Stefano Buonamici: stufo di sentirmi uno straniero nel mondo, ritorno alle radici

Di Paola Grieco per Voglio Vivere Così Magazine

Stefano Ugo Domenico Buonamici, è un fotogiornalista professionista, ha 60 anni e, alle spalle una lunga carriera di successo all’estero. Il suo lavoro e la sua vita si sono snodati tra: le radici in Toscana/Liguria, il primo salto all’estero, a Monaco di Baviera, un passaggio a New York e un lungo periodo di vita a Barcellona.

Ora, Stefano sta preparando il suo rientro in Italia, dove pensa di restare definitivamente. Al momento, vive e lavora tra Barcellona e Firenze. Nel capoluogo fiorentino, quando non è in giro per i suoi reportage, tiene corsi di fotografia “classica” all’Accademia di Belle Arti.

Ciao Stefano, raccontaci di te: vita, lavoro …

Le mie radici si diramano tra la Toscana (a Firenze, dove la mia famiglia milanese si trasferì quando avevo 12 anni) e un paesino della Liguria che ho molto amato durante l’infanzia, grazie a nonno Domenico. Egli mise a disposizione di tutta la famiglia, una casa a Verzi (una frazione di Loano) dove, ancora oggi, trascorro dei lunghi periodi lontano dai ritmi quotidiani. Un nonno veramente speciale il mio, che aveva voluto creare un posto per sé e per la famiglia. Verzi è legato ai miei ricordi di bambino e collegato a un mondo rurale, non turistico, che ora non esiste più ma i ricordi e i bellissimi paesaggi sì.

Quando e perché hai deciso di diventare un fotografo professionista e hai lasciato l’Italia.

La mia vita all’estero parte dalla Germania. All’inizio degli anni Novanta, a 30 anni. Avevo alle spalle una formazione artistica e un’importante esperienza come dirigente della CAT, una Cooperativa Sociale che opera in Toscana, e come insegnante di tecniche audiovisive al Centro Diurno per ex tossicodipendenti. Un po’ seguendo la mia fidanzata di allora e un po’ sentivo di aver una vocazione più artistica che amministrativa, decisi di andare a vivere a Monaco di Baviera.

Qui ho avuto la fortuna di diventare assistente di un fotografo tedesco molto bravo Peter Grumann che mi ha insegnato i trucchi del mestiere, soprattutto la parte più commerciale e la fotografia di studio, cosiddetta still life.

Dopo qualche anno, ero ormai diventato un professionista e, stanco del “mondo tedesco”, a seguito anche della fine del mio rapporto sentimentale, decisi di partire per New York (nel 1998). Qui iniziai a lavorare con la mia compagna di allora, Cristina, una giornalista catalana. Lei era corrispondente per un giornale e una radio catalani e io, oltre a collaborare con i gruppi italiani Rizzoli ed Espresso, illustravo i suoi articoli.

Stefano Ugo Domenico Buonamici

Tu e la tua compagna di allora eravate a New York all’epoca della caduta delle Torri Gemelle (2001): è per questo che avete deciso di rientrare in Europa?

Con la caduta delle Torri Gemelle, il turismo e gli eventi culturali, i miei settori chiave, ebbero una grossa battuta d’arresto. Cristina era incinta e, oppressi dalle conseguenze di questo evento epocale e dalle guerre che si sarebbero scatenate da lì a poco (in Irak, in Iran, ecc.), si decise di andare a vivere in un continente “più prudente”, in Europa. Cristina è di Barcellona e decidemmo di fare tappa in un delizioso paesino della costa del Maresme, Sant Pol del Mar (a 50 minuti da Barcellona), per attendere che nascesse nostro figlio Domenico (nel 2002) e che la situazione si calmasse. La nostra idea era, di lì a poco, continuare l’esperienza americana ma di andare poi a vivere a Città del Messico, che avevamo conosciuto e apprezzato quando collaboravamo entrambi con l’IFAD (Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo delle Nazioni Unite, con sede a Roma).

Però non siete più ripartiti. Perché avete deciso di restare in Catalogna?

Il bimbo era piccolo e trovammo subito un posto in un asilo nido, il paesino era idilliaco e a perfetta misura di una famiglia come la nostra. Dopo qualche anno, traslocammo a Barcellona e di spostarsi non se ne parlò più. Nel frattempo, divenni fotografo collaboratore del New York Times. Le mie fotografie venivano regolarmente pubblicate da tante riviste e media internazionali e continuava la mia collaborazione con i principali editori italiani Rizzoli-Corriere della Sera a Milano ed Espresso-La Repubblica a Roma. A quel punto, la mia carriera decollò, sia in termini economici che della qualità degli incarichi.

Qualche anno dopo, il tuo settore visse una crisi importante, anzi due: il crack finanziario e immobiliare del 2008 e l’avvento a gamba tesa della tecnologia nel mondo dei media. Come sei riuscito a giostrarti in questi due frangenti?

Nel 2008 scoppiò un’altra delle crisi devastanti della nostra epoca: il crack finanziario e l’esplosione della bolla immobiliare. Tra le conseguenze di questa, vissi sulla mia pelle la chiusura di molte case editrici e il ridimensionamento della carta stampata: effetti non solo della crisi ma anche delle nuove tecnologie (esplosione delle reti sociali, Photoshop e, da ultimo, l’intelligenza artificiale).

Per me, di fatto, una doppia crisi che, dal 2010, ha sprofondato il mio settore in un impasse di difficile uscita: paradossalmente, lo sviluppo delle reti sociali ha creato un enorme richiesta di immagini e fotografie ma sempre meno lavoro per i fotografi.

Qui apro una parentesi. È di questi giorni un fatto che ha suscitato polemica e dibattito: al Sony World Photography Awards 2023 è stata premiata una foto di Boris Eldagsen, fotograto berlinese. Eldagsen rifiutò, in seguito, il premio, ammettendo di avere fatto la foto con un programma d’intelligenza artificiale (IA) per aprire il dibattito.

Prima ancora dell’avvento dell’IA, avevo già vissuto il disagio dei cambiamenti tecnologici e lo vivo tutt’ora. Tra i miei vari impegni, insegno – in collaborazione con la cattedra di Fotografia dell’Accademia di Belle Arti di Firenze – alcune tecniche fotografiche antiche risalenti all’epoca della fotografia analogica… o come mi piace dire: “la fotografia come era una volta!”. Uno dei mie corsi l’ho intitolato: “back to the future”.

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Sono contento perché mi sono persino ricreato una camera oscura, come quella che avevo a vent’anni, dove stampo le mie foto in B/N. Io mi ero formato alla cosiddetta fotografica “solida”, quella che si faceva con le mani, artigianalmente, appunto. Con il digitale siamo passati alla fotografia “liquida” ma io aggiungerei un’altra tappa: quella addirittura “gassosa”.

Penso che, prima o poi, dovremmo tornare indietro e ridimensionarci, per poi andare avanti di nuovo, avvalendoci sì degli avanzamenti tecnologi ma senza snaturare il valore etico di una fotografia.

Tra le altre cose, a Barcellona, sono stato per anni il responsabile culturale del sindacato dei fotografi catalani, l’UPIFC. Sono l’autore del decalogo delle norme che definisco una “fotografia etica”. Alla luce dei fatti “sul mercato” di oggi, di questo decalogo è rimasto molto poco.

Per tornare al Sony Awards: noi fotogiornalisti abbiamo sempre manipolato le immagini in camera oscura (i colori, i contrasti, ecc.) ma, secondo me, una fotografia realizzata con IA non ha più il diritto di chiamarsi fotografia, al limite è un’illustrazione.

Stefano Ugo Domenico Buonamici

Oggi come oggi, stai pensando a un ritorno definitivo in Italia, a Firenze.

A un certo punto, a seguito anche della rottura con la madre di mio figlio, ho sentito il bisogno di intensificare i miei legami con l’Italia: sia sentimentali che professionali.

Per un certo periodo dovetti riavvicinarmi all’Italia per questioni personali e, grazie all’esplosione dei voli low cost, potevo andare da Barcellona/Girona a Firenze e ritorno in giornata, per soli 20 euro.

Con questo riavvicinamento mi sono accorto che ero stufo di sentirmi uno “straniero” nel mondo e che vivevo più volentieri in Italia che a Barcellona. Ho quindi cominciato a spostare il focus della mia attenzione sull’Italia e a pensare che, più avanti nella vita, mi sarebbe piaciuto tornare a vivere lì e, soprattutto, a Firenze.

A parte quelli succitati, c’è qualche altro motivo che ti ha fatto riconsiderare Firenze come tua residenza definitiva?

Per adesso sono ancora in una fase intermedia e continuo a collaborare con dei clienti nelle due città. Giuditta, la mia attuale compagna è fiorentina ed è parte di questa decisione.

Ci conosciamo sin da ragazzi, frequentavamo la stessa scuola dove, io, già alle superiori, andavo a fare le fotografie di classe alle scuole medie. In questa occasione vidi Giuditta per la prima volta. Poi ci perdemmo di vista e, attraverso Facebook, ci siamo ritrovati un paio di anni fa. Ora stiamo insieme. Lei vive nel centro di Firenze, Oltrarno, e quando vado a trovarla sento che questa città diventa sempre di più anche la mia.

Diciamo che in tutta la mia traiettoria all’estero io non ho mai escluso l’Italia dalla mia vita. Ovunque mi trovassi ho sempre cercato d’intrecciare rapporti sia di amicizia che professionali, che istituzionali con il Belpaese.

Se dovessi fare un bilancio della tua traiettoria all’estero, come sarebbe?

Sarebbe senz’altro positivo. Sono una persona che vive il sentimento della nostalgia con affetto e simpatia e ho sempre pensato che la mia vita sarebbe stata diversa se fossi rimasto in Italia; mi sarei perso molte delle esperienze che ho potuto vivere grazie a questa spinta interna, centrifuga che mi portava fuori dall’Italia. E questo lo vedo anche in rapporto ai coetanei che ho ritrovato e che sono sempre rimasti lì. Io ho vissuto pienamente e ne sono felice.

Stefano Ugo Domenico Buonamici

Quali sono stati i pro e i contro della tua vita e della tua carriera all’estero?

La Germania è sicuramente stata molto importante per la mia professione. Monaco di Baviera e il fotografo di cui sono stato assistente hanno dato il La alla mia carriera. Mi stancai molto, però, del clima atmosferico e della distanza che c’è tra le persone. Ho trovato, inoltre, una società abbastanza competitiva. Qui la parola chiave nel lavoro e nella vita è Leistung (n.d.t. performance, prestazione).

Anche New York è stata importante per il lavoro ma in quanto a vivere lì non molto, non amo la vita frenetica delle grandi città. Lo stesso vale per Barcellona, più piccola ma altrettanto molto attiva.

Negli anni, ho capito di amare la vita di provincia e nel capoluogo fiorentino mi sembra di ritrovare la dimensione giusta.

Quale consiglio daresti ai nostri lettori che volessero trasferirsi all’estero come hai fatto tu?

Se qualcuno volesse prendere spunto dalla mia esperienza, direi, di studiare un minimo la lingua del paese prescelto prima di spostarsi. Dovetti imparare il tedesco sul posto e all’inizio non è stato facile anche se poi me la sono cavata abbastanza bene.

Detto ciò, io sono sempre partito molto all’avventura, però mi piaceva cercare dei punti affettivi: il mio motore si può riassumere con il titolo di un libro di Susanna Tamaro, molto in voga anni fa: Va’ dove ti porta il cuore… anche per questo sto tornando a Firenze.

Stefano Buonamici contatti

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