Cambiare lavoro e cambiare il lavoro
Spesso le storie di cambiamento che raccontiamo sono solo la punta di un iceberg di insoddisfazione di cui vediamo solo le estreme conseguenze.
Ma il disagio lavorativo è qualcosa le cui origini sono ben al di là e ben al di sotto di ciò che si vede. Cambiare non è solo cambiare paese, cambiare lavoro, mollare tutto ed espatriare.
Spesso è un percorso difficile e complesso che mette in gioco una intera struttura di vita e percezione di sé. Parlare di lavoro è argomento delicato, da affrontare con etica, senza le semplificazioni sempre in agguato quando si parla di stress, insoddisfazione e necessità di cambiare.
La letteratura professionale è ricca di testi su questo tema, noi invece ne vogliamo parlare direttamente con chi per lavoro si occupa appunto di lavoro.
Chiacchieriamo con il dottor Biolatti, esperto di psicologia del lavoro.
Dottor Biolatti sono sempre più le persone che vivono il lavoro con un profondo senso di disagio. Sintomo di qualcosa che, fuor di dubbio non funziona. Cosa, nella sua esperienza, lamentano maggiormente le persone?
Caspita…partiamo subito con domande “corpose”!
Il tema centrale, a mio parere, è la forte scollatura che ha oggi il lavoro dal concetto di autorealizzazione, per moltissime persone.
Un mercato del lavoro asfittico, che si trascina senza un orientamento certo e una identità chiara, hanno evidenti ripercussioni sul nostro modo di “vivere” il lavoro. Pensiamo alla situazione italiana di questo ultimi anni.
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Pensiamo, da un lato, alla quantità di posti di lavoro persi, alla trasformazione dei contratti di lavoro con un logica che ha portato a rendere quasi sinonimi i termini di flessibilità e di precarietà (che invece dovrebbero essere due cose ben distinte).
E al contempo pensiamo all’evoluzione dello scenario produttivo italiano in questi anni di allargamento europeo e globalizzazione mondiale della produzione.
Qual è il ruolo dell’Italia? Cosa siamo “bravi” a fare? Con cosa vinceremo, sullo scenario globale? Ecco, io credo che fintanto che non riusciremo ad avere tutti una visione “metabolizzata” di queste risposte, anche il disagio sui singoli ne risentirà direttamente.
Per una buona parte della popolazione il lavoro è in questo momento fondamentalmente sostentamento economico, non più autorealizzazione come magari è stato in passato.
Per un’altra parte della popolazione, invece, resta senza dubbio legata a concetti di autorealizzazione e passione, ma proprio la contrazione del mercato e le forme contrattuali moderne vincolano in qualche modo – in questo caso soprattutto i giovani – a forme estremamente “pesanti” in termini di ore da dedicare e stress psicofisico generale, con conseguente impossibile equilibrio tra tempi di vita privata/familiare e tempi di lavoro.
Rallentare, tirarsi fuori; negli ultimi due anni si parla tantissimo di downshifting. Cosa ne pensa?
Penso che il “downshifting” – o “semplicità volontaria”, come viene talvolta tradotto il termine in italiano – sia una strada estremamente interessante, che dà anzitutto dignità a chi decide di perseguirla.
Proprio perché, per certi versi, è l’imposizione volontaria di un soggetto a voler riposizionare l’ago della bilancia del work life balance, l’equilibrio tra tempi di vita privata/familiare e tempi di lavoro. In sostanza, quindi, estremizzando e banalizzando un po’, potremmo dire che si tratta di aver il coraggio di imporsi con una logica del tipo “basta, grazie…rinuncio anche alla possibilità di guadagnare qualcosina in più, magari non cambierò televisione o cellulare nei prossimi mesi, ma quando esco dal lavoro vado a farmi un giro in bici al parco”.
E’ ovviamente una riflessione che non tutti possono fare, perché è in qualche maniera legata alla tipologia contrattuale con cui si svolge la propria attività professionale.
“Non ce la faccio più” “Sono arrivato al limite” “Adesso basta” sono le frasi più comuni con cui si verbalizza un disagio straripante. Quando e come questo disagio può diventare anche un vero problema fisico?
Non vorrei spaventare nessuno, ma per come la domanda è posta, la risposta non può che essere “subito”. La psicosomatica è una scienza ben precisa, e il connubio corpo-mente non è appannaggio di teorie new age mal verificate.
Ed è quindi verificato che stress di varia natura impattino direttamente e immediatamente sul corpo. Si pensi anche solo ai modi di dire relativi alle situazioni più impattanti dal punto di vista emotivo: “Ho un groppo in gola”, “mi si stringe il cuore”, “mi prudono le mani”, “ho il voltastomaco”, e tante altre forme derivano dall’impatto che le esperienze emotive possono avere sul corpo.
Il tema, piuttosto, è quando questi problemi fisici diventano cronici, e di fatto si arriva dunque a vere proprie malattie professionali. Questo, fortunatamente, non capita invece così spesso. Ma la capacità di automonitorarsi è certamente fondamentale.
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È utopistico pensare che sia possibile creare ambienti di lavoro che creino benessere? Quali sono le azioni più importanti in tal senso?
No, non è utopistico. Avere chiaro che il benessere aumenta la produttività, è certamente il punto focale. Servizi come nidi aziendali e ambienti di lavoro confortevoli e rilassanti sono elementi strutturali che le imprese dovrebbero sempre più sviluppare.
Peraltro le organizzazioni ne ricevono, in questa fase storica, anche un importante ritorno in termini di immagine aziendale. La resistenza principale è la necessità di investimenti a medio/lungo periodo per le imprese su aspetti la cui misurazione di impatto sulla produttività non è così banale.
Ci sono davvero situazioni e organizzazioni di lavoro equivalenti ad una nuova forma di schiavitù in cui l’unica cosa che viene richiesta è il tempo. L’orario fisso è davvero una cosa che non risponde più alla dinamica lavorativa, non crede?
Che l’orario fisso non risponda più alla dinamica lavorativa, è con ogni probabilità vero. Che non si possano trovare soluzioni alternative, questo no.
Pensiamo al modello di Donkin o anche solo a come si è organizzata l’azienda metalmeccanica ZF, per citare un esempio reale che potrebbe essere implementato anche con logiche simili in contesti diversi.
Un lavoro insoddisfacente e frustrante come influisce a livello anche solo comportamentale sulle persone?
Ancor più che a livello comportamentale, certamente si vedono rapidamente effetti a livello degli atteggiamenti: maggior suscettibilità e un atteggiamento permaloso sono ad esempio le prime reazioni che mi vengono in mente.
Cambiare lavoro: per qualcuno è una sfida eccitante per molti è un vero e proprio trauma. Quali sono prevalentemente le motivazioni che portano a cambiare e quali invece quelle che tengono immobili nonostante l’insoddisfazione?
E’ legato anzitutto alla percezione che ognuno di noi ha del cambiamento. Con una buona percezione di esso, un cambiamento lavorativo, a maggior ragione se voluto, è certamente vissuto come occasione.
Anche quando il cambio di lavoro non è scelto direttamente ma magari imposto per motivi organizzativi, le persone che amano il cambiamento sono in grado di percepire gli elementi positivi della nuova situazione lavorativa, il “bicchiere mezzo pieno”.
Nonostante la percezione di sicurezza che ci tiene normalmente legati ad una situazione lavorativa magari non entusiasmante, e che ci porta a opporre resistenza immotivata al cambiamento.
Perché a differenza di quanto succede all’estero le aziende italiane sembrano fare più resistenza a riassumere le persone che hanno lavorato altrove?
Intendo dire che le aziende italiani difficilmente fanno “ripescaggio”. Eppure potrebbe essere vantaggioso riaccogliere un collaboratore che ha fatto ulteriore esperienza a spese di un altra azienda non pensa?
In realtà non saprei dire che questo è realmente un fatto suffragato da dati, o una percezione distorta della nostra realtà. In ogni caso sì, è certamente vantaggioso.
Non solo per le diverse competenze che ha appreso, ma anche perchè chi ha lavorato in contesti diversi si è anche integrato in diverse culture organizzative, e la capacità di integrazione e adattamento è certamente un valore premiante per le imprese.
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La vita, anche quella lavorativa è fatta di riscontri. Trovare le motivazioni dentro di sé è importante ma non sufficiente non crede?
Dipende. Motivazioni intrinseche ed estrinseche vanno di pari passo, senza dubbio. E la soddisfazione lavorativa a lungo termine non viene mantenuta, se non ci sono entrambi gli aspetti.
L’abitudine: quanto entra in gioco nel lavoro e nel rapporto che si ha con esso?
Quando l’attività diventa in qualche modo strutturata esattamente come ce la immaginiamo. Sappiamo già esattamente cosa ci aspetterà durante la settimana, e che effetto genererà nel contesto lavorativo ogni nostra azione. E’ rassicurante e ci aiuta a limitare lo stress.
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Ma bisogna saper capire quando l’abitudine rischia di diventare noiosa routine, e non è semplice. E la “noiosa routine” è il crollo della motivazione intrinseca di cui ci dicevamo prima.
Che cos’è il cambiamento?
Ho tre bimbe piccole, la più grande non ha sei anni. Ogni giorno le guardo e rimango incantato da come cambiano, da cosa apprendono, dal modo diverso che hanno di guardare il mondo rispetto a poco prima.
Noi adulti credo fermamente dovremmo riscoprire la capacità di stupirci, e concepire come i bimbi la naturalezza del cambiamnto, perché alla fin fine è l’essenza stessa della vita, secondo me.
Daniele Biolatti
Intervista a cura di Geraldine Meyer