Mauro Campanale: un cuoco dannato a New York

Di Nicole Cascione

Mauro Campanare: chi è

“Mi chiamo Mauro, ho 24 anni e questa è la storia del viaggio maledetto di un cuoco dannato. Sono in cucina praticamente da quando ho memoria. Una storia d’amore adolescenziale portata fino ad oggi tra alti e bassi, ma con un solo scopo: portare la mia terra, il mio background e il valore delle mie radici ovunque”.

Un viaggio che ha portato Mauro Campanale dalla Puglia a New York, dove riveste il ruolo di Executive Sous chef dell’Antica Pesa, un ristorante premiato con 2 forchette su 3 dal Gambero Rosso.

Mauro Campanale

Il percorso professionale

Mauro, raccontaci qualcosa del tuo percorso professionale.

Mi chiamo Mauro, ho 24 anni e questa è la storia del viaggio maledetto di un cuoco dannato. Sono in cucina praticamente da quando ho memoria. Una storia d’amore adolescenziale portata fino ad oggi tra alti e bassi, ma con un solo scopo: portare la mia terra, il miobackground e il valore delle mie radici ovunque. Anche se, mi tocca ammettere una cosa, tutto questo ha uno sporco velo d’ipocrisia. Sono pugliese ma in Puglia non ci torno, amo il posto dove ho imparato ad imparare ma non ci voglio tornare, potrei sembrare un predicatore della domenica o uno ‘scrutatore non votante’ direbbe Samuele Bersani, ma per quanto possa amarla, la mia terra non è ancora pronta e la colpa è soprattutto mia e di chi come me ha dovuto fare le valigie e andar via per inseguire il proprio bianconiglio. Ho iniziato acapire che il mio giardino era stretto mentre frequentavo ancora le superiori e fantasticavo su una meta da esplorare, ma c’era una maturità da prendere e i soldi in tasca erano pochi. Lavoravo nell’agriturismo di famiglia, ho iniziato prestissimo, troppo piccolo per lavorare in sala e quindi via in cucina. Ricordo il mio primo giorno, ero lì quasi come se fosse un gioco ma lo sfrigolare delle padelle, le reazioni chimiche causate dalle cotture, le temperature, il poter cambiare la consistenza o la forma di una materia portandola a diventare qualcosa di buono, tutto questo è quello che mi ha fatto innamorare del cibo e io da quel giorno non sono mai uscito dalla cucina. Cucinare è un atto di amore dice Massimo Bottura, lo facevano fin dall’inizio dei tempi, lo hanno fatto le nostre mamme per noi. E’ un istinto naturale e ho capito che la mia missione è raccontare storie preparando da mangiare.

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Prima di arrivare a New York, in quali altri Paesi hai lavorato?

Finite le superiori ho fatto le valigie e sono partito per un lavoro stagionale, la prima vera gavetta dove sgobbavo tutto il giorno e 24 ore mi sembravano poche per le troppe cose da fare. Rientrato dalla stagione, ripresi a lavorare nel ristorante di famiglia, fino a quando, un giorno, un cliente mi chiamò in privato. Stava aprendo un ristorante in Sud America e voleva portare la Puglia anche lì. Non me lo feci ripetere due volte. Così è iniziata la mia avventura da sbarbato in Brasile. Mi trasferii a Campinas, distretto di Sao Paulo. Dovevo semplicemente gestire la parte delle insalate e degli antipasti, roba semplice, ed ero stato selezionato insieme ad altri due cuochi di esperienza che dovevano gestire il tutto. Nello stesso momento in cui il ristorante stava per aprire scoppiò una crisi epica per il Brasile. La moneta nazionale si svalutò e i patti tra la proprietà e la brigata di cucina saltarono e tutti rientrarono a casa tranne me. Decisi di rimanere praticamente a parametro zero. Provai a cercare qualcuno del posto che sapesse fare la vera cucina pugliese ma nulla. Capii che era arrivato il mio momento. In quell’istante ero diventato uomo. Iniziai a mettere su un menu, non avevo neanche 19 anni e mi trovavo a dirigere una cucina con 7 brasiliani che parlavano soltanto il portoghese. Ero il ragazzino sopravvalutato solo per il vecchio clichè che la cucina italiana la fanno gli italiani, e non riuscivo a comunicare. Ero solo contro tutti, ma fu in quel momento che l’istinto di sopravvivenza mi venne incontro. Dopo due settimane di nottate sui libri, parlavo perfettamente il portoghese, pensavo addirittura in portoghese. Ripresi a mettere su un menu con piatti semplici. Stavo affrontando qualcosa di molto più grande di me, ma ai primi tasting capii che era un grande fiasco. Come materie prime eravamo lontani anni luce dall’Italia, e una cucina pugliese che si basa principalmente su 3 elementi era quasi impossibile da replicare. L’inaugurazione era vicina e io non avevo ancora stilato una lista di piatti accettabili. Ricordo le notti in cui dormivo nel retro del ristorante per poter passare più tempo possibile in quella cucina. Sapevo di aver bruciato le tappe e che non potevo sbagliare nulla, mancavano tre giorni all’apertura. Ero pronto. Eravamo pronti e fu un successo. Posso dire che è stata l’esperienza che mi ha segnato di più. In Brasile sono diventato uomo, la mia prima responsabilità, le mie prime paure e la prima volta in cui sono stato rapinato. La mia curiosità a volte mi ha portato a spingermi un po’ troppo avanti e questo, in alcune zone, specialmente se sono favelas, non viene perdonato. Volevo semplicemente mangiare la miglior fajioada di Sao Paulo da una signora anziana nella favela do moinho, ma ebbi non pochi problemi in strada. Tutto questo però, non mi ha spaventato abbastanza, era semplicemente la realtà scaraventata in faccia ad un ragazzino di una tranquilla provincia del Sud Italia. Passarono i mesi e capii che il mio tempo in Brasile era finito, oltretutto scoprii di aver firmato carte false, ero illegale, clandestino, il mio visto era terminato già da un bel po’, Mamma Italia mi stava richiamando ed era arrivato il momento di ritornare, scoprendo però un altro lato del Bel Paese. Decisi quindi di trasferirmi a Milano e successivamente trascorsi una stagione in Mamaia, Romania. Quella è stata la prima volta in cui mi sono “venduto”, facendo una cucina di basso livello ma percependo una paga davvero importante. Decisi di ritornare sulla retta via. Avevo bisogno di chiarire le idee, avevo fame di Puglia, per questo decisi di mettere da parte la valigia e ritornare nella mia Bari, dove cominciai a lavorare presso un ristorante nel pieno centro della città, posto in cui ho lasciato il cuore. Posso dire che tutto quello che faccio oggi lo devo al ristorante Biancofiore. Lì, il Mauro che era diventato uomo in Brasile, è diventato un cuoco. Il tempo passava e la città iniziava a soffocarmi, tutto mi era stretto, la mia situazione sentimentale non mi aiutava e quindi capii di dover cambiare aria. Sarà colpa del mio ego o dalla mia voglia di emergere, ma non volevo passare un altro giorno nel posto che amavo, nel posto dove ho imparato a camminare, così cominciai a pensare ad una prossima meta. Sono cresciuto col sogno Americano e ho sempre voluto fare il cuoco, era arrivato il momento di far coincidere le cose, quindi iniziai a cercare lavoro negli USA. Il mio desiderio era New York, ma non trovai nessuno disposto ad assumere un ragazzo senza documenti di lavoro. Decisi comunque di partire vivendo per 6 mesi sul posto alla ricerca dei sapori, delle nuove culture. L’impatto con New York è notevole, ti cambia la vita. E’ una città dura che ti dà tanto ma ti toglie tutto. Questa fase della mia vita la chiamo evoluzione. Dopo il periodo a New York, decisi di cercare lavoro in Europa, inviai il mio cv a ristoranti stellati delle principali città. Incrociai tutti i colloqui in una settimana e pianificai i voli: 5 città in 7 giorni, lavorando anche per dei catering per un importante ristorante stellato. Dopo aver svolto colloqui a Milano, Londra, Copenaghen, Lisbona e Barcellona, decisi di trasferirmi a Londra, alla corte dello chef Giorgio Locatelli, dove capisco il reale concetto del fine dining, il rispetto della materia prima e l’importanza del far da mangiare bene senza troppi fronzoli. Ogni giorno passato in Locanda Locatelli è stato duro, ma quando di notte, dopo 16 ore di lavoro, ero in metro per tornare a casa, mi sentivo sempre più forte, sentivo che la mia valigia si stava riempiendo sempre di più. Pur essendo motivatissimo però, mi resi conto che Londra mi stava mangiando come un barracuda. Non mi piaceva e non era assolutamente il mio posto. Poi la chiamata: lo storico ristorante di Trastevere ‘Antica Pesa’ stava aprendo a Shangai e voleva me come sous chef, perché qualcuno aveva fatto il mio nome facendo una ‘soffiata’ sul mio desiderio di voler andare in Cina per assorbire la cultura asiatica. Il ristorante apriva a maggio 2019 quindi avevo parecchi mesi liberi, per questo decisi di andarmene a Sydney fino al nuovo anno e poi trasferirmi in Cina. Feci il biglietto aereo e tutti i visti di lavoro necessari, mancavano 5 giorni alla partenza (incredibile come la mia vita cambi 5 giorni prima ogni volta che sto per partire) e poi ricevetti la chiamata di Antica Pesa. Ero il nuovo Sous chef, ma del loro ristorante a New York! Ce l’avevo fatta, ero in America e lavoravo legalmente.

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Mauro Campanale: dalla Puglia a New York

Così a 24 anni sei diventato Executive Sous chef dell’Antica Pesa, un ristorante premiato con 2 forchette su 3 dal Gambero Rosso. Sicuramente una grande soddisfazione.

Assolutamente sì. Con l’Head chef è nato subito un feeling che ha portato l’unione delle nostre esperienze. Ore passate in cucina tra scazzi, ricerche e sperimentazione, un concentrato di passione che ha portato risultati, dalla collaborazione con la star Russel Crowe (non dimenticherò mai la cena a casa sua con Sienna Miller, Seth Mcfarlane e altri supervip) ai vari feedback positivi dalla press. E’ un momento speciale per noi. Il Gambero Rosso ci ha premiati con 2 forchette su 3, ma noi abbiamo ancora fame e aspettiamo con ansia la guida rossa a novembre (la cara, vecchia e discussa Michelin). Non so se il mio futuro sia qui, ma so che adesso non posso tornare a casa, non è il momento e non ci sono possibilità per replicare quello che ho fatto qui, ma sono consapevole che vengo da un posto meraviglioso e la mia missione è quella di trasmettere questo a tutto il mondo col mio cibo.

La gavetta in cucina

Sicuramente dietro ci sarà stata tanta, tanta gavetta…raccontaci qualcosa:

La ristorazione è una grande macchina fatta d’ingranaggi che devono essere perfetti, per questo è obbligatorio sapere come funziona ogni singolo ruolo nella propria cucina. La differenza tra un cuoco adulto che ha fatto la sua gavetta dal basso e un cuoco coetaneo che ha fatto la scuola di cucina ed è partito subito con un ruolo manageriale, è abissale. Purtroppo in America questo è molto comune. Gente che paga 25mila dollari corsi di pseudo cucina che si presenta da noi con coltelli che costano quanto il mio affitto di casa e ti tagliano unpomodoro peggio di un alunno del primo anno della nostra scuola alberghiera. Non vedo la stessa sacralità delle gerarchie che viene concepita in Europa, complici le leggi americane, qui non puoi sgridare qualcuno o essere un poco più duro, altrimenti si offende la professionalità del cuoco anche se ha iniziato ieri a cucinare e viene in cucina con una cresta alzata e magari anche griffata. Questo ha influenzato molto il modo di lavorare qui a New York. Ricordo i cazziatoni e le volte che sono stato sbattuto fuori dalla cucina, le celle pulite e le patate pelate. Tutto questo mi è servito. Ogni volta che sto per commettere un errore mi viene in mente il cazziatone preso in quell’occasione e le umiliazioni subite, non è bello ma sicuramente funziona in un sistema autoritario e poco democratico come quello della cucina. Apprezzo chi come me è partito lavando piatti da ragazzino e si è costruito la sua corazza step by step, io li chiamo guerrieri e nella mia cucina sono sempre benvenuti. Come scrisse Anthony Bourdain “La cucina è l’ultimo baluardo della meritocrazia in un mondo di assoluti”, forse dovrei tatuarmelo.

Le esperienze all’estero

Quanto è importante, nella tua professione, vivere un’esperienza all’estero?

Nella carriera di uno chef, un cuoco o un cuciniere è ESSENZIALE e imprescindibile fare almeno un’esperienza fuori dai confini italici. Soprattutto se si fa cucina italiana, avere a che fare con culture diverse già a partire dalla propria brigata, ti inizia a far intendere come si sta al mondo. Osservare l’Italia da fuori è indispensabile per capirla da ogni punto di vista, per poi poterla raccontare. Ma posso dire con sicurezza che non c’è Paese più divertente al mondo per cucinare. La qualità delle nostre materie prime l’ho trovata difficilmente in giro per il mondo. In Italia ti puoi permettere di cucinare usando magari solo 2 o 3 elementi, a Londra da Locatelli importavamo ogni singola verdura dall’Italia. L’America è lontana e non è la stessa cosa, quindi ci vuole più ricerca nella costruzione di un piatto per coprire quel deficit dato dalla zucchina messicana o dalla melanzana della Florida.

Quanto è apprezzata la cucina italiana all’estero?

La cucina italiana all’estero ha un’identità propria e differente in ogni nazione. Ad Antica Pesa facciamo una cucina autentica come in pochi altri posti qui a New York. Ai miei ospiti americani chiedo sempre se hanno portato il passaporto con loro, perchè al civico 115 di Berry Street a Brooklyn sono in Italia. Tuttavia c’è un filone che rispetto tantissimo perchè, per quanto criticata, è una cultura che ha più di un secolo. Sto parlando della cucina italo americana, che qui purtroppo viene confusa con quella prettamente italiana perchè si è cresciuti con Fettuccine Alfredo o Spaghetti meatball. Non è sicuramente la mia cucina preferita, ma amo andare contro tendenza rispetto ai miei connazionali che la evitano e criticano a priori e posso anche bestemmiare dicendo che personalmente amo la Chicken Parmigiana. E’ curioso come la nostra cucina si sia intrecciata con quella americana e siano nati piatti di cui in Italia non sappiamoneanche l’esistenza. Diversa osservazione in Brasile, dove a causa della forte immigrazione nelle prime decadi del ‘900, in città come Sao Paulo se si va a mangiare italiano, si fa un tuffo nel passato e ci si ritrova in un ristorante italiano degli anni ’20 con piatti italiani ormai in disuso da 100 anni che sono ancora in voga nel paese verdeoro.

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Chi è stato la tua fonte di ispirazione nel tuo percorso culinario?

Ricordo che alle scuole medie, venivano idolatrati Ronaldo, Del Piero, John Cena o altra gente dello spettacolo. Io ero follemente innamorato dello chef Ferran Adrià, il primo vero mago in cucina che ha creato un concetto tutto suo: affascinante e divertente. Negli anni seguenti mi ha molto ispirato Massimo Bottura, mi piace il suo essere uno chef 2.0, l’idea del cuoco acculturato, intelligente, sensibile alle tematiche sociali. Avere punti di riferimento è importante nella crescita professionale, sono stato a cena in molti posti stellati, credo che sia il miglior modo per avere ispirazione e confrontarsi con concetti e altre scuole di pensiero. Oggi continuo ad ispirarmi a grandi artisti della cucina come Grant Achatz, Thomas Keller, lo stesso Bottura o il mio grande maestro Giorgio Locatelli, ma vorrei costruire adesso un mio Brand ed essere anche io fra questi nomi. Magari fra 10 anni un ragazzino a Milano, Los Angeles, Lima o in qualsiasi parte del mondo potrebbe dire “vorrei fare la cucina di Mauro Campanale”. E’ un progetto difficile e lungo, ma di sicuro non cucino solo per pagarmi l’affitto, ma per scrivere il mio nome col fuoco.

Non solo fornelli

Quali sono le tue passioni oltre ai fornelli?

Quando non penso a cucinare, a cosa cucinare, a cosa comprare per la cucina, al planning degli eventi del ristorante, al food cost, al labor cost e ad altre cose noiose, mi piace il buon vino e mi piace molto il cinema cult. Ci sono film che guarderei ogni sera, il mio preferito è sicuramente Taxi Driver, amo la sua storia dal punto di vista antropologico, mi piace come il film racconti come vive una persona che è stata emarginata in una guerra lontana dalla civiltà. Trevis è cresciuto senza saper stare con le persone e il suo rientro alla normalità è traumatico. Mi piace leggere (George Orwell su tutti) e mi piace il teatro, quindi sono nella città giusta, direi.

Dove vedi il tuo futuro?

Nel mio futuro prossimo mi vedo nel mio ristorante, probabilmente a New York City. Non c’è posto migliore per esprimere il mio concetto. Aprire per qualche anno, raggiungere determinati obiettivi e poi sparire in qualche Paese tropicale, magari alla fine del film tornare proprio in Brasile. Vorrei appendere la giacca al chiodo massimo a 50 anni, quindi devo muovermi, voglio fare troppe cose e mi mancano “solo” 26 anni.

maurocampanale95@icloud.com