“Amo il Giappone, ma Londra mi fa sentire parte del mondo”: la storia di Giulia
«L’Italia è piena di stage, tirocini non retribuiti, apprendistato ma con esperienza, lavori per i quali ti pagano sottobanco, contratti temporanei che ti vengono rinnovati ogni anno finché possono legalmente e poi ti lasciano a casa. Io, invece, da quando ho lasciato l’Italia ho solo avuto contratti a tempo indeterminato e ho cambiato più volte lavori per inseguire un salario migliore o una migliore posizione».
Giulia ci racconta la sua nuova vita: prima in Giappone – dove, nonostante le tante opportunità, le condizioni lavorative non sono così idilliache – e poi a Londra. Ecco la sua storia!
Di Enza Petruzziello
Il Giappone? Per Giulia è soprattutto una passione, oltre che una destinazione. Ma è Londra il posto dove finalmente si è sentita parte del mondo. Nata a Monza e cresciuta a Milano, l’amore nei confronti della cultura del Sol Levante è per lei così forte che a 23 anni decide di lasciare il suo lavoro ed iscriversi all’università per studiare giapponese, una lingua che la strega e che le ridà quella voglia di apprendere che al liceo aveva perso.
Dopo la laurea in Mediazione Linguistica alla Statale di Milano, prosegue gli studi con un master in insegnamento delle lingue straniere. Nel frattempo insegna giapponese e cinese in una scuola privata di lingue, e italiano agli immigrati come volontaria.
Nel 2014 la svolta. Giulia fa armi bagagli e nell’aprile di quell’anno si trasferisce a Yokohama. Quando arriva non conosce nessuno, e ricostruirsi una vita quotidiana in totale solitudine dall’altra parte del mondo è una delle esperienze più difficili della sua vita. Pian piano, però, si integra e inizia ad ambientarsi. Rimane in Giappone per quasi 6 anni, ma non potendo puntare ad un salario migliore senza accettare di rinunciare alla sua vita privata e di lavorare fino alle 10 di sera, le fanno capire che quell’esperienza, seppur bellissima, ormai si è conclusa.
Così alla fine del 2019 si trasferisce a Londra dove (pandemia a parte) ha sempre lavorato per aziende giapponesi. Ecco la sua storia.
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Giulia, come nasce la passione per il Giappone?
«Ho fatto il liceo linguistico e studiato 3 lingue europee: più che una passione per il Giappone, c’è stata prima di tutto una passione per le lingue. Certo al liceo leggevo manga, guardavo anime, ho fatto anche cosplay, e come me tanti della mia generazione. Ma mentre molti continuano tutt’oggi, io dopo la scuola ho smesso di interessarmi: ho cominciato lavorare e ho deciso di fare altro con i soldi che guadagnavo. Dopo qualche anno ho scelto di pagarmi un corso serale di lingua giapponese perché mi incuriosiva: magari non leggevo più i manga, ma rimaneva in me il mistero della loro lingua originale».
A 23 anni decidi di stravolgere la tua vita, lasci il lavoro e ti iscrivi alla Statale di Milano per studiare giapponese. Che cosa è scattato in te?
«È stato quel corso. Nonostante fosse un corso privato e nessuno si aspettasse nulla da me, ho cominciato a non uscire la domenica per poter studiare. Era una magia che non avevo mai provato prima: segni che non avevano alcun senso cominciavano a trasformarsi in parole, le parole in frasi. Nonostante oggi mi affascini qualsiasi lingua straniera e ne abbia studiate un po’ con sistemi di scrittura diversi, quella è stata la prima volta. E volevo di più. Ma dovevo scegliere: o lasciavo un lavoro con il quale stavo quasi avendo l’indipendenza dai miei o tornavo a chiedergli la paghetta mensile per andare in università.La crisi economica ha scelto per me: ci hanno lasciato senza lavoro a luglio 2009 e i corsi universitari cominciavano ad ottobre. Qualcosa è scattato in me, sì, ma bisogna dire che il destino ci ha messo lo zampino».
Dopo la laurea e un master ti trasferisci a Yokohama. Perché hai scelto proprio questa città?
«Le scuole di Yokohama (almeno all’epoca) erano un po’ meno costose di quelle di Tokyo e non sarei nemmeno stata troppo distante dalle 3 persone giapponesi che già conoscevo nel paese. Mi dava sicurezza. La mia migliore amica poi era stata in Giappone nel gennaio 2012 e aveva fatto una gita a Yokohama. Chissà perché mi era rimasto in testa che la gita le era piaciuta molto».
Andare dall’altra parte del mondo non deve essere stato semplice, soprattutto per te che eri completamente da sola. Come hai vissuto il passaggio nel vivere in un paese straniero? E come sono stati gli inizi qui?
«Inizialmente non vedevo l’ora di tornare a casa: non era solo la prima volta che vivevo all’estero, ma era anche la prima volta che vivevo da sola. Ci sono stati momenti difficili in cui mi sentivo molto sola. Pian piano ho conosciuto più persone e trovato una mia dimensione, un giro di amici e conoscenti giapponesi.
Ho vissuto in sharehouse per un anno e mezzo (trovata tramite la scuola) e poi mi sono trasferita a vivere da sola in un condominio di appartamenti minuscoli che un collega insegnante di spagnolo mi aveva indicato. Trovare lavori part time non è difficile, il vero incubo è trovare un lavoro fisso: ci ho messo un anno ad ottenere il primo e la mia vita era miserabile, con un capo ufficio che mi maltrattava tutti i giorni. Lasciare significava rischiare l’invalidità del visto e dover tornare in Italia, ma ho corso il rischio perché dopo due mesi stavo cadendo in una forte e rapida depressione. Fortunatamente quella volta ho trovato subito il lavoro successivo. Da allora però sono traumatizzata e ho alcune paure che si ripresentano ogni volta che comincio un lavoro in un nuovo posto»
C’è stato qualcuno che ti ha aiutato o hai fatto tutto da sola?
«In tutti quegli anni ho avuto due grossi aiuti. Il primo era la lingua: erano già 6/7 anni che studiavo giapponese, ero ad un livello sufficiente per cavarmela senza l’aiuto dell’inglese. Il secondo è stato l’aiuto che ho ricevuto umanamente. Ho incontrato persone meravigliose che mi hanno fatto sentire bene e sostenuto. Il capo del mio primo part-time, la sua famiglia e i clienti, così come il mio secondo capo ufficio, i miei colleghi e altri amici che ho avuto a Yokohama (tutti Giapponesi eccetto un americano)».
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Da un punto di vista burocratico, com’è la situazione in Giappone per ciò che riguarda i visti e i vari permessi? A te come è andata?
«Dopo il COVID è possibile che le tempistiche siano diverse e che alcune cose siano cambiate quindi invito chi è interessato ad aggiornarsi a riguardo. Il visto serve solo se si sta più di 3 mesi e lavorare senza visto è illegale. Il primo che ho avuto è stato da studente, in quel caso lo sponsor è la scuola, quindi ci vuole un po’ di tempo, ma non è difficile. Il visto lavorativo è più complesso: lo sponsor è l’azienda, ma molte di loro non hanno mai fatto la procedura o non hanno voglia di farla, e magari prima vogliono metterti alla prova e farti lavorare part-time per vedere come sei. Purtroppo il visto è solo per occupazioni full-time. Se si lascia quel lavoro, come ho fatto io, si hanno 3 mesi di tempo per trovare il successivo altrimenti viene ritirato. Ricevere un visto lavorativo dipende da molte cose: il Giappone ha un accordo con alcuni Paesi asiatici per avere immigrati che puntano ad un lavoro non specialistico, mentre per il resto del mondo vogliono solo persone altamente qualificate. Non ho conosciuto nessuno che, senza una laurea universitaria, sia riuscito a trovare lavoro. Molto dipende anche dal tuo percorso di studi o dai lavori precedenti e da quanto questi coincidano con quello che vuoi fare in Giappone: più puoi dimostrare di possedere capacità e specializzazioni, e di non essere lì per caso a fare un lavoro qualsiasi, più è probabile che ti venga dato».
Yokohama è la seconda città più popolata del Giappone dopo Tokyo. Com’è la vita qui?
«Yokohama è del tutto diversa da Tokyo. Non mi piace la capitale: sporca (i turisti vedono solo le zone turistiche che sono tenute pulite apposta), rumorosa e piena di gente. La gente è ovunque. Sempre. Ci sono troppi palazzi alti e non alzi mai lo sguardo. Yokohama ha solo la zona di Minato Mirai con grattacieli, per il resto è soprattutto quartieri bassi, piccoli palazzetti e casette. Ha spazi più ampi, si respira. Ho fatto passeggiate di ore in lungo e in largo, a qualsiasi ora del giorno e della notte, da sola o con amici e c’era sempre qualche vista o paesaggio. Ci sono camminamenti piacevoli e dalla città è facilissimo arrivare sia alle spiagge che alle montagne nel resto della regione di Kanagawa. Quando scendevo dal treno, di ritorno a casa dall’ufficio, tiravo sempre un sospiro di sollievo: non mi rendevo conto di quanto rimanessi tesa e concentrata, chiusa in me stessa nel tentativo di non perdermi nella folla di Tokyo. A Yokohama mi sono sempre sentita meglio, più rilassata e a mio agio».
È cara la vita in Giappone? E com’è il livello di assistenza sanitaria?
«In generale il Giappone è un paese caro per viaggiare, mangiare fuori, divertirsi e per i servizi sanitari. I turisti ti diranno diversamente, ma quando ci vivi è un’altra cosa. Le infrastrutture, con quello che paghi, sono molto buone in Giappone, della sanità non so se si può dire altrettanto. È privata quindi per ogni cosa si paga, ma non sempre questo equivale ad avere un buon servizio. Sono stata in ospedale sia per me stessa che accompagnando altri (dato che serve un livello avanzato della lingua) e ci sono stati episodi abbastanza preoccupanti.
In Giappone hai studiato e lavorato. Di che cosa ti occupavi esattamente?
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«Per tre anni ho studiato: ho fatto un anno di lingua e due anni di scuola specialistica di design (ero web designer prima di andare in università). Nel frattempo incastravo 4 lavori part-time: cameriera/cuoca, insegnante di italiano in una scuola, insegnante privata e facevo pulizie, accoglienza e guida durante gli open campus della scuola. Poi ho lavorato 3 anni full time come graphic designer, ma non ho mai lasciato il mio part time come cameriera/cuoca. La mia azienda faceva cartelloni pubblicitari, poster e lightbox per negozi, insegne e design per vetrine. Ho lavorato sia per marche giapponesi che per brand internazionali come Calvin Klein, Tag Heuer, Accessorize, Under Armor per dirne alcuni».
Da un punto di vista lavorativo e di studio, hai notato differenze con l’Italia?
«In Italia abbiamo ancora l’idea che andare in università sia l’unica scelta, che sia l’unico modo per trovare un buon lavoro e che chi non la sceglie sia o sarà “un fallito”. Le scuole professionali non sono viste di buon occhio. In Giappone ci sono scuole professionali quasi per tutto (pasticciere, tecnico del suono, ideatore di videogiochi, hostess di compagnia aerea, etc) e sono scelte da tantissimi ragazzi che magari non vogliono fare 4 anni di università usando i soldi di famiglia: in 1 o 2 anni molto intensi si diplomano e hanno un lavoro a 21 anni grazie al quale cominciano a guadagnare da subito. Significa che sono più stupidi perché non hanno fatto l’università? Nessuno lo penserebbe mai.
Per quel che riguarda il lavoro, l’Italia è piena di stage, tirocini non retribuiti, apprendistato ma con esperienza, lavori per i quali ti pagano sottobanco, contratti temporanei che ti vengono rinnovati ogni anno finché possono legalmente e poi ti lasciano a casa. I miei amici in Italia una volta trovato un posto fisso non ci pensano a mollarlo: che sia il lavoro della vita o no, non sono liberi di farlo perché chissà quando e se ne troveranno un altro. Io, invece, da quando ho lasciato l’Italia ho solo avuto contratti a tempo indeterminato e ho cambiato più volte lavori per inseguire un salario migliore o una migliore posizione».
Cosa ti ha sorpreso di più quando sei andata in Giappone la prima volta? E perché?
«La primissima volta è stato il paesaggio urbano che era esattamente uguale a come lo avevo visto anni prima dei manga. Quando mi sono trasferita a vivere invece… immagino che suonerà stupido, ma lo dirò lo stesso: la mancanza di detersivi per i pavimenti. Ho speso 2 mesi a cercare un detersivo per pavimenti come dio comanda e trovavo solo quelli per uso industriale. La mia ipotesi è che avendo culturalmente avuto un’architettura molto diversa dalla nostra con pavimenti in legno e tatami, c’è un’altra idea di come lavare i pavimenti. Molto spesso usano uno spray generico disinfettante/pulente da spruzzare sulla macchina per terra e poi passano con lo swiffer. Per me quello non è un pavimento pulito».
Cosa preferisci del vivere in Giappone? E viceversa cosa non ti piace affatto?
«A livello lavorativo sono sempre stata pagata e sempre puntualmente, sia per lavori full time indeterminati che per part time e collaborazioni estemporanee. Quello che non mi piace è che non esiste stare a casa per malattia. Suona folle, ma è così. Hai 10 giorni di assenza pagata all’anno, fino a un massimo di 15 giorni dopo aver lavorato per un’azienda per più di 10 anni. Come tu spenda questi giorni sono fatti tuoi: per vacanza o malattia, dopo cominciano i giorni di assenza non pagati. Non mi sentivo libera di ammalarmi e quindi non mi sentivo considerata come un essere umano.
Un’altra cosa che mi piace molto sono le tante infrastrutture comunali: ho fondato una squadra di pallavolo e usavamo una palestra di quartiere ad un prezzo irrisorio per 4 ore, ho partecipato a giornate di softball con amici e usare il campo da baseball di zona era facilissimo. C’erano aule, aulette e sale conferenze disponibili che ho utilizzato per lezioni di italiano per gruppi di persone e tanti luoghi pubblici attrezzati e tranquilli per fare lezioni private».
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Dopo 6 anni a Yokohama, un altro cambiamento. Nel 2019 – in piena Brexit – ti trasferisci a Londra. Perché la scelta di lasciare il Giappone?
«Ci sono state molte motivazioni. La principale è che mi sono resa conto che il Giappone mi aveva dato tutto quello che poteva offrirmi. Avevo un lavoro fisso e un appartamento di 14mq tutto per me, avevo amici giapponesi in abbondanza e qualche amica straniera. Ero contenta, sì, ma dopo un po’ cominci a volere di più: non potevo puntare ad un salario migliore senza accettare di rinunciare alla mia vita privata e di lavorare fino alle 10 di sera, e dopo 6 anni era abbastanza chiaro che non c’era alcuna speranza di avere una relazione sentimentale significativa. È stata un’avventura splendida con alti e bassi, la realizzazione di un sogno per il quale ho lavorato 7 anni prima di partire per realizzarlo, ma era ora di accettare la realtà: quell’avventura era giunta a conclusione.
A questo aggiungi che con i genitori che invecchiano (sono figlia unica) avere solo 10 giorni all’anno per poter tornare in Italia cominciava a pesare, mi sono resa conto che se fosse successo qualcosa di inaspettato sarei potuta arrivare in Italia solo dopo più di 24 ore e pagando chissà quale cifra. Non era più sostenibile, ma nemmeno volevo tornare in Italia dove c’è pochissima possibilità di lavorare con la lingua giapponese. Sì, la Brexit si avvicinava, ma Londra sembrava il posto migliore dove trovare occasioni di lavoro con le lingue straniere».
Di che cosa ti occupi nella capitale inglese?
«Ho dovuto cominciare come cameriera in un ristorante giapponese di un certo livello per avere almeno un’esperienza in UK e solo dopo il mio CV ha cominciato ad essere considerato. Il COVID ha ritardato tutto, ma alla fine ho trovato lavoro per Mary Quant (una famosissima fashion designer inglese, ma la cui azienda è ora in mano ai giapponesi): ero di nuovo designer ed utilizzavo la lingua, perfetto no? Finché non c’è stata la guerra in Ucraina e l’inflazione alle stelle che, purtroppo, non sono stati seguiti da un aumento di stipendio. Ho cominciato a fare molta fatica ad arrivare a fine mese, quindi ho dovuto cambiare. Ad agosto ho cominciato a lavorare per una delle cinque compagnie più grandi del Giappone: parlo il giapponese tutto il giorno e mi ritrovo spesso ad usare anche inglese, ovviamente, spagnolo, italiano e a volte del tedesco che ricordo per puro caso. Strano ma vero, da quando non lavoro con il design mi sono ritrovata a fare molte attività artistiche nel mio tempo libero, quindi non è assolutamente nel dimenticatoio».
Tra le città più costose d’Europa, ma anche quella con la migliore qualità della vita, Londra è una metropoli cosmopolita e piena di opportunità. Come si vive qui?
«Non ti dirò nulla di nuovo probabilmente: se lavori duro le opportunità arrivano in questa città. Conosco donne italiane che lavorano come architetti, nel campo della moda, del makeup e nella produzione per cinema/televisione, tutte con successo e soddisfatte della loro vita in questa città. Qualcuna ha comprato casa o pianifica di farlo, qualcuna ha messo su famiglia. Come ogni grande città la odi e la ami, prende e toglie. L’importante per me è stato trovare la mia fetta di città (sud est di Londra, lo adoro!) e costruirmi la mia rete di conoscenze. Poi dipende da che tipo di vita uno conduce, alcuni stili richiedono più spese di altri ma questo vale in qualsiasi parte del mondo».
Quali sono le principali differenze che hai notato tra Il Regno Unito e il Giappone?
«Detersivi per pavimenti! Scherzi a parte, la differenza più grande, che è stata anche il mio primissimo shock culturale qui, è stata la gente per strada. Venivo da 6 anni di vita in un paese che è 95% asiatico: una folla di persone tutte dello stesso tipo e se c’è un occidentale lo vedi a 2km di distanza perché spicchiamo come un papavero in un campo di margherite. Londra è invece una piscina di palline colorate: all’improvviso vedevo caucasici, ma anche neri, persone dal medio oriente, dal sud e dal sudest dell’Asia. Un vero mix che all’improvviso mi ha fatto sentire parte del mondo, come se fino a quel momento avessi vissuto solo in un angolo».
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Se potessi dare un consiglio a chiunque voglia trasferirsi in Giappone o a Londra, quale sarebbe?
«Per chi vuole trasferirsi in Giappone e non ci ha mai vissuto consiglio di avere un progetto breve per cominciare: un anno è un buon compromesso. Le differenze sono veramente tante e per quanto si possa essere affascinati dal paese, viverci è un’altra cosa e non è detto che faccia per tutti. Se andate per studiare staccatevi dagli italiani e dagli americani, lasciate stare l’inglese e buttatevi: non state spendendo tutti quei soldi per migliorare il vostro accento californiano. Se volete lavorarci, allora non andateci senza una laurea altrimenti non troverete nulla. Per Londra è diverso. Direi che l’importante è essere pazienti ed essere disposti a fare un passo indietro magari lavorativamente parlando, prima di poter cominciare ad avanzare. E poi prepararsi psicologicamente a prezzi non facili, accettare che potreste vivere in condivisione anche fino ai 40 anni, cosa che qui è normale».
Come è cambiata la tua vita da quando vivi all’estero?
«Totalmente. E nemmeno la “vita all’estero” è sempre stata la stessa. Sono passata da studentessa universitaria, a studentessa con 4 lavori part time, poi a designer a tempo pieno in una casa tutta mia, a case in condivisione mentre facevo la cameriera in cerca di un lavoro migliore, dalla cassa integrazione durante il Covid, ad essere nuovamente una designer e adesso sto imparando un lavoro nuovo da 0».
Progetti e sogni per il futuro?
«Sono quel tipo di persona che è motivata da obiettivi specifici, quindi di progetti ne ho moltissimi. Come grossi progetti direi: ottenere il settled status (ottobre 2024) in modo da poter andare e venire dal Regno Unito con più tranquillità e prendere la certificazione di lingua giapponese più alta. Poi voglio impegnarmi di più nell’attività di volontariato che ho cominciato a Londra per Girl Gone International, un’organizzazione no profit per donne che emigrano all’estero e che vogliono trovare una comunità di amicizia e supporto nella città dove si trovano: collaboro per il capitolo londinese, ma ho partecipato ad eventi a Tokyo e ho incontrato persone anche a Parigi e Oslo nei miei viaggi».
E come obiettivi più leggeri?
«Ho il mio primo esame di kyudo (tiro con l’arco giapponese) a giugno e voglio impegnarmi per passarlo, vorrei riprendere a giocare a “Go” (un gioco da tavolo di origine cinese) e sto imparando ad usare gli acquerelli: con alcuni amici del mio quartiere stiamo progettando di creare una piccola comunità artistica».
Non ti fermi mai?
«Assolutamente mai!».
Per contattare Giulia ecco il suo account Instagram: @tsuki.giulia