Vivere in solitudine: lo spazio per l’eremita

Una delle cose che si sentono spesso dire, oggi, riguardo ai nuovi tentativi di vita eremitica o in solitudine, riguarda il fatto che si può (e forse si deve, in qualche modo) essere solitari o eremiti in qualsiasi luogo o, meglio, indipendentemente dagli spazi e dalle modalità con cui si abitano; molti, infatti, degli attuali eremiti, vivono in grandi città, e non certo sopra un monte – magari nel loro appartamento, anche in pieno centro, nel bel mezzo del traffico e della confusione.

Certamente è possibile un’esperienza di questo tipo. Tuttavia, vorrei provare a interrogare meglio la questione.

È un paradosso non da poco il fatto che, in una società e in un tempo in cui il concetto di “anima” e di “interiorità”, intesi nel senso classico, hanno perso quasi del tutto la loro forza, ci si rifugi spesso in una visione del tutto interiore della ricerca spirituale: un luogo vale un altro, si può stare soli e vivere perfettamente la propria “interiorità” e spiritualità o, semplicemente, la propria scelta di vita contemplativa, senza nessun “appoggio” esteriore, senza ritirarsi sopra un monte o tra le rocce impervie e irraggiungibili di una regione.

Lo ripeto, non nego che tutto questo sia possibile in teoria; ma, forse, è giusto guardare il fenomeno un po’ più in profondità.

Cos’è, oggi, per noi, l’interiorità? Cos’è quella che ostinatamente e vagamente continuiamo a chiamare “anima”?

Andrea Ponso per Voglio Vivere Così solitudine

Forse, anche e soprattutto per chi non è un credente cristiano, essa non è altro che il residuo peggiore e fondamentalmente sbagliato della cultura cristiana e occidentale: vale a dire, una concezione dualistica che divide l’anima dal corpo e dal sensibile, che si sente superiore e più alta delle realtà concrete e degli spazi di vita.

Riuscire a vivere da eremiti ritirandosi da tutto ciò che è concreto, reale, sensibile e spaziale, sembra così essere la forma più alta e possibile ovunque di questa pratica.

Ma se ci volgiamo agli insegnamenti della tradizione, per la maggior parte, ci rendiamo conto che questo dualismo, questa preponderanza di una parte sull’altra della vita – dell’anima sul corpo, del sovrasensibile sul sensibile, dello spazio interiore su quello esteriore, non è come oggi noi la concepiamo.

Da un punto di vista cristiano, potremmo dire che questo porta al misconoscimento dell’evento fondamentale dell’incarnazione e della creazione che sono in se stesse “buone” e non un ostacolo da abbandonare; ma, più semplicemente, anche per un non credente, tutto questo non è altro che un rifiuto o una sottovalutazione di quella che chiamiamo concretamente realtà.

Il rischio è quello di un solipsismo molto forte, di una sopravvalutazione del pensiero e della teoria sulla pratica concreta di vita e sui modi di abitare e vivere lo spazio e la creazione. È una tentazione molto forte, che da sempre ha attraversato il cristianesimo, ma che pare continuare anche nella nostra società contemporanea.

Forse, oggi, potremmo chiamarla virtualizzazione e volatilizzazione del corpo, della vita e delle relazioni; e, molto spesso, nasconde non tanto un tentativo di approfondimento del proprio essere al mondo, quanto una sua cancellazione o dimenticanza, un rifiuto della vita o un atto di superiorità nei confronti degli altri e del mondo.

Questa spiritualità rivolta esclusivamente all’interiorità e insensibile agli spazi e ai contesti, non può che portare, nella maggior parte dei casi, al nulla – a quello che lo stesso Giovanni della Croce chiamava nada, all’aridità e alla dissoluzione.

Se non consideriamo che la trascendenza non sta “dentro” di noi ma, al contrario, proprio “fuori” di noi, perdiamo la relazione con il mondo, con gli altri e, per chi crede, con lo stesso Dio. Precisamente, è proprio questa relazione che potremmo chiamare “anima”. La trascendenza, infatti, nasce appena ci muoviamo verso il “fuori”, non verso “l’interiorità”; essa comincia con il corpo, e con il corpo del mondo: toccare ed essere toccati, il tatto orientato concretamente, è il luogo e lo spazio della trascendenza.

E l’anima sta proprio “fuori”, in questa relazione. Altrimenti, non esiste anima.

Ecco allora che anche la scelta dei luoghi dell’eremita non è per niente indifferente ma, al contrario, contribuisce in maniera determinante alla sua ricerca di trascendenza e di vita spirituale rettamente intesa: un gesto di umiltà, nei confronti del tutto.

Il luogo concreto in cui si decide di vivere la propria vita eremitica è dunque la prima manifestazione della trascendenza e dell’anima al di fuori del dualismo che abbiamo detto; e, questo stesso luogo, si fa capacità di accoglienza dell’altro uomo, della storia e del lavoro; spazio di una meditazione che non può che essere paradossalmente esteriore o, meglio, esteriorizzata.

L’eremita non vive una vita “angelicata”, ma la sua meditazione serve a risvegliare l’attenzione per ogni gesto, ogni parola o azione, in cui possa illuminarsi una traccia dell’altro e del divino, a trasformare ogni cosa, anche la più concreta e apparentemente banale, in una epifania dell’altro, in un in-contro che non sfugge alla ruvidezza e alla dolcezza del suo essere presente.

Solo in questo modo, continuamente sollecitati e “disturbati” da ciò che non si riduce semplicemente alla nostra idea immunitaria di “interiorità”, possiamo crescere in direzione di una profondità reale, lasciandoci modificare e plasmare dalla relazione e quindi dallo spirituale.

Tutto questo, poi, ci porta anche a non cadere in una falsa idealizzazione, quasi sempre solo intellettualistica, di concetti come “armonia” dell’universo o cose del genere.

Credere di potersi “accordare” a tale armonia è quasi sempre un errore di orgoglio e di pregiudizio, potremmo dire: abbiamo, in noi (sempre questa maledetta interiorità), l’idea presupposta, e quindi frutto di un pre-giudizio, di questa “armonia”; ce la siamo costruita a forza di letture e luoghi comuni, ed è diventata una sorta di barriera difensiva, una rappresentazione piuttosto che una pratica vera e propria.

Infatti, chi ci dice che è così come noi la intendiamo questa “armonia”? Chiusi in questo paradiso “costruito da mani d’uomo”, e quindi quasi sempre idolatrico, ci precludiamo, inconsciamente o meno, la possibilità della trascendenza, vale a dire dell’andare oltre noi stessi per incontrare l’altro e il mondo.

Scegliere un luogo, quindi, parrebbe non essere per niente indifferente. I primi monaci che fondarono eremi e monasteri, si decisero per spazi e ambienti capaci di integrare la necessaria distanza e interruzione dal fragore del mondo, con l’apertura ad esso in tutte le sue forme.

Anche se la storia ci dice che una forte dose di dualismo e di vero e proprio rifiuto dell’esistente non è mai mancata, gli esempi migliori ci spingono a vedere proprio questa dinamica di spazio aperto all’alterità in ogni fondazione di tipo monastico: l’esempio della sacralità dell’ospitalità è forse il segno più eclatante ed evidente di questa concretezza.

Di Andrea Ponso

Nota biobibliografica

Andrea Ponso è nato a Noventa Vicentina nel 1975. Laureato in teoria della letteratura a Padova, ha conseguito un dottorato di ricerca in lingue e letteratura comparate presso l’Università di Macerata e di Lille; attualmente, dopo il baccalaureato in teologia alla Facoltà Teologica del Triveneto, sta portando a termine la licenza in liturgia e antropologia del rito a S. Giustina (PD).

Si occupa di traduzione di testi biblici dall’ebraico, e poetici dal francese e dall’inglese. Svolge attività di ricerca e di critica, esegesi biblica, con vari studi apparsi in riviste e convegni, in Italia e all’estero; collabora con il Master di studi interculturali dell’università di Padova e fa parte del comitato scientifico del Monastero di Camaldoli (AR).

Tiene corsi di esegesi biblica e sulla poesia del Novecento. Come poeta ha pubblicato nelle maggiori antologie della sua generazione. Il suo primo libro, “La casa” con prefazione di Maurizio Cucchi, è del 2003 per Stampa.

Dopo altre uscite presso Mondadori (“Nuovissima poesia italiana” e “Almanacco dello Specchio”), è uscito quest’anno il suo secondo libro in versi, “I ferri del mestiere” presso la collana de Lo Specchio di Mondadori. Attualmente, collabora come editor al Saggiatore e sta portando a termine una nuova traduzione dall’ebraico dei libri di Isaia, Qohèlet e Cantico.