Un enorme uovo galleggiante ad una manciata di chilometri dal continente greco, più o meno equivalente alla distanza che lo separa dalla Turchia: si tratta di Samotracia, l’isola più settentrionale della Grecia dopo la vicina Thassos. La sua fama è legata al ritrovamento, nel 1863, della statua della Nike ad opera del viceconsole francese che allora governava l’intero comprensorio. Compresa l’eccezionalità del ritrovamento, il funzionario non esitò a impacchettare il capolavoro e a spedirlo a Parigi, dove da allora fa bella mostra di sé all’interno del museo del Louvre. Ai greci, come spesso accaduto in passato, rimane l’orgoglio di aver prodotto e conservato una delle meraviglie più straordinarie della scultura di tutti i tempi, anche se a goderne sono oggi altri.

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Ma è ai greci che appartiene ancora oggi Samotracia, un luogo assolutamente particolare, anche solo perché a Samotracia è difficile trovare confermati tutti i cliché di cui gli ellenici sono prigionieri. Innanzitutto è un’isola verdissima e rigogliosa, dominata dalla mole del monte Fengari, il più elevato dell’Egeo, le cui pendici sono invase da boschi di castagni e di querce. Da lassù racconta Omero che Poseidone seguì in presa diretta tutte le fasi della guerra che i Greci combatterono a Troia e da lassù, una volta raggiunta la vetta in circa tre ore seguendo un sentiero perfettamente indicato, è possibile ammirare un panorama davvero incredibile.

E poi niente casupole bianche con gli scuri blu, come da immaginario collettivo: è un’isola dell’Egeo, è vero, ma conserva tratti autonomi e indipendenti. Tuttavia il capoluogo, Chora, promana un fascino tutto suo, anche grazie alla sua dislocazione ad anfiteatro sotto la fortezza che i Genovesi realizzarono nel XIV secolo per difendere il loro protettorato dagli assalti dei Turchi e alle sue viuzze aggrovigliate intorno all’arteria principale che sale al colle. Spiagge poche e non facilmente raggiungibili: le migliori, se si esclude la vulcanica Kipos, sono concentrate nella parte meridionale.

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Pachià Ammos è senza ombra di dubbio la più accessibile, ma la più bella si trova a due ore di cammino ad est da lì: si tratta di Vatos, un paradiso caraibico ad uso e consumo dei più ardimentosi che si spingono fin lì per pernottarvi qualche tempo in ripari di fortuna a contatto con una natura davvero rigogliosa. Come rigogliosi sono i sentieri che solcano l’isola dalle coste al centro in corrispondenza con alcuni dei torrenti che sbucano dal Fengari e rendono così verde l’intero territorio: alcuni di essi (Fonias e Gria Vathra) permettono di raggiungere spettacolari cascate che si gettano in ampie pozze di acqua gelata che nei mesi più caldi rappresentano una valida alternativa ai bagni in mare. Ma se la temperatura fosse eccessivamente bassa, si può agevolmente rimediare immergendosi in una delle due vasche termali realizzate nei pressi di Loutra, aperte liberamente al pubblico, o accedendo direttamente agli impianti da poco ristrutturati.

La natura è stata prodiga con l’isola e i suoi abitanti: acqua, tanta acqua sia fredda che calda, campi fertili e boschi rigogliosi. Dev’essere stato per questo che nella notte dei tempi fu presa la decisione di costruire proprio qui uno dei santuari più venerati e importanti della grecità, quello dedicato ai Grandi Dei, di cui restano imponenti rovine nei pressi di Paleopoli. Dei culti misterici praticati non si sa praticamente nulla; l’unica cosa certa è che si trattava di faccende maledettamente importanti, tanto che ne furono iniziati personaggi del calibro dello storico Erodoto, del filosofo Aristotele e del re Filippo II padre di quell’Alessandro che avrebbe conquistato il mondo intero. Come per la Nike, però, non si può che lavorare di fantasia e di immaginazione, anche se non è difficile credere che un luogo così magico abbia subito affascinato persino i suoi più antichi abitatori.

Gianluca Ricci