Riflessioni sulla solitudine

Non si fa altro che sentir parlare della solitudine come il male dell’epoca. I giornali urlano tutta la loro disapprovazione, il loro sconcerto, quando accade che un anziano venga trovato cadavere nella sua casa, dopo giorni dal decesso. “Il dramma della solitudine”.

Dico, ma anche quel poveraccio, lo sforzo di trovarsi un amico, di avere delle relazioni, non lo poteva fare, da vivo…?In generale, esempi a parte, la vulgata ci vuole sempre più soli, in comunicazione virtuale con gli altri, chiusi in una condizione monadica che somiglia a una prigione…

 

Ebbene, anche questo fa parte della campagna di contrinformazione diffusa. L’evidenza è sotto i nostri occhi: trascorriamo il novanta per cento della nostra vita diurna in mezzo a decine, centinaia di persone. Spesso anche gran parte della nostra vita notturna.

Basta ricordarci che facciamo colazione (spesso al bar) e siamo immediatamente nel traffico, nella bolgia. In ufficio poi, con il proliferare degli open-space, siamo immersi nella promiscuità, ogni privacy ci è preclusa. Pranziamo insieme ai colleghi nella grande parte dei casi. Poi in palestra, o a nuoto o a fare corsi di pittura.

Quasi nessuno mangia a casa da solo. Spesso usciamo dopo cena. L’unico spazio di solitudine resta quello dell’oblio, cioè della non relazione, con nessuno: il sonno. Questo sarebbe lo schema della nostra solitudine?

Molti diranno: “Certo, ma quelle non sono relazioni vere, semmai confusione, palliativi della vera comunicazione con il nostro simile”. E sia, ma è chiaro che l’analisi va capovolta.

cambiare vita

Conosco decine di persone che se dopo una giornata come quella descritta si trovano a casa da sole e devono cenare con un solo piatto sul tavolo, si deprimono, pensano di essere delle persone sfigate, se ne vergognano tanto da non confessarlo a nessuno.

Il tempo per il silenzio è scomparso, idem per quello della lettura, della meditazione, dell’impegno nelle proprie piccole e necessarie occupazioni personali. La verità è che, soli, noi non ci stiamo mai, o comunque il meno possibile. Dopo settimane come le nostre si potrebbe immaginare uno sforzo certosino nel salvaguardare tempo e spazi personali, solitari, almeno nel weekend…e invece no.

Di nuovo organizzazione, gruppi, partecipazione, uscite, telefonate.

Il male dell’epoca, uno dei suoi mali almeno, è esattamente questo: noi non stiamo mai da soli. Dall’uomo che eravamo prima della rivoluzione industriale (che concentrò le vite sparse nelle campagne in un unico spazio stretto, quello delle fabbriche e poi, con il terziario, degli uffici) ci siamo trasformati in un essere promiscuo che vede sempre più atrofizzarsi la sua esigenza di relazione individuale, con se stesso, in assenza dell’altro.

Se un uomo (o una donna) dice alla propria compagna (o compagno) “voglio stare un po’ da solo” quella pensa che la stia lasciando.

La sua risposta sarà invariabilmente “preferisci non stare con me?!” ignorando che stare da soli non è non stare con l’altro, ma stare con se stesso. Il concetto di conoscenza di sé, di riflessione, di meditazione, di operosità feconda, di manualità in solitudine, di accompagnamento con un altro che ci dovrebbe stare molto a cuore (e cioè noi stessi) è del tutto misconosciuto nella nostra società.

Stare da soli è strano, forse è l’evidenza di una malattia (“se ne stava sempre da solo…!”), certamente è un comportamento esecrabile.

Io desidero stare da solo, spesso, periodicamente, quotidianamente. E’ un desiderio molto forte, paragonabile persino al desiderio che ho della donna che amo. E’ talmente forte che sento il desiderio di privarmi della sua compagnia, che pure amo così fortemente, pur di stare in mia compagnia, in silenzio, senza nessuno intorno.

Gli altri, come ammoniva Seneca duemila anni fa, ci rubano il tempo, ci distraggono su cose che non hanno valore, ci riempiono vuoti che dovremmo colmare di altra materia, la nostra. Naturalmente non sempre…, ma se analizzate, spesso, è così.

Per cambiare vita occorre saper stare da soli. Allenarsi, esercitarsi, fare pratica, affinare le proprie capacità. La solitudine, vorrei dire perfino, è una componente stretta di ogni cambiamento. Mentre noi mutiamo, infatti, gli altri restano ciò che sono e, spesso, si allontanano. Almeno temporaneamente.

Stare soli, pensare, fa venire voglia degli altri. Non più bisogno di tutti, ma desiderio di alcuni, proprio quelli, che scegliamo così minuziosamente da farci interrompere la gioia inebriante della solitudine pur di incontrarli.

Ma per fare cosa? Per parlargli, per ascoltarli, riferendo le nostre elucubrazioni che la solitudine avrà reso possibili. Cosa volete che vi diranno loro se non sono stati mai soli e non hanno pensato con calma neanche un minuto? Probabilmente poco…

Simone Perotti

www.simoneperotti.com