nostra casa. Vi faremo conoscere la cultura afro e dello Juncal, oltre alle bellezze naturalistiche della Valle del Chota (Ibarra), dove ci troviamo.

Come sono i collegamenti con l’Italia?

Si può scegliere la rotta Madrid-Quito (con voli giornalieri – Iberia o Lan), ma costa parecchio oppure si può arrivare, passando per Parigi o Amsterdam.

Tornerà in Italia?

Non lo so, ci mancano amici e parenti, non certo i valori del Belpaese, sempre in declino e resistente ad accogliere il diverso.  Per ora non sarebbe facile per Olga e sua figlia di 13 anni, venire in Italia. Chissà, forse, in futuro. Io mi sento sempre più figlio di questa terra, dove credo di essere giunto non per caso, ma per un progetto di grazia del Signore. Per ora siamo contenti di vivere qui, in modo modesto, ma in mezzo alla gente povera, che ha bisogno del nostro aiuto per recuperare autostima. Con noi queste persone stanno imparando a vivere meglio. Abbiamo intenzione di prendere in affido un bimbo, lasciato a se stesso. Daremmo dimostrazione di una cosa: siamo  una famiglia che si ama, si preoccupa degli altri e aiuta con discrezione altre coppie a fare percorsi di fede e vita coniugale. Per noi tutto questo è un aspetto della vita missionaria, che abbiamo scelto. Un abbraccio a tutti coloro che leggeranno la nostra storia senza conoscerci di persona. Buona vita!

A cura di Cinzia Ficco