Sandro Gentili: basta così, ho deciso di rallentare

Scrivendo per  Voglio Vivere Così da un po’ ho notato che quando si tratta di storie di espatrio sono pochissime, per non dire nulle, le obiezioni dei lettori sul fattore economico.

Quando invece raccontiamo di cambiamenti che non abbiamo portato i protagonisti altrove allora spesso i commenti sono: “Beh, certo, se lo è potuto permettere.”

Come se la fascinazione del fare armi e bagagli mettesse in secondo piano tutto il resto. Ci si concentra quindi sull’atto estremo del cambiamento lasciando un po’ in disparte i dubbi e le lacerazioni che comunque accompagnano e precedono la decisione di andare altrove.

Ma noi amiamo raccontare anche storie di percorsi che sono cambiati in altro modo, a volte senza neanche un piccolo spostamento esterno, ma spesso un viaggio siderale all’interno di chi è cambiato. Ne parliamo con Sandro Gentili, un simpatico “ragazzone” cinquantenne, ex imprenditore con il sogno di fare il contadino.

Sandro ci racconta di come un grande dolore, la morte di suo padre e un’inaspettata eredità, abbiano accelerato una serie di pensieri che si erano già messi in moto: “Da un male è nato un bene – ci dice- e con questa eredità ho deciso di vendere la mia attività e di rallentare.”

Il downshifting sta diventando un fenomeno sempre più diffuso per dare ai propri passi una direzione diversa.

Ciao Sandro, ci racconti brevemente come sei arrivato a questa decisione di rallentare?

Ciao Geraldine, mentre rispondo mi accompagna la musica di George Gershwin, molto adatta. Tutto è cominciato vedendo in tv Simone Perotti, che parlava della sua esperienza e questa è stata la pulce nell’orecchio.

Mi sono fatto molte domande sulla mia vita; cinquantadue anni e trenta di lavoro, a Milano, un lavoro fisicamente faticoso. Ultimamente non bastavano più i weekend per rigenerarmi. Insomma, sulla bilancia l’infelicità e le soddisfazioni cominciavano ad avere pesi diversi. Milano era diventata una scatola stretta.

Se non avessi avuto questa eredità avresti continuato tutto come prima?

Non lo so, sicuramente avrei cercato di cambiare lavoro, o almeno di allontanarmi da Milano. Ho una casa in affitto sul lago Maggiore, ma andare avanti e indietro forse avrebbe peggiorato le cose. Sicuramente avrei cercato una soluzione, quando sai che c’è la soluzione del tuo problema, non puoi più fare finta di niente.

Quanto ha contribuito Milano a creare questo “disagio”?

Milano sicuramente mi ha dato molto, in termini di cultura e di opportunità, ma qualche cosa è cambiato. Per quello che mi riguarda mi restava solo il lavoro e a Milano non puoi lavorare meno, o ci sei tutti i giorni o niente, ti si chiudono le porte.

Non puoi dire adesso mi prendo un anno di pausa e poi vedremo, quando torni sei stato sostituito e diventi workless e non è più vero che se hai voglia di lavorare trovi sempre qualche cosa. E poi il ritmo lavoro consumo lavoro è opprimente.

Hai avuto qualche segnale particolare che ti ha fatto capire che era arrivato il momento di rallentare?

A dire la verità il segnale più grosso è stato nell’estate del 2010: mi ha preso una tachicardia forte e dopo tutte le analisi ho scoperto che era una forma dovuta allo stress.

Vuoi lasciare Milano. Cosa ti piacerebbe fare?

The great dream è fare il contadino, vengo da una famiglia di contadini, a parte mio padre. Mi piacerebbe avere un bel terreno agricolo, una casa di legno, tipo quelle americane, avere un bel frutteto, una vigna e un orto e magari degli animali, e qui il sogno si scontra con mia moglie che non vuole lasciare Milano, questo è un problema da risolvere al più presto.

Adesso come trascorri le tue giornate?

I primi mesi dell’anno ho fatto molti lunghi weekend al lago, riprendendo a scrivere, (ho già scritto un romanzo giallo) e a leggere molto; ho sempre patito la mancanza di tempo per fare queste due cose. Poi mi sto impegnando nella ricerca del terreno agricolo, con non poche difficoltà. Nel contempo devo vendere la casa di mio padre a Milano.

I nostri lettori diranno certo che non tutti possono permettersi di rallentare. Credi che il fattore economico sia davvero l’ostacolo più grande ad un cambiamento?

No non credo, come dice Perotti, è un percorso che non si fa dalla sera alla mattina, bisogna pianificarlo anni prima. Nel caso mio l’eredità ha accorciato molto le distanze, ma se avessi cominciato dieci anni fa a risparmiare e pianificare tutto, adesso sarei pronto. Il fattore economico è il meno importante perchè con una buona decrescita dei consumi, il bisogno di denaro diminuisce.

Cambiare per molti è diventato sinonimo di espatrio: cosa ne pensi? E tu hai mai pensato di andare all’estero?

No, a questa età non voglio andare in paesi poveri per poter vivere da signore. Se avessi vent’anni penserei ad emigrare in un paese “migliore” dell’Italia di adesso, in un posto dove sei valutato per quello che vali e non perchè sei figlio di o per raccomandazioni. Anche in Europa pare ci siano posti migliori dell’Italia sotto a questo aspetto. Il Brasile è un posto molto interessante. Se fossi giovane lo farei.

Rallentare i ritmi lavorativi vuol dire anche ridimensionare i consumi e rivedere le proprie priorità. Per te quali sono ora le cose essenziali?

Nella mia vita sono sempre stato uno spendaccione, ritenevo il mio lavoro il mezzo per soddisfare le mie voglie, hobby e spesso cose inutili. Adesso è scattata una molla automatica, ogni volta che si presenta l’idea di un’ acquisto, comincio a valutare se mi serve veramente, i costi e i benefici e novanta su cento non faccio l’acquisto. La priorità ora è realizzare il grande sogno del terreno agricolo.

Tirarsi fuori da una logica produttiva vuol dire anche cambiare l’immagine che si ha di sé stessi?

Se non si era legati ad un’immagine codificata, giacca e cravatta, macchina di rappresentanza, aperitivo e serate, non credo che si debba cambiare. Ma a Milano basta vedere come vesti per capire da che ambiente vieni: allora sì è necessario cambiare anche immagine. Io per fortuna sono sempre stato “diverso“ non seguo mode, diciamo che ho un look tutto mio.

Come si sta a Milano da downshifter?

Tutto sommato non lavorando, non è male. Camminare lentamente senza meta in mezzo alla gente frettolosa fa un effetto benefico. Parlando con amici e conoscenti senti che quasi tutti hanno da lamentarsi della vita che conducono, ma non credono che veramente vogliano cambiare.

Ti piaceva il tuo lavoro?

Fino a dieci anni fa sì, poi ho scoperto che mi piaceva scrivere. Poi sono cambiate molte cose nel settore dell’edilizia privata e la crisi economica ha dato la mazzata finale.

A parte i cambiamenti materiali tu avverti anche che sta cambiando qualcuno dei tuoi valori?

Credo che la cosa più importante sia quella di cercare di apprezzare le piccole cose della vita, ma sopratutto il distacco dal denaro visto come primario scopo di vita.

Abitudine: come interpreti questa parola?

Abituarsi a qualunque cosa penso sia la cosa peggiore che si possa fare.

Che cos’è per te il tempo adesso?

Qualche cosa che puoi anche perdere, l’ozio costruttivo.

Se dovessi descrivere il Sandro di prima e quello di adesso solo con due parole, quali useresti?

Un compratore compulsivo, ora una persona quasi felice.

Intervista a cura di Geraldine Meyer