La storia di Laura, expat in Virginia (USA)
Tra pregi e difetti, Laura ci racconta dei suoi 16 anni da expat negli Stati Uniti. Si trasferisce a Richmond, nello stato della Virginia, subito dopo la laurea con suo marito americano e una figlia di 9 mesi. I primi anni sono per lei molto difficili, ma poi pian piano inizia ad ambientarsi. «Qui si vive abbastanza bene – ci dice -. Gli Stati Uniti non sono certamente un Paese perfetto, ci molti difetti. Ma un pregio assoluto sono sicuramente le opportunità che offre. A qualsiasi età, se hai voglia di ricominciare, puoi farlo. Il senso di libertà è un altro aspetto che sento molto qui, ma non in Italia. Ciò che non mi piace è forse la mentalità ancora un po’ chiusa e bigotta, la presunzione che l’America sia il Paese più bello e più forte del mondo». Ecco la sua storia!
Di Enza Petruzziello
La vita negli Stati Uniti? Per Laura Galli non è sempre stata “a stelle e strisce”. Quarantatre anni, originaria di Vigevano, vicino Pavia, dal 2007 vive a Richmond in Virginia, Stato nel sud-est degli USA.
Si trasferisce qui appena laureata con suo marito americano e una bimba di 9 mesi. I primi anni sono per lei molto duri. La nostalgia di casa è costante e crescere una bimba senza il supporto della famiglia rende l’adattamento alla nuova vita ancora più difficile. Ma oggi Richmond (e l’America), con i suoi pregi e difetti, è diventata la sua seconda casa.
Della sua gioventù in Italia ha ricordi bellissimi. A Vigevano trascorre anni sereni con molti amici e una situazione famigliare solida. Gli anni universitari presso l’Università degli Studi di Milano sono per lei in assoluto i più belli. Come studentessa di geologia, infatti, ha l’opportunità di fare molte esperienze sul campo uniche, in giro per l’Italia, e di condividerle con compagni universitari con cui ha in comune sogni e ambizioni.
Nel 2005 arriva la laurea in geologia. Da lì a poco sarebbe partita per un’esperienza che avrebbe cambiato completamente la direzione della sua vita. Curiosi? Ecco la sua storia.
Laura, perché hai deciso di trasferirti negli Stati Uniti? Cosa non ti soddisfaceva più della tua vita qua al punto da lasciare il nostro Paese?
«Da quando ero adolescente ho sempre avuto il desiderio di esplorare il mondo, e di vivere all’estero per un po’. L’Italia iniziava a starmi stretta, e un po’ come tutti i ragazzi cresciuti a show televisivi americani degli anni ‘80 e ‘90, vedevo l’America come la terra delle opportunità. Appena dopo la laurea ho partecipato a due spedizioni di ricerca internazionale in oceanografia. Praticamente ho passato un totale di 12 settimane (6 + 6) su una nave da ricerca dove trivellavamo il fondale oceanico e ne studiavamo la composizione mineralogica. La mia ambizione era quella di fare un dottorato di ricerca in America e di costruire una carriera nell’ambito accademico. Invece, mi sono trovata un marito americano (conosciuto in nave) e una bimba nata nel 2006 in Italia. Dopo la nascita di mia figlia avevo già 27 anni e, a parte quelle accademiche, non avevo alcuna esperienza lavorativa concreta. Non sapevo onestamente che cosa avrei potuto fare se fossi rimasta in Italia, perche a 27 anni si è già considerati “vecchi” per un lavoro entry level. Avevo molta paura che nessuno mi avrebbe considerato per un’assunzione. E così io e mio marito abbiamo deciso di fare tutta la procedura burocratica per ottenere la green card e trasferirci negli Stati Uniti».
Come è stato l’impatto con gli Stati Uniti?
«Sono arrivata negli States nel maggio del 2007, quando mia figlia aveva solo otto mesi. Avevamo deciso di venire a vivere a Richmond, nello Stato della Virginia, in quanto mio marito era cresciuto a un paio d’ore da qui, vicino a Washington. Richmond ci era sembrata carina e senza il traffico e il caos di Washington. I primi mesi ero molto entusiasta, mi ero messa subito in cerca di un lavoro appena ricevuta la Green Card, e nel settembre del 2007, solo pochi mesi dal mio arrivo, ho iniziato a lavorare in un laboratorio di analisi chimiche. Certo, ben lontano dal mio sogno di studiare le rocce oceaniche, ma per lo meno era un inizio, e mi ha anche permesso di migliorare il mio inglese “professionale”. Imparare la lingua non è stato difficile per me, perché ho sempre amato le lingue, e l’esperienza in nave ha sicuramente ampliato il mio livello molto velocemente. Mio marito, essendo americano, si è preso cura di trovare una casa, una macchina, di aprire i conti in banca eccetera, per cui da questo punto di vista sono stata molto agevolata.
Hai avuto difficoltà ad adattarti alla tua nuova vita?
«L’adattamento alla vita quotidiana è stato molto duro: mi sono ritrovata da sola e con poco aiuto. Crescere una bimba piccola senza il sostegno di nonni, zii, cugini, non è semplice. La famiglia di mio marito vive a più di due ore da noi, per cui ci siamo dovuti sempre arrangiare per tutto. Ho sofferto molto la nostalgia di casa, qui chiamata homesickness. Mi mancavano non solo le persone, ma anche i luoghi in cui ero cresciuta. Credo che la nostalgia sia durata perlomeno dieci anni. È stato un po’ uno shock per me: fino ad allora mi ero sempre considerata una persona molto indipendente e il fatto che soffrissi così mi ha davvero scombussolata. Inoltre, non avevo nessuno intorno che poteva capire come mi sentissi. Ogni volta che parlavo con amici, mi sentivo dire quanto ero fortunata a vivere all’estero. Quando parlavo con la mia famiglia in Italia, cercavo sempre di nascondere il disagio perché non volevo deluderli; quando parlavo con la famiglia americana, nessuno capiva il motivo del mio star male. Quindi si era creato un po’ di effetto isolamento attorno a me da cui non sapevo come uscirne. Per fortuna, dopo circa dieci anni, le cose sono migliorate: la figlia ormai è grande e indipendente, abbiamo lavori stabili, e questa terra e città, così sconosciute inizialmente, ora sono davvero diventate la mia seconda casa. Bisogna davvero avere molta pazienza, e il tempo prima o poi aggiusta un po’ tutto».
Per ciò che concerne i permessi di soggiorno, gli americani sono piuttosto rigidi. Tu hai sposato un americano, quindi non hai avuto problemi, immagino, da questo punto di vista. Com’è cambiata la situazione rispetto a quando sei partita tu? Quali sono adesso i passaggi da seguire per un italiano che vuole trasferirsi negli Stati Uniti?
«Non saprei onestamente come siano cambiate le cose, e se sono cambiate. Io ormai sono cittadina americana dal 2010; tramite il matrimonio con un cittadino la strada è stata molto più semplice. Credo che per un italiano senza parentela americana, le strade siano due: un visto lavorativo o un visto da studente, entrambi possono essere rinnovati solo se si mantiene il lavoro o lo status di studente. La strada verso la green card è lunga e ardua, ma come ho già detto, non conosco più i dettagli».
Ormai vivi qui da ben 16anni. Possiamo dire che conosci davvero profondamente questo Paese. Come si vive negli Stati Uniti e in particolare in Virginia e a Richmond?
«Si vive abbastanza bene. Gli Stati Uniti non sono certamente un Paese perfetto, ci molti difetti. Ma un pregio assoluto sono sicuramente le opportunità. A qualsiasi età, se hai voglia di ricominciare, puoi farlo. Mio marito, per esempio, ha cambiato del tutto carriera all’età di 36 anni, ed ora è proprietario della sua azienda. Le opportunità di avanzamento di carriera ci sono, e si guadagna molto bene, nonostante il costo della vita sia al momento molto alto».
Quando si pensa agli USA, nell’immaginario collettivo del “mollo tutto e vado a vivere in America”, vengono in mente altre città: New York, Los Angeles, Miami. Richmond non è esattamente una destinazione da expat. Come ti trovi qui?
«Hai perfettamente ragione, Richmond non è conosciuta e non è una destinazione che molti espatriati scelgono. Richmond e la Virginia sono considerati parte del “Sud” degli USA, quindi anche la mentalità è molto diversa da ciò che si trova a New York, Los Angeles, o anche Washington. All’inizio ho fatto fatica ad ambientarmi a Richmond: io volevo vivere in una metropoli, mentre Richmond era ed è ancora una cittadina in crescita. Ma negli ultimi anni è migliorata molto, e ho imparato ad amarla. Ora l’adoro, e adoro la sua aria “antica”, la sua architettura, e la sua fama da città “foodie” con i suoi numerosi ristoranti e birrerie».
Sei partita con una bimba di appena 9 mesi, che adesso è una splendida ragazza di 16 anni. Come è stato crescerla in Virginia? Quali sono i servizi, gli incentivi e gli aiuti che è possibile trovare per i genitori e i ragazzi, e com’è il sistema scolastico americano?
«Di servizi per bambini ce ne sono tantissimi, ma tutto ha un costo. Non ci sono asili comunali, tutto è privato e si paga. Le scuole americane sono completamente diverse da quelle italiane; non posso dire necessariamente che siano peggiori o migliori, solo diverse. La scuola si basa di più sull’apprendimento diretto o “hands on”, come si dice qui. Se in Italia l’apprendimento è ancora molto improntato sullo studio sui libri e la memorizzazione, negli USA si tende a valutare uno studente non solo tramite esami e interrogazioni, ma anche utilizzando progetti, presentazioni, temi eccetera. Inoltre, ci sono tantissime opportunità extracurricolari: lo sport, per esempio è importantissimo ad ogni livello, soprattutto alle superiori. Mia figlia fa parte della squadra di pallavolo, quindi da agosto a novembre si allena e gioca in tornei e campionati con altre squadre della Virginia. Poi fa anche teatro, e tutti i pomeriggi è impegnata con le prove. Tutto questo fa parte del suo sistema scolastico. Poi ovviamente c’è il football, che raccoglie realmente lo spirito della scuola. Qui la scuola è davvero il centro della vita sociale dei ragazzi».
Di che cosa ti occupi a Richmond? Ti piace il tuo lavoro?
«Io lavoro da 13 anni per lo Stato della Virginia come Environmental Specialist, quindi sono passata dallo studio delle rocce alla protezione ambientale. Sì, il mio lavoro mi piace, mi permette di lavorare su progetti concreti e di vedere miglioramenti diretti sulla qualità del nostro ambiente. Inoltre, la mia Agenzia è sempre stata molto flessibile con gli orari di lavoro, e ciò mi ha permesso di lavorare da casa da oltre dieci anni e di potermi organizzare con la mia bimba piccola senza dover rinunciare a niente. E per questo ne sarò sempre grata. Inoltre, essendo un lavoro governativo, avrò una bella pensione già dall’età di 60 anni».
Gli Stati Uniti da sempre rappresentano per noi italiani, e non solo, quella terra promessa dove poter trovare fortuna e vivere bene. Ma è davvero ancora così? Ci sono ancora opportunità per i nostri connazionali?
«Come ho detto prima, di opportunità ce ne sono tante, soprattutto per coloro che hanno un certo livello di educazione. I pochi italiani che conosco lavorano per esempio come professori o dottori presso le università. Ma ho anche conosciuto una splendida famiglia italiana che ha aperto una filiale della loro azienda italiana proprio qui in Virginia. E altri italiani arrivati dalla Sicilia che hanno aperto diversi ristoranti nella zona. Un ristorante italiano in America andrà sempre bene!».
Quali sono le principali differenze sia dal punto di vista lavorativo che di vita tra Italia e Stati Uniti?
«Io non ho mai lavorato in Italia, quindi non so come rispondere a questa domanda. Quando parlo con i miei amici italiani, li sento sempre un po’ stanchi, stressati, e rinchiusi un una realtà lavorativa da cui non possono uscire. Anche qui, per carità, si lavora tanto, anche troppo, ma se non ti piace te ne vai e ti cerchi un altro lavoro. Inoltre, qui i lavori a tempo determinato praticamente non esistono. Ci sono lavori “wage” pagati a ora, su cui si pagano comunque le tasse. Per dirti, mia figlia l’anno scorso ha lavorato come bagnina durante l’estate. L’hanno messa in regola e ha pagato le tasse, guadagnandosi $1000 netti per un lavoro di sei settimane all’età di 16 anni. Non so se in Italia queste cose succedono…».
Qual è l’aspetto che apprezzi di più della vita americana?
«Dove vivo c’è un livello di onestà che in Italia secondo me non esiste. La gente non cerca di fregarti ad ogni occasione; lavori in nero non se ne vedono. Puoi tranquillamente lasciare la tua bicicletta in giardino che nessuno te la ruba; i bambini possono ancora giocare da soli in strada. Certo, dipende anche da dove abiti. La meritocrazia esiste: se meriti, sei premiato. Il senso di libertà è un altro aspetto che sento molto qua ma non in Italia. I luoghi e gli spazi enormi, la possibilità di fare e disfare, le scelte che hai…».
E quale invece quello che proprio non ti piace?
«Ciò che non mi piace è forse la mentalità ancora un po’ chiusa e bigotta, la presunzione che l’America sia il Paese più bello e più forte del mondo. Molti americani credono davvero che il mondo finisca qui… e non dimostrano curiosità di esplorare al di là dei propri confini. C’è da dire però che il loro patriottismo, anche se fa sorridere, è comunque ammirevole».
A chi come te sta pensando a un trasferimento definitivo che consigli daresti?
«Di mettere in considerazione tutte le conseguenze e tutte le eventuali difficoltà, non solo logistiche e burocratiche, ma anche psicologiche. L’essere lontano da casa, con un Oceano in mezzo e senza la possibilità di tornare anche solo per un breve periodo, può davvero creare disagi a cui non si aveva pensato. E bisogna avere molta ma molta pazienza e metterci tanta energia per riuscire ad ambientarsi in un nuovo Paese al 100%».
In tanti credono che chi espatria sia un ingrato. Cosa pensi al riguardo?
«Onestamente non ho mai pensato di essere stata un’ingrata per aver lasciato l’Italia, né tantomeno me lo sono sentita dire. Gente diversa può avere mille motivi diversi per decidere di emigrare, e nessuno ha il diritto di giudicare questi motivi».
Come è cambiata la tua vita da quando sei negli Stati Uniti?
«Forse il cambiamento più grande per me è stata la crescita interiore. Ho affrontato diverse difficoltà e disagi interni, ma sono riuscita a superarli, e ora ho una consapevolezza della mia forza e resilienza che prima sicuramente non avevo. E sono molto felice di aver assimilato una nuova cultura. Forse ora non sarò più italiana al 100%, non sarò mai americana al 100%, ma l’essere un po’ entrambe la vedo come una cosa totalmente positiva».
Ti manca l’Italia e hai mai pensato di ritornarci stabilmente?
«L’Italia mi manca sempre, ovviamente, ma il tempo trascorso qui è riuscito a farmi sentire a casa e a soffrire meno per la lontananza».
Sogni e progetti per il futuro?
«I miei progetti principali sono due. Il primo è viaggiare per gli Stati Uniti e visitare nuovi posti dal momento che per 16 anni le mie vacanze sono state principalmente in Italia e in Europa. Il secondo è passare più tempo in Italia; il mio progetto per dopo la pensione sarebbe quello di poter trascorrere metà anno a Richmond e metà anno in Italia, e riconnettermi con la parte italiana di me che purtroppo sto perdendo».