Alla ricerca dell’essenzialità

Di Gianluca Ricci

Già è complicato riuscire a destreggiarsi fra le mille e mille trappole disseminate nel campo della battaglia, tutta intellettuale, combattuta da viaggiatori e turisti; ancor più difficile è riuscire a comprendere le ragioni di chi si dice viaggiatore, spesso impegnato a convincere i suoi interlocutori delle evidentissime differenze di approccio, e di chi si professa invece semplice turista.

Quasi impossibile è appassionarsi a simili dibattiti: ebbene, ci mancava solo che la categoria più nobile dei viaggiatori si scindesse a sua volta fra chi viaggia tutto concentrato nel suo viaggiare e chi tutto concentrato nel suo viaggiare lo fa, ma a piedi.

Da qualche anno a questa parte infatti pare che non sia più possibile fregiarsi dei gradi di “viaggiatore scelto” se non compaiono nel curriculum almeno un paio di camminate certificate.

In testa alla speciale graduatoria i pellegrinaggi con destinazione qualche località in odore di santità, anche se un buon punteggio permettono di ottenerlo anche faticosi trekking montani purché lungo sentieri che abbiano nel loro dna quel senso del sacrificio senza il quale camminare non sarebbe viaggiare, ma camminare e basta, come per un turista qualsiasi.

Ma c’è di più: nelle riviste specializzate non c’è articolo o servizio specificamente destinato al fenomeno in cui non si sottolineino le valenze intellettuali dell’operazione, come se partire da A e raggiungere B con la sola forza delle proprie gambe non si limiti ad essere, com’è, un salutare esercizio fisico, ma assuma connotazioni che permettono ai camminatori di assurgere all’empireo dei viaggiatori perché loro sì che si muovono nel mondo con la testa.

Che camminare aiuti la riflessione può anche corrispondere al vero, fermo restando che ognuno ha il suo preciso recinto comportamentale in cui rinchiudere ossessioni e piccole psicopatie; che camminare però costituisca una sorta di esercizio filosofico al termine del quale è possibile sostenere di “sentirsi cresciuti”, di “avere maturato un nuovo rapporto con il mondo circostante”, di “avere ampliato i propri orizzonti personali”, come si può leggere qua e là, diventa più difficile da sostenere.

Eppure: eppure i cataloghi delle agenzie specializzate in questa particolarissima tipologia di viaggio trasudano intellettualismo da ogni pagina, da ogni riga. Evidentemente si riesce a catturare la preda più efficacemente se la si vellica proprio là dove l’ego reagisce meglio. E il gioco è fatto: ecco allora “l’acqua negli scarponi”, “il ritiro silenzioso”, “il passo che sale in silenzio come volo sospeso di falco”, e via dicendo.

Tutto si ammanta di un’aura sacrale tale da intimidire chiunque viaggiando pensi solo di recarsi in un luogo diverso dal solito per vedere l’effetto che fa, assaggiare sapori sconosciuti, conoscere abitudini differenti e ammirare opere d’arte altrimenti viste sulle pagine dei libri o sugli schermi del pc.

Se lo fa a piedi ecco la promozione a “viaggiatore scelto”, in prima fila nella battaglia contro la semplicità e l’ovvietà di chi si limita a fare turismo.

E dire che viaggiare camminando sarebbe la cosa più semplice del mondo: un paio di scarpe come si deve, uno zaino leggero, una innata predisposizione al sacrificio e l’impresa è compiuta.

Un vero inno all’essenzialità, spesso confusa però con la santità: un qui pro quo che ha finito per generare contorsioni intellettuali causa principale, alla fine, del colossale equivoco su cui i più scaltri hanno già iniziato a seminare.

vivere il cambio

Vip camminatori – e dunque viaggiatori – che raccontano la loro esperienza mistica; agenzie di viaggio in grado di organizzare ogni tappa del trasferimento, masserizie comprese; mass media pronti ad annusare l’aria e a raccontare passo passo le escursioni più bizzarre.

E pensare che la parola escursione deriva dal latino ex-currere, correre fuori, correre via.

Anche, e soprattutto, da quelle spesse nubi di polvere intellettuale che hanno finito per complicare persino una delle cose più semplici: camminare.