Non basta un articolo per raccontare una settimana in questa città. Ricordo solo che, mentre camminavo per le strade avrei voluto avere 250 occhi per non perdere nulla di ciò che mi circondava. Ho trascorso una settimana in un ininterrotto stato di eccitazione nervosa, senza riuscire a dormire. E non certo per il fuso orario. New York è una città che tutti abbiamo imparato a conoscere ancora prima di vederla: film, libri, foto, documentari, hanno fatto di questa metropoli una sorta di inconscio collettivo.
Ma dal momento che siamo su un sito che restituisce storie di cambiamento ho avvertito che c’è qualcosa a New York che per tante, tantissime persone ha rappresentato una speranza di vita migliore e di cui mi piacerebbe scrivere: il Museo dell’Immigrazione di Ellis Island. Adesso New York è meta di vacanze, di lavoro, di moda e di tutto quanto riluccica di novità e finanza. Ma, alla fine del 1800 è stato punto d’arrivo per milioni di persone che il cambiamento lo hanno cercato e subito sull’onda della più cupa disperazione e della più disarmante miseria.
Posta proprio davanti a Manhattan, Ellis Island è stata per circa 15 milioni di persone, il punto di partenza per una vita diversa, per speranze spesso deluse e dolori. In principio utilizzata come prigione per i pirati e poi come deposito di armi, diviene, attorno alla metà dell’ottocento, centro di smistamento per le ondate migratorie provenienti dall’Europa meridionale e orientale. Carestie e rivolgimenti politici provocano, nel giro di poco tempo un aumento fortissimo di emigrati così, nel 1894 Ellis Island diviene ufficialmente un centro di raccolta e smistamento. Nel corso degli anni l’edificio ha subito modifiche e aggiunte grazie ad alcuni interramenti e ha mantenuto il suo ruolo di casa di prima accoglienza e prigione fino al 1954. Poi negli anni ottanta è stato restaurato fino all’inaugurazione del museo nel 1990.
Visitare questo posto provoca un’emozione molto violenta. Forse anche grazie ad un allestimento sobrio e che riesce ad evitare quella retorica patriottica a cui gli Stati Uniti spesso non riescono a rinunciare. Qui sono gli ambienti che parlano, lasciati nella loro quasi originaria forma e disposizione. Al primo piano si entra in quella che veniva chiamata la Registration Room, un enorme spazio circondato da portici in cui sostavano i disperati appena sbarcati dalle navi. Cominciavano i controlli burocratici e medici. Alcune sale mediche sono state lasciate esattamente come erano, con fredde piastrelle verdastre che avvolgono immediatamente in un’atmosfera ostile e fredda. Qui uomini, donne e bambini venivano sottoposti a umilianti controlli fisici e mentali. Quelli che non venivano considerati idonei venivano segnati con una croce sulla schiena.
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Durante la visita è possibile ascoltare alcune registrazioni con le voci di uomini e donne passati da questo luogo pieno di sogni e di angosce. E ascoltare le loro voci è qualcosa che non lascia indifferenti. In altre sale sono conservati i piatti e i bicchieri in cui gli emigranti consumavano i loro pasti, oggetti così carichi di parole da cui sembra di veder emergere i volti e gli occhi di chi li ha usati. Un’altra stanza è dedicata ai documenti di viaggio: una ricchissima raccolta di passaporti e carte d’imbarco, biglietti di viaggio e manifesti di transatlantici in partenza da Genova o Napoli per il Nuovo Mondo. Queste sale allora erano quelle chiamate Sale della separazione perché qui non solo venivano separati gli uomini dalle donne ma intere famiglie venivano smembrate e destinate a strade e destini diversi.
Chi non superava i controlli medici e burocratici riceveva una segnalazione come malato di mente o non desiderato dal punto di vista politico. E non c’era speranza per chi veniva marchiato in questo modo. Molti di coloro che non ricevevano il permesso di restare si buttavano in mare per raggiungere a nuoto le rive di Manhattan, molti altri si suicidavano. Per chi accettava la sua sorte c’era il rientro nei paesi di provenienza.
Ma il momento più toccante della visita a questo museo è senza dubbio quello alla sala adibita a mostra permanente delle fotografie degli emigrati. Foto in bianco e nero di uomini, donne, bambini e famiglie fotografati all’arrivo o nelle loro case prima di affrontare il viaggio verso la loro nuova vita. Qualcuno sorride, quasi tutti sono seri e quasi immobilizzati dall’ignoto che li attende. Uomini giovani e meno giovani tengono le mani appoggiate alle spalle di donne con bambini in braccio. Dignitosi nelle loro modeste case, circondati da oggetti che non vedranno più: credenze, pizzi e tavolini dentro case che non davano più protezione. Quei visi di tutte le nazionalità, età e storie seguono il visitatore per molto tempo anche dopo la fine della visita al museo.
Cambiare vita per qualcuno è stato difficilissimo, straziante e doloroso. Settimane di viaggi per mare in condizioni disperate. Paesi e persone lasciate, storie interrotte non per inquietudine o insoddisfazione ma perché la fame e la miseria non lasciavano neanche la più piccola speranza di un cambiamento. “Voglio vivere così”, per molti di loro non era una scelta meditata e voluta ma una disperata battaglia per avere il minimo indispensabile. Un sogno per un futuro per i loro figli oltre che per loro stessi. Nessuna garanzia alla partenza, meno di nessuna all’arrivo.
Mi sembrava doveroso un piccolo ricordo a tutti quei milioni di persone che vedevano avvicinarsi la Statua della Libertà come un miraggio, come uno strappo definitivo da ciò che era stato fino ad allora. Non c’era un ritorno per loro, neanche nei sogni. Partivano perché non potevano non farlo, perché non sapere cosa avrebbero trovato dava incertezza ma anche un varco a giorni che, di certezza, davano solo quella della povertà.
A cura di Geraldine Meyer