Vivere e viaggiare in un piccolo VAN
Partiti 7 anni fa, Selene e Humberto vivono in un piccolo van viaggiando per il Sud America. Con loro c’è Tobby, un adorabile randagio adottato in Cile. La cosa che apprezzano di più della loro nuova vita? «La responsabilità totale e assoluta di decidere come e dove vivere le nostre giornate. Che non significa non avere momenti negativi ma significa avere la facoltà, la capacità e la forza di poter cambiare una situazione se questa non ci piace. Ecco la loro storia».
Di Enza Petruzziello
Non chiamateli vanlifers. Selene e Humberto sono semplicemente due ragazzi che 7 anni fa hanno deciso di cambiare bruscamente direzione e trasformare un piccolo Van, targato Bolivia, in una casa itinerante per avventurarsi alla scoperta del Sud America.
Italiana lei, venezuelano lui, Selene e Humberto – rispettivamente di 40 e 34 anni – vivono dal 2017 in Van Volkswagen di 2 mt per 4 insieme al loro cagnolino Tobby, un adorabile randagio color miele dall’indole zen adottato in Cile. Viaggiano lenti per il continente latino, accogliendo opportunità e abbracciando luoghi e persone diverse e sempre nuove.
Una famiglia multiculturale, come amano definirsi. Persone che amano il cambiamento, migranti fortunati e viaggiatori lenti. Partiti con un tempo e un destino definito, nel corso dei chilometri il loro viaggio si è trasformato in uno stile di vita che aspira al minimalismo, alla semplicità e alla sostenibilità. Una connessione più profonda con la terra che li ha avvicinati all’autoproduzione in van e a progetti e storie di persone che poco alla volta decidono con le loro azioni di rendere il mondo un posto migliore in cui vivere.
Ecco cosa ci hanno raccontato.
Selene da dove viene e di cosa ti occupavi prima di cambiare vita?
«Sono nata e cresciuta a Brugherio, un piccolo paesino alle porte di Milano. Dopo il classico percorso universitario (Laurea in Beni culturali prima e Master in organizzazione di eventi dopo) ho iniziato a lavorare in alcune agenzie di comunicazione di Milano fino ad approdare al CPM music institute, la scuola di musica di Franco Mussida (PFM) dove, come responsabile dell’organizzazione didattica, sono rimasta per 5 anni. Il giorno in cui ho dato le dimissioni, il 21 di settembre del 2014, è per me un ricordo indelebile.
Che cosa non ti piaceva del tuo lavoro?
«Il mio lavoro, iniziato come una passione, era diventata un’obbligazione invadente, lontana dai miei valori e che, sgomitando e senza permesso, stava mangiando pezzetti di tempo, vita e desideri: le attività di volontariato che amavo erano rilegate a brevi ritagli di tempo, i viaggi zaino in spalla alla scoperta della diversità del mondo erano corse frenetiche incastrate in 20 giorni di vacanze, l’insoddisfazione avvertita era taciuta e sommersa tra impegni di un lavoro poco riconosciuto e, i giorni scorrevano veloci, uno uguale all’altro, passi dritti in una strada senza meta, sicura certo ma, anche ben lontana dalla mia vera essenza».
Qual è stato il momento in cui ha capito che la tua vita doveva cambiare direzione?
«Credo esista un punto di rottura per molti di noi. Una volta raggiunto, è fondamentale riconoscerlo per decidere se intraprendere la strada del cambiamento o crogiolarsi nell’accettazione di qualcosa che pensiamo di non poter realizzare. Così, due giorni dopo aver dato le dimissioni, sono partita per realizzare qualcosa che volevo da tempo, dedicarmi agli altri in modo incondizionato. Ho prestato volontariato nella casa famiglia di Isla Ng Bata, nella scuola e orfanotrofio Footprints Family, e nella casa del migrante di ASCS rispettivamente nelle Filippine, in Kenya e infine in Bolivia. Dove, nel 2017, in modo tanto inaspettato quanto naturale, ha avuto inizio la mia attuale vita».
Humberto invece tu sei di Valencia, in Venezuela. Quando hai lasciato il tuo Paese e perché?
«Ho lasciato il mio Paese all’età di 27 anni, nel 2016, 4 anni dopo la morte di Chavez, momento in cui le proteste stavano iniziando ad infiammarsi e la situazione del Venezuela stava inesorabilmente peggiorando giorno dopo giorno. Conoscevo la politica da vicino, quella di sinistra così come quella di destra, e non ho avuto bisogno di molto tempo per capire che Venezuela si stava trasformando in una terra minata, una nuova seconda Cuba. Così ho preferito anticipare i tempi. Ho terminato gli ultimi esami universitari in commercio internazionale, ho rinunciato alla tesi perché avrebbe richiesto attesa, ho chiuso l’agenzia di eventi e pubblicità che avevo creato e nel giro di qualche mese mi sono messo a vendere pizze a tutto spiano per racimolare il più velocemente possibile i soldi che mi sarebbero serviti per attraversare la frontiera e lasciarmi alle spalle quanto poi sarebbe successo».
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Poi cosa è successo?
«Sono uscito dal Paese con 800 dollari in tasca, mi sono fermato a lavorare nel nord del Brasile per alcuni mesi ma, insoddisfatto delle condizioni di lavoro e di vita, ho deciso poi di proseguire il mio cammino verso il Cile, uno dei paesi latini con la migliore situazione economica, terra di opportunità migliori. Nel mio viaggio verso sud, sono stato derubato proprio in Bolivia, a La Paz, ed è lì che, inviato dalla mia ambasciata alla casa del migrante (casa di accoglienza) per ricevere aiuto e supporto, il mio destino e quello di Selene si sono incrociati. Lei migrante per scelta, io migrante per necessità».
Selene, Humberto, come vi siete conosciuti e innamorati?
«La Bolivia è stata il nostro “Cupido”, la terra che ci ha visti incontrare e realizzare il nostro progetto di vita in un’epoca in cui questa scelta un po’ stramba appariva ai più azzardata e decisamente poco condivisibile. Almeno in Europa. Nel giro di un anno abbiamo immaginato, pensato e concretizzato il sogno di una vita nomade alimentata da cambiamento e apprendimento, lontana e libera da stereotipi e condizionamenti di un Paese spesso ingessato in cui, io, non ero mai riuscita a identificarmi e, da un Paese al collasso che a lui aveva dato come unica opzione quella di migrare».
Perché ad un certo punto avete deciso di mettervi in viaggio e vivere in Van?
«La nostra permanenza in Bolivia dopo un anno stava per volgere al termine e la decisione di cambiare cammino, ancora una volta, arrivò lenta ma decisiva. Convinti della scelta di non voler rientrare nei nostri paesi di origine ma altrettanto convinti di voler sperimentare anche altre opportunità di lavoro (in quel momento Humberto lavorava in pubs e ristoranti e Selene nell’Istituto di cultura italiana) non ci restava altro che fluire e trovare il modo di proseguire il nostro nuovo viaggio e la nostra ricerca.
Iniziammo ad informarci e scoprimmo così che:
- In Argentina già alcune persone avevano iniziato in modo avventuroso a viaggiare in un piccolo van;
- Che quel van era il mitico Vw che io, Selene, amavo e sognavo da quando ero piccola pur senza averne visto mai uno dal vivo;
- Che si poteva lavorare nel cammino, in modi diversi da quelli che conoscevamo.
Il nostro van, targato Bolivia, è apparso con altrettanta semplicità nel pomeriggio di una domenica di marzo nel mercato a cielo aperto più caotico, famoso e alto al mondo, il Mercato dell’Alto».
Così nel 2017 inizia ufficialmente la vostra avventura. Qual è stata la città di partenza del vostro viaggio?
«Il 25 settembre del 2017 siamo ufficialmente partiti dalla città di La Paz accompagnati da leggeri e candidi fiocchi di neve, dal freddo gelido dei 4000 mt e dal nostro iconico Volkswagen strabordante di emozioni contrastanti ma assolutamente privo di qualsiasi comodità. Con pochi vestiti, un letto e una cucina a gas, senza riscaldamento o condizionatori, e con un paio di bottiglioni di acqua di 6 lt, abbiamo avviato il motore del van certi che tutto ciò che ci mancava lo avremmo incontrato lungo la strada. Niente di più vero».
Come vi siete organizzati da un punto di vista pratico?
«Scaduto l’anno di lavoro e avendo a disposizione solo 3 mesi di permanenza restante in Bolivia, abbiamo camperizzato il nostro van nella forma più semplice, rapida ed economica. Niente a che vedere con i moderni van. Non ci interessava partire con chissà che cosa, ci interessava partire e basta. Ci interessava vivere di esperienze. Così nel corso degli anni, verificando poi le esigenze reali, abbiamo apportato delle modifiche al van in termini di spazio e necessità fino ad arrivare all’allestimento che abbiamo oggi: 1 tetto più alto, 1 letto di mt 1.80 per 1.50, un bagno secco, un cassetto per la doccia, una bombola del gas di 5 kg, due serbatoi di acqua rispettivamente di 20 e 24 lt, 1 pannello solare e 1 batteria per lavorare. Non abbiamo riscaldamento, condizionatori o acqua calda ma siamo vivi, in forze e in grado di adattarci a molte situazioni».
Con che budget iniziale siete partiti?
«Siamo partiti con meno di 2000 euro, diretti in Cile con l’obiettivo di afferrare le occasioni di lavoro stagionali. Nel corso del tempo, e nel passaggio da un Paese all’altro, le condizioni sono cambiate. Le opportunità nascono dall’intraprendenza, insieme alla fortuna che a mio avviso bisogna sempre saper riconoscere e saper gestire e, alla generosità delle persone che alimenta questo continente. Quest’ultima è qualcosa di prezioso e inestimabile. Soprattutto quando parliamo di un viaggio che nella sua essenza nomade e incostante si trasforma in uno stile di vita.
Al tempo pre-pandemia quando il lavoro online era raro e inusuale ai viaggiatori non restava che apprendere in loco come cavarsela. La stagione estiva in Cile aveva dato buoni frutti ma non erano eterni. Così in Argentina, in pieno inverno, grazie alla motivazione dataci da altri viaggiatori abbiamo iniziato a buttarci e improvvisare. La vendita in strada si è rivelata la nostra risorsa, attività molto ma molto comune per i viaggiatori perché non richiede permessi e perché avvicina la gente che ama collaborare anche fosse con pochi pesos. Abbiamo iniziato a vendere quello che ci piaceva produrre, uncinetto, cartoline, collane e braccialetti con pietre, saponi naturali, successivamente, ho iniziato a dare corsi di autoproduzione itinerante, Humberto a lavorare con la fotografia e la produzione video. E così siamo andati avanti lenti fino alla pandemia, che ancora una volta ha cambiato le carte in tavola».
Ad unirvi, oltre all’amore e alla passione per i viaggi, anche l’amore per gli animali. Insieme con voi viaggia Tobby, un adorabile randagio color miele dall’indole zen trovato in Cile. Vi va di parlarci di lui?
«Tobby “Mapuche” (in onore alla sua origine cilena) si è unito al viaggio in una mattina piovosa, fermi dal meccanico per alcune revisioni, dopo aver concluso la nostra stagione di lavoro estiva in Viña del Mar, città ad 1 ora da Santiago del Cile. Aveva un collare ma si vedeva chiaramente che era perso e spaurito. Girava alla fermata dell’autobus in cerca di qualcuno, si allontanava e si avvicinava senza sapere bene dove fermarsi, a chi affidarsi. Nessuno del quartiere lo aveva visto prima.
Humberto è stato il primo ad esserne stato attratto ma, avevamo un accordo: avremmo accolto il primo cane di strada (e in Sud America ce ne sono moltissimi) che avesse risposto in modo immediato e positivo al comando “Súbete/monta sul van!”. Così è stato, due minuti dopo aver acceso il motore del van, abbiamo sentito due zampe colpire la porta del conducente e nell’affacciarci dal finestrino lui era lì, a guardarci come se fossimo stati noi ad abbandonarlo. Gli abbiamo aperto la porta, abbiamo pronunciato le parole magiche, e senza farsi attendere molto, il cane era già seduto in mezzo a noi, nel posto che si è conquistato con amore incondizionato. Ovviamente, data la presenza del collare, ci mettemmo in moto per cercare di capire se qualcuno lo stava cercando, ma nessuno è apparso. Sono passati 6 anni da quel momento e per ogni passo che facciamo, 24 ore al giorno, lui è accanto a noi, noi a lui».
La vita in un van non è facilissima già per una coppia, figuriamoci in 3. Come riuscite a convivere in spazi così ristretti?
«La pazienza e la tolleranza sono le due armi vincenti. Non dico che le sfoderiamo sempre però, con il tempo, abbiamo imparato a ritagliarci spazi personali fisici, organizzandoci a turno quando non abbiamo un giardino e un clima favorevole per poter vivere all’aria aperta. Abbiamo imparato a ritagliarci spazi mentali accogliendo che il silenzio non come assenza di cose da dirsi, ma come puro ascolto personale.
Abbiamo iniziato a giocare a tetris – mentre si cucina, mentre si producono fotografie, mentre io autoproduco… – e scoperto che può anche essere divertente. Per il resto ci piace stare insieme 24 ore al giorno. Diversamente, uno dei due ora avrebbe già abbandonato l’altro in qualche angolo remoto del continente».
Finora quali sono i posti dove siete stati con il vostro Van? Che cosa vi ha colpito dei luoghi che avete visitato?
«Abbiamo inaugurato la nostra vita on the road nella complessa, colorata dura Bolivia, di cui avevamo imparato a conoscere le differenze culturali, ci siamo sorpresi del Cile che abbiamo percorso dal punto più a nord, Arica, fino a Puerto Montt, abbiamo conosciuto le mille facce dell’Argentina, gigante assoluto per le sue bellezze, assaporato il calore estremo e l’accoglienza paraguayana, visto solo una piccola parte dell’immenso Brasile e siamo approdati in Uruguay, terra di pescatori, mucche, dune e ritmi rilassanti. I nostri primi 60.000 Km sono scivolati via alla “velocità del paesaggio” espressione tipica argentina che indica quei viaggiatori in van che, con le mani che danzano nel vento, mantengono costanti una media di 70 km/h aspettando che la strada si apra verso un universo parallelo fatto di nuove prospettive e possibilità. Il tempo in viaggio acquista tutto un altro valore, i sensi sono attivi, percettivi e i giorni sono un susseguirsi costante di scelte e di incontri, fugaci ma magici. Ogni posto è un’occasione per andare oltre la prima impressione. Così il posto meno attraente potrebbe rivelarsi famigliare, accogliente e lasciare un segno indelebile grazie alle persone con cui interagiamo o al contrario un posto meravigliosamente turistico rivelarsi asettico e assolutamente poco memorabile.
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Ci piacciono i piccoli paesini non le grandi città. Amiamo scoprire i posti attraverso i racconti delle persone più che attraverso statici musei. Amiamo sapere della vita dei locali, amiamo connetterci al luogo respirandone l’aria e non la contaminazione, sedendoci per terra, di fronte ad un paesaggio e non al ristorante o al tavolino del bar di una città. Cerchiamo di conoscere un paese adattandoci ai suoi ritmi, alle sue contraddizioni e soprattutto alla sua natura. Perché è lei che determina tutto.
Com’è stata l’accoglienza latina?
«È stata definitivamente la parte più travolgente e commovente di un viaggio in Sud America che, iniziato con un itinerario preciso e un punto di arrivo nella terra dei tacos, si è trasformato in uno stile di vita lento, minimalista, sostenibile. Quasi fin da subito abbiamo capito che per noi non si trattava unicamente di attrazioni turistiche o mete da raggiungere, si trattava di vivere il movimento come un mezzo di ricerca e connessione per abbracciare domande senza risposta, accettare nuove sfide, cambiare priorità, osservare e aspettare». Il viaggio nel suo essere più puro è una combinazione di paesaggi che spalancano gli occhi e rendono attivi i sensi e di incontri che rallegrano il cuore.
Vivere viaggiando. Il sogno di molti, ma come riuscite a sostenervi economicamente?
«Lungo la strada ci siamo trasformati in artigiani, venditori ambulanti, baristi, segretari, commessi e, attualmente, lavoriamo per far sì che le nostre passioni siano costanti fonti di reddito. Il lavoro è un mezzo per fare dell’altro, ovvio che se poi riusciamo a far di una passione anche un ingresso economico tanto meglio ma questo non è che solo una parte del nostro essere. Oggi, perché domani chissà, Humberto si occupa di fotografia di prodotto, fotografia di paesaggi e produzione video ma anche di creazione e gestione siti io, dal do corsi di autoproduzione cosmetica naturale e da 3 anni sono tutor di italiano. La pandemia, nella sua tragicità, è stata però per noi un momento decisivo. Rientrati in Italia, dopo 8 mesi bloccati in Argentina, abbiamo colto il momento per lanciarci nell’online e iniziare a lavorare per piattaforme come Fiverr e Preply; abbiamo approfittato della nostra permanenza per lavorare prima in Puglia in un progetto audiovisuale in campo turistico e poi in alcuni campeggi tra Umbria e Toscana e, infine, prima di rientrare in Sud America di nuovo, siamo riusciti a mettere in affitto un appartamento nel paesino dove abitavo. L’affitto di 500 euro, non ci rende milionari, non ci fa sedere sugli allori, e per nostra scelta personale rimane un apporto economico a cui attingere solo in caso di estrema necessità. Nessuno ci corre dietro, se non generiamo ci fermiamo e risparmiamo.
Attualmente dove vi trovate e cosa state facendo?
«Attualmente e per la 5° volta in 7 anni, siamo in Argentina. Un paese così grande e così ricco di luoghi spettacolari che non si può pensare di visitare e conoscere in una sola scappata. In questo momento economico e politico tra l’altro rappresenta anche un luogo decisamente conveniente rispetto ad alcuni vicini soprattutto se si guadagna in dollari o in euro. Nel momento stesso in cui sto scrivendo ci troviamo a Salta, una delle province del nord ovest argentino che confinano con Bolivia. Se potessimo consigliare cosa visitare in Argentina come prima esperienza, non avremmo dubbi nel suggerire le province di Salta, Catamarca e la Rioja che, lontano, dai centri urbani, vi mostreranno canyon, montagne colorate, deserti di sabbia, deserti di sale e molti altri paesaggi da togliere il fiato per davvero. Siamo qui perché il 1° di agosto inizia una celebrazione importante che vorremmo cercare di vivere nel modo più autentico possibile, la festa ancestrale della Pachamama. La festa della Madre Terra.
Raccontateci una vostra giornata tipo.
«Le nostre giornate tipo al momento sono dettate dalle programmazioni delle mie classi di italiano, l’aspetto più vincolante. Sveglia alle 7,15 o alle 8 dipendendo appunto dalle prenotazioni. Dopodiché in base all’itinerario o al destino che abbiamo in mente ci muoviamo incastrando la quantità di km per poter sempre cadere all’orario necessario di lezione in un luogo con buona connessione. E questa non è cosa semplice.
Le nostre soste possono durare una notte o anche una/due settimane, non ci facciamo troppi programmi in questo. Quando ci sentiamo comodi in un luogo la permanenza sarà più lunga al contrario la nostra sarà una toccata e fuga. Non sempre finiamo in luoghi spettacolari. Spesso dormiamo anche in stazioni di servizio. Dipende dal paese. Ma le stazioni di servizio qui sono più che accoglienti e il personale molto amichevole. Cerchiamo sempre di incastrare le commissioni quotidiane in uno stesso giorno, per stressarci una sola volta soprattutto quando queste richiedono visite in città particolarmente grandi. Non tutto è immediato e rapido. Anche le cose più semplici richiedono tempo e pazienza. Quando vogliamo visitare dei luoghi specifici, più o meno isolati o difficili, nei limiti del possibile, prendiamo informazioni preventive e ci organizziamo con un itinerario approssimativo. Spendiamo il meno possibile, la manutenzione del van, benzina e cibo sono le nostre priorità. Molte altre cose arrivano anche attraverso lo scambio, vestiti e oggetti in primis».
Siete molto attivi sui vostri social, avete anche un canale Youtube. Di che cosa parlate e cosa raccontate in questi spazi virtuali?
«Il nostro spazio online vuole essere nel modo più semplice e trasparente, uno spiraglio di realtà. Conserviamo gelosamente lo spirito di quei viaggiatori che si sentono più nomadi che digitali. Una coppia, come tante, che da più di 6 anni vive in modo itinerante e minimalista per il Sud America, scoprendone limiti e opportunità quotidiane, bellezze naturali e culturali, sostenibilità, sempre alla ricerca del contatto con la natura e sempre in modalità lenta, senza luccichii, senza fronzoli. Alla società dell’ostentazione, dell’apparenza e della perfezione noi preferiamo la semplicità fatta di imperfezione, sfumature, incontri, momenti che prima di essere raccontati vanno vissuti e interiorizzati. Perché se ci limitassimo a farne solo un elogio personale o un racconto mediatico, il rischio sarebbe di dimenticarne presto l’essenza e il senso che si nascondono in quel meraviglioso e costante stimolo ad interrogarci sempre sul come e sul perché del nostro andare».
La Van Life viene spesso dipinta come un paradiso. Ci fate un’analisi obiettiva dei reali vantaggi e svantaggi di questo stile di vita?
«Certo, la Vanlife potrebbe essere un vero e proprio paradiso se non ci fossero limiti di soldi, di permanenza, di veicolo. Se ci si potesse svegliare tutti i giorni in cima ad una bellissima montagna o lunga la costa oceanica ascoltando il canto delle balene, dondolando su un’amaca. Per tutte le altre persone che vivono in van per davvero, non si tratta di una vacanza a tempo determinato, si tratta di conciliare gli impegni di una vita normale con il movimento costante e lo spazio di cui disponi. Un giorno meraviglioso in cima all’Hornocal potrebbe nasconderne dieci o più fatti di lavoro, preparazione, attesa. Quotidianità. Come in qualsiasi altro contesto. Non è uno stile di vita adatto a tutti, soprattutto se vivi in un mezzo come il nostro che potrebbe essere grande come il bagno di casa e se vivi fuori dal tuo paese in cui regole di permanenza e burocrazia sono diverse, in cui la cultura è diversa. E sempre quando i tuoi programmi sono comunque dettati dai tuoi ingressi economici. Detto questo, è una scelta. Che per noi continua ad avere più pro che contra, altrimenti non continueremo a portarla avanti. E’ la scelta di decidere in primis del proprio tempo. Di aprirsi al cambiamento e alle opportunità. Di vivere ogni giorno come una novità, di mettersi alla prova in realtà diverse, vivere di esperienze, di imparare ad essere flessibili, adattarsi. Di imparare a dare priorità. Di vivere con poco, dar valore all’essenziale. Di rispettare la diversità, e mettere in discussione le nostre visioni. Di vivere con i sensi in modalità on. Vivere in strada, in movimento ti riconsegna la fiducia nel prossimo, nonostante tutto, e ti aiuta ad ascoltare l’istinto, che non sbaglia mai. Ti invita a chiedere senza timore e a provare senza vergogna, perché in fondo non c’è nulla da perdere. Ti invita a trovare il tuo equilibrio, tra essere e avere».
Per quanto riguarda i contro, invece?
«Sul piatto della bilancia, dall’altra parte, dovrai fare i conti con l’assenza di privacy, comodità ridotta, a volte una sensazione di instabilità, insicurezza. Dovrai far pace con notti insonne, problemi meccanici, docce improvvisate, pernottamenti in stazioni di servizio. Vestiti sporchi, polvere. La perfezione e la pulizia sempre, ad ogni costo, non fa di te una persona migliore. Fa di te solo una persona profumata. Niente di più. E dovrai sapere valutare e rinunciare a qualcos’altro. Si, perché, anche se non te lo mostrano, vivere in van comporta anche questo».
Ecco come fare per andare a vivere in America: i documenti necessari e molto altro!
Molti Paesi del Sud America non sono esattamente dei luoghi “tranquilli”. Episodi di piccola e grande criminalità sono all’ordine del giorno. Avete mai avuto paura? Se sì, vi va di raccontarci qualche episodio e come ve la siete cavata?
«In Sud America la criminalità non è né più né meno di alcune capitali europee. Quello che bisogna evitare in questi paesi è trovarsi nel mezzo delle proteste. Perché qui le persone alzano la voce in modi più o meno forti e, giusto o sbagliato che sia, la protesta è ancora la manifestazione più evidente di un disagio, di un malessere, di un’ingiustizia e di una situazione politica vissuta e come stranieri non coinvolti nei fatti va rispettata e ancor di più come turisti evitata.
In generale, le nostre regole di base sono:
- Non ostentare
- Ascoltare l’istinto
- Sapersi guardare intorno
- Evitare le grandi città a favore di luoghi più isolati e più tranquilli
- Evitare di pernottare vicino a luoghi di divertimento e svago
- Lasciare il van solo se certi della sicurezza del posto
- Non lasciare documenti o oggetti di valore nel van quando ci allontaniamo
- Cambiare luogo in caso di percezioni negative
- Rifugiarci in una stazione di servizio per maggiore sicurezza
A noi personalmente non è mai successo nulla di grave, gli unici 2 episodi di disturbo senza conseguenze li abbiamo avuti, paradossalmente, nel paese riconosciuto come il più sicuro, Uruguay. Il Sud America, davvero, potrebbe meravigliarti più per la sua accoglienza che per la sua criminalità».
Proprio come voi, sempre più persone cercano stili di vita alternativi, soprattutto negli ultimi anni. Che consigli dareste a chi sta pensando come voi di viaggiare e vivere su un van?
«1. Scegli un van che possa accompagnarti per molti km a venire, e verifica le condizioni meccaniche più che l’estetica. Avere problemi meccanici e dover spendere molti soldi nel risolverli non è un aspetto da sottovalutare. Il mezzo con cui viaggi è il cuore del movimento, se questo non funziona bene, il viaggio inizia a generare frustrazione e a lungo andare potresti decidere di concluderlo ancora prima di averlo vissuto.
2. Se hai la possibilità, genera un ingresso passivo prima di partire, cosicché tu possa integrare attività lavorative in loco e/o online. Dai spazio alle tue risorse, alle tue competenze. O createle.
3. Apri le porte del van agli sconosciuti, viaggiare in van è un’alternanza di momenti, la solitudine si compensa con la socialità. Non si tratta di parcheggiare solo uno accanto all’altro, viaggiare in van è una scusa per zompare giù e recuperare la convivialità.
4. Condividi. Tutte le volte che ricevi qualcosa, ricordati di dare. Aiuta, regala. L’universo per davvero è una bilancia di energie, ciò che dai torna amplificato. Meglio che sia buono, no?
5. Indipendentemente dell’età, appoggiati a piattaforme come Housesitting, Coachsurfing, Workaway. Sono occasioni utili se hai bisogno di fermarti per riposare, conoscere, sperimentare. Non ci sono limiti di età per questo.
6. Viaggia leggero, materialmente e spiritualmente».
In che modo è cambiata la vostra vita, e come siete cambiati voi, da quando avete deciso di lasciare tutto e vivere a bordo di un van in giro per il Sud America?
«Credo che la nostra vita attuale sia il risultato di ciò andavamo cercando insistentemente nei nostri luoghi di origine. La responsabilità totale e assoluta di decidere come e dove vivere le nostre giornate. Che non significa non avere momenti negativi ma significa avere la facoltà, la capacità e la forza di poter cambiare una situazione se questa non ci piace. Non serve per forza viaggiare o vivere in un van per arrivare a questa consapevolezza, ma siamo tutti diversi e ognuno cerca il proprio modo e il proprio posto nel mondo. Il nostro è dentro un piccolo van in movimento. Guardiamo indietro nel tempo e quello che siamo oggi è un puzzle non ancora finito fatto di emozioni sparse qua e là, di successi e di difficoltà superate. Non abbiamo idea di chi saremo domani, di cosa faremo, dove dormiremo, cosa o con chi mangeremo. Nessuno lo sa. Nessuno lo può immaginare o supporre. Ma forse il bello è questo. Riconoscere di non sapere per continuare a imparare, continuare a sognare in grande e vivere l’oggi a piccoli passi, assaporando chilometri».
Prossime destinazioni e progetti futuri?
«Aspettiamo che finisca l’inverno del nord dell’Argentina, a settembre pensiamo di tornare in Uruguay per un progetto di bio costruzione in terra e argilla e la prossima meta dovrebbe essere il nord del Brasile, ancora indecisi se da lì entrare in Venezuela per visitare la mamma di Humberto dopo 7 anni di assenza o se spingerci ad attraversare in barca l’Amazzonia per raggiungere la Colombia evitando Perù e Ecuador paesi che attualmente stanno limitando l’ingresso ai venezuelani. Ma niente è certo e tutto imprevedibile…»
Per contattare Selene e Humberto ecco i loro recapiti:
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