Maricla Pannocchia: nomade digitale impegnata in cause sociali

«Non mi sono mai sentita accettata né compresa. Ecco perché ho deciso di lasciare tutto per viaggiare in giro per il mondo, impegnandomi in cause sociali. Prima tappa: la Cambogia».

A cura di Enza Petruzziello

«Ho sempre amato viaggiare, e sin da piccola sognavo di Paesi lontani». A parlare è Maricla Pannocchia, scrittrice 37enne nata e cresciuta in un piccolo comune in provincia di Livorno, dove non si è mai sentita né compresa né accettata.

Dopo una vita trascorsa a sopportare, accontentarsi e “fronteggiare una famiglia disfunzionale e tossica”, con la quale ha interrotto i rapporti, nel novembre del 2021 Maricla decide che è arrivato il momento di mollare tutto e realizzare il suo sogno di sempre: viaggiare in giro per il mondo.

Ciò che distingue Maricla dagli altri nomadi digitali è il suo impegno per le cause sociali. «Questa motivazione non è nata con i viaggi ma l’ho sempre avuta dentro di me – spiega Maricla -. Sin da ragazzina sono sempre stata molto empatica, intollerante alle ingiustizie e alle violazioni dei diritti umani così come alla tendenza della maggior parte della gente a voltare la testa dall’altra parte».

Maricla Pannocchia: nomade digitale

Maricla cosa ti ha spinto a lasciare la tua casa, i tuoi amici, mollare la tua vita per viaggiare per il mondo?

«È stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Dove vivevo non mi trovavo bene sia per via della mia pseudo-famiglia, sia per la mentalità del paesino e della gente in generale. Non avevo veri amici. Non avevo niente che mi tenesse legata a quel posto e quindi ho raccolto il coraggio e, forte di qualche cliente che già avevo come ghostwriter e copywriter, sono partita».

Nella tua presentazione parli di una famiglia disfunzionale e tossica, con cui hai interrotto i rapporti. Di un piccolo paese dove non ti sei mai sentita accettata e compresa. Parole forti le tue. Esattamente in cosa non ti sentivi accettata e perché definisci la tua famiglia “tossica e disfunzionale”?

«In tutto. Credo che molte persone nate e cresciute in piccole città o in paesini possano identificarsi con me per quanto riguarda il sentirsi come dei pesci fuor d’acqua. Sin da piccola ho sempre cercato l’onestà e l’autenticità. Ricordo che, alle scuole elementari, chiedevo ai miei genitori perché dovessi andare al compleanno di quel compagno con il quale non avevo niente in comune e loro rispondevano: “Ci vai perché lui ti ha invitata, altrimenti che figura ci facciamo?”. Oppure perché dovessi fare la Comunione a 10 anni, senza neanche capirne il senso, e loro: “Perché la fanno tutti, e quindi la devi fare anche tu”. A scuola non ho mai avuto grandi rapporti con i compagni e le maestre me ne chiedevano il motivo. Io rispondevo: “Non ho niente da dirgli”, ed ecco che fioccavano le note sulle pagelle. La società occidentale è ricca d’ipocrisia e di atteggiamenti volti a mantenere lo status quo. Per quanto riguarda la mia famiglia, che io non considero neanche tale, non mi ha mai incoraggiata né supportata. Hanno fatto di tutto per trasformarmi in un’eterna bambina, non hanno mai creduto in me o supportato i miei sogni, non mi hanno mai aiutata a capire chi fossi, non mi hanno mai permesso di essere me stessa. Qualunque cosa volessi fare, loro cercavano di smontarmi, dicendomi che ero scema, che le persone che sarebbero entrate in contatto con me sarebbero state delle poverette, che gli altri sarebbero scappati da me e via dicendo».

Questo ti ha fatto soffrire?

«Penso da sempre che la famiglia non sia fatta dal sangue ma che sia quel luogo in cui una persona si sente amata, accettata, incoraggiata, libera di essere sé stessa. I rapporti all’interno della mia famiglia, invece, erano disfunzionali, non hanno mai puntato alla crescita o all’evoluzione ma c’era una tendenza a fare tutto insieme, una mancata autonomia e libertà (in ogni senso). L’anno scorso avevo cominciato a sentirmi male fisicamente come reazione al mio malessere interiore al vivere in quelle condizioni per quello, anche davanti a un genitore che ti dice: “Non me ne importa niente di chi sei, di ciò in cui credi o di quello che fai, basta che non ti droghi”, ho capito che non dovevo più sopportare quella gente. A fine novembre 2021 ho fatto i bagagli e non mi sono più guardata indietro. Per correttezza ci tengo a dire che con mia sorella vado molto d’accordo e ci sentiamo regolarmente».

Maricla Pannocchia: nomade digitale

Da un anno sei in giro per il mondo, in un periodo storico fra i peggiori di sempre in termini di guerre ed emergenze varie. In che modo ti sposti, ti aiuta qualcuno o fai tutto da sola?

«In realtà non sono in viaggio da 1 anno. A novembre 2021 ho lasciato il mio paesino e ho vissuto per 6 mesi a Roma. Durante quel periodo ho fatto delle esperienze di viaggio per motivi umanitari, e a luglio 2022 sono venuta nel sud-est asiatico. Mi muovo in maniera indipendente, non sono legata ad alcuna Onlus o testata giornalistica. Il mio scopo è entrare in contatto con persone del posto e organizzazioni nonché cercare di capire i problemi e i drammi del passato per leggere in una chiave il più corretta possibile il presente. In quest’ottica, ho trascorso una settimana in missione con la Onlus italiana “Support and Sustain Children” in un campo profughi spontaneo al confine turco-siriano e una settimana ad Atene con una Onlus locale che si occupa di rifugiati».

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Che tipo di esperienze sono state queste?

«L’esperienza con Support and Sustain Children (SSCh) è stata molto intensa. Sono da sempre interessata alla tematica della migrazione forzata, ma un conto è vedere dei video o delle foto su Internet e un conto è ritrovarti in un campo profughi. La mia ammirazione per Arianna Martini, fondatrice della Onlus, e per tutto il suo team è senza eguali. SSCh è l’unica realtà operativa in quel campo spontaneo al confine fra la Turchia e la Siria. Lì manca tutto, c’è solo una distesa di tende, le donne della mia età sono già nonne, le ragazzine si sposano giovanissime, quasi tutti lavorano nei terreni e chi ha problemi di salute o disabilità, anche gravi, soffre ancora più degli altri. SSCh ha creato due tende-scuola e supporta le persone del campo in vari modi. In un posto del genere, fra gente che avrebbe ogni diritto di essere arrabbiata e frustrata, ho trovato l’umanità vera. Le persone del campo ci offrivano da mangiare, dei cuscini su cui sedere, ci domandavano se avessimo freddo quando loro, inclusi i bambini, affrontavano l’inverno scalzi e con indosso abiti estivi. Mi chiedo come sia possibile che nel 2022 permettiamo ancora che altre persone, esseri umani come noi, vivano in quelle condizioni. Bambini e ragazzi spesso senza futuro, a volte completamente persi. Perché costringerli a stare in un campo profughi? La loro unica colpa è aver lasciato la Siria per sfuggire alla guerra, e tutti mi hanno detto che il loro desiderio più grande è tornare a casa».

Maricla Pannocchia

Ad Atene, invece, come è andata?

«Nella capitale greca ho conosciuto diverse persone supportate dalla Onlus locale “Love and Serve without Boundaries” gestita da Maria, una donna africana. Qui ho avuto modo d’interagire con ragazzine provenienti dall’Afghanistan e dall’Iraq (il loro messaggio, “Non siamo tutti terroristi, vogliamo la pace!”) e con individui arrivati in Grecia come migranti economici. Questo ha sollevato la famosa domanda: chi ha diritto di cercare una vita migliore altrove? So che l’Europa non può accogliere tutti, ma a livello umano come si fa a dire che una persona che nella sua terra non si sente al sicuro o non ha grandi possibilità, debba rimanervi? Ho conosciuto donne scappate a matrimoni forzati, allo stupro, condannate a una vita di mera sopravvivenza senza poter lavorare… hanno avuto un’occasione, o se la sono cercata, e hanno lasciato il loro Paese africano alla volta dell’Europa. Possiamo davvero biasimarle? Possiamo davvero dire che, al loro posto, non avremmo fatto lo stesso, anche se il Paese non era in una grave emergenza come una guerra? Personalmente, ho vissuto un anno a Londra e ora sto viaggiando proprio perché l’Italia mi va stretta e penso che lì non potrei esprimere il mio pieno potenziale. Non leggete delle somiglianze fra queste motivazioni?».

Da luglio sei nel Sud-Est Asiatico, esattamente in Cambogia. Come ci sei arrivata e che cosa ti ha portato fino a qui?

«Sono arrivata in Cambogia in un modo forse un po’ bizzarro. A 15 anni, mentre mi sentivo, appunto, un pesce fuor d’acqua nel paesino e nella mia famiglia, mi sono imbattuta nell’attrice Angelina Jolie e ho cominciato a seguirla. Lei mi ha dimostrato come anche una persona senza laurea, che di lavoro fa tutt’altro e non ha chissà quale competenza possa viaggiare per i campi profughi e in altri posti “problematici” del mondo, munita di penna e taccuino, per fare da ponte fra due realtà apparentemente diverse, che però sono collegate fra loro. È stato grazie a lei che sono venuta a sapere della Cambogia. Seguendo Angelina per tanti anni, sono praticamente cresciuta sentendola tessere le lodi di questo Paese, ma anche parlare delle problematiche che lo affliggono. A un certo punto mi sono chiesta, “Ma davvero la Cambogia è così?”, e ho deciso di scoprirlo da sola».

Maricla Pannocchia: nomade digitale

Che cosa hai scoperto una volta arrivata?

«Questa sorta di “preparazione” ha fatto sì che sapessi un po’ che cosa aspettarmi. Sapevo che, semplicemente andando in giro, avrei visto persone vittime delle mine antiuomo, bambini costretti a chiedere l’elemosina, persone che vivono con poco o niente ma ricche di dignità e avevo sentito parlare anche del genocidio. Questo è stato perpetrato dai Khmer Rossi, guidati da Pol Pot, nel periodo compreso fra il 1975 e il 1979. Ho visitato il Museo del Genocidio (Tuol Sleng), dove ho incontrato gli ultimi due sopravvissuti agli orrori accaduti lì e i Killing Fields (campi di uccisione) di Phnom Penh, Battambang e Siem Reap. Questi luoghi sono difficili da descrivere, perché la bellezza della natura si mescola all’orrore del passato. Lì vedi non solo illustrazioni o incisioni che raccontano gli orrori perpetrati dai Khmer Rossi (cannibalismo, donne violentate prima di essere uccise, bambini ammazzati davanti ai genitori, bebè uccisi a suon di botte delle testoline contro un albero…), o le fosse comuni, ma anche le stupe contenenti pezzi di ossa e teschi. Quando, in qualsiasi posto in Cambogia, vai a comprare una bottiglia d’acqua alla bancarella e a servirti è una signora anziana, sai che quella donna ha visto degli orrori che non puoi neanche immaginare, e che in qualche modo è sopravvissuta al genocidio»

È stato difficile l’impatto con la Cambogia?

«Luglio, la mia prima volta nel Paese, è stato difficile perché il peso del passato è ancora ovunque (ovviamente, se sei disponibile a percepirlo) ma sono riuscita a metterlo in secondo piano concentrandomi di più sull’apprezzare il presente. Penso che sia importante, però, soffermarci a pensare al motivo per cui nelle scuole italiane non si parla del genocidio avvenuto in Cambogia e per cui la maggior parte degli italiani non sa granché di cos’è accaduto nel Paese in quel periodo, oppure dopo. Credo che ogni Paese dovrebbe studiare anche la Storia delle altre nazioni perché, checché ne dicano certe persone, siamo tutti collegati.

Dove vivi in Cambogia e com’è la vita qui? Penso alla qualità della vita, ai costi, ai servizi, alle infrastrutture e al clima politico in generale.

«Al momento sono a Siem Reap, dove mi fermerò per almeno una ventina di giorni concentrandomi principalmente sul lavoro. I prezzi sono, in linea di massima, più bassi rispetto a quelli italiani. È possibile soggiornare in bei posti a costi che, in Europa, ti permetterebbero di stare in ostello o in un appartamento condiviso. Chi ha un budget ridotto può alloggiare in ostello anche qui, pagando pochi euro a notte. È anche possibile mangiar fuori per una sciocchezza. Io mi sento al sicuro anche se penso che la Cambogia sia un Paese molto complesso, più di quanto non credessi prima di arrivare. Ho parlato con diverse persone del posto che hanno espresso una paura generale per il futuro, per come il passato potrebbe tornare a essere una realtà, e una sorta di forzatura nel sorridere. Se, da una parte, questo loro spirito così accogliente e gentile è intrinseco nell’essere Khmer, è anche vero che – come loro stessi mi hanno detto – la maggior parte delle persone vive di agricoltura in villaggi rurali. Anche se queste persone non sono più povere come un tempo, vivono in abitazioni molto umili, svolgendo lavori agricoli, di costruzione o fabbricando ceste e affini. “Queste persone vorrebbero avere di più”, mi ha detto il mio accompagnatore cambogiano, mentre visitavamo un villaggio rurale, “ma non possono. Non sono felici, ma vanno avanti con quello che hanno”».

Maricla Pannocchia

Come sei stato accolta dalla popolazione cambogiana?

«Benissimo. Finora ho avuto solamente delle belle esperienze. Le persone sono genuinamente gentili e interessate a te. Ho fatto amicizia con diversi cambogiani e ci sentiamo tramite i social. Ad agosto, invece, sono stata in Thailandia e lì la maggior parte della gente non è genuinamente interessata a te ma ti vede come un “portafoglio con le gambe”. Non ho mai percepito la gentilezza dei thailandesi come autentica. Qui in Cambogia è diverso, la maggior parte delle persone ha una vita semplice, con pochissimi beni materiali, e dà ancora molta importanza all’umanità e all’altro».

Inevitabilmente penso agli aspetti pratici del tuo viaggiare per il mondo e quindi a quelli economici: come riesci a mantenerti e pagare i tuoi spostamenti?

«Mi mantengo con la mia passione di sempre, la scrittura. Nonostante la pubblicazione di numerosi libri, tutti a tematiche sociali, fra cui il recente “Boccioli nel fango”, frutto proprio dell’esperienza nel campo profughi spontaneo e vincitore di un premio letterario, mi mantengo lavorando come ghostwriter e copywriter. Mi reputo molto fortunata perché la scrittura è la mia passione da sempre. So di saper scrivere bene, ho ricevuto tante recensioni molto positive per i miei romanzi ma, purtroppo, se non conosci la gente giusta, non vuoi giocare secondo le regole o non hai soldi per la promozione, difficilmente riuscirai a mantenerti esclusivamente con i tuoi romanzi».

Il tuo non è uno stile di viaggio tipico da backpacker, zaino in spalla e via. Come lo definiresti?

«Nel sud-est asiatico posso permettermi dei buoni alberghi e alcune comodità. Non penso che per essere viaggiatori bisogna necessariamente fare autostop o dormire in posti improvvisati. Personalmente, anche perché sono una donna che viaggia da sola, preferisco avere certi comfort, incluso Internet, che mi permetteranno di dare il meglio di me perché serena e riposata».

In tutti i tuoi viaggi sei rigorosamente da sola. Che cosa significa viaggiare sola?

«Per me è il massimo. Il mio primo viaggio in solitaria è stato in Galles qualche anno fa. So che molte persone, specialmente donne, hanno paura a viaggiare da sole ma credo che ciò dipenda dalla mentalità che ci viene inculcata in Occidente, specialmente in Italia. Tutti ci fanno credere che, andando in giro da sole, ci succederà chissà cosa ma io penso che, a dispetto di tutto, il mondo non sia così brutto o pericoloso come vogliono farci credere. Certo, è importante stare attenti, specialmente se si ha intenzione di viaggiare in zone reputate “pericolose” (per esempio, io non me la sentirei mai di fare autostop) ma senza fasciarsi la testa prima di essersela rotta. È anche importante conoscere sé stessi. Se si è persone che adorano la compagnia altrui, è probabile che, dopo un po’, uno stile di viaggio in solitaria non sia più soddisfacente. Personalmente, da sempre amo stare con me stessa, non ricerco la compagnia degli altri “giusto per…” e quindi viaggiare da sola mi permette di fare quello che voglio, quando voglio».

Maricla Pannocchia: nomade digitale

C’è stato un luogo che ti ha emozionato più di altri oppure uno in cui hai avuto paura e ti sei trovata in difficoltà?

«Tutta la Cambogia mi ha emozionata molto. Ho visto tramonti meravigliosi e poi qui la natura la fa da padrona. In Italia controllavo spesso il meteo tramite l’app, ma qui non lo faccio mai. Se piove, piove. Se c’è il sole che spacca le pietre, va bene lo stesso. Per fortuna, non ci sono stati luoghi in cui ho avuto paura ma devo dire che Bangkok non mi è piaciuta per niente. Non sono una persona a cui piacciono le metropoli, ma l’aereo atterrava lì e così ho deciso di passarci due giorni. Bangkok è caotica, enorme, inquinata ma, più che altro, ho incontrato persone locali per niente gentili. So che altri viaggiatori l’adorano, ma questa è la mia opinione personale».

Data la tua inclinazione per il mondo del sociale, molte persone ti contattano per chiederti consigli in merito alle esperienze di volontariato. Cosa ne pensi?

«Sono assolutamente contraria al volonturismo e a ogni forma di volontariato che include buonismo e/o prevaricazione. Ho conosciuto tante persone che si sentono Dio sceso in Terra perché fanno volontariato con gli elefanti o insegnano inglese ai bambini quando non hanno né qualifiche né competenze per farlo. Quello del volonturismo è diventato un business e, anche nei casi in cui vitto e alloggio costano poco o niente, il volo è generalmente a carico del volontario. In questi mesi ho contattato e incontrato diverse Onlus che fanno un tipo di volontariato che supporto, quello che include solamente persone effettivamente qualificate e/o con comprovata esperienza in quel settore, che si recano sul posto per supportare lo staff locale, o che hanno mesi a disposizione. Il mio consiglio è di donare soldi alle organizzazioni che hanno questo approccio di modo che possano portarlo avanti, anche se ciò significherà non scattarsi delle foto con i bambini o gli animali da pubblicare su Instagram».

Che consigli invece daresti a quanti sognano di cambiare vita?

«Di essere realisti. Non penso che bisogna sperare nel miracolo. Io ho faticato tanto, ho dovuto cambiare il mio mindset, tagliare i ponti con persone e realtà tossiche e disfunzionali, buttarmi senza grandi certezze e soprattutto lavorare su me stessa, percorso che probabilmente non finirà mai.

Al momento, sei impegnata a viaggiare, lavorare e incontrare varie realtà. Come è cambiata la tua vita da quando sei partita dall’Italia?

«Mi sento bene quando sto con persone genuine, spesso in posti sperduti perché da sempre non penso che ciò che ci propina la società occidentale sia importante. L’individualismo, l’ossessione per il denaro, la paura del “diverso” e i social non fanno per me. Per tanti anni ho scritto libri, post e articoli per far capire alla maggior parte della gente che siamo davvero tutti equi e sulla stessa barca, ma non ho visto grandi risultati. Per questo, non mi fermerò ma ho cambiato rotta: adesso vivo le esperienze per me, per la mia crescita individuale e per fare, spero, la differenza per qualcuna delle persone che incontro.

Se le mie testimonianze saranno d’ispirazione per qualcuno, ne sarò contenta, ma quello non è più il mio obiettivo. La vita è davvero breve, dura un battito di ciglia, dunque perché sprecarla a fare sempre le stesse cose, imprigionati in una realtà che non ci va bene, a credere che i social siano tutto e a sputare veleno gli uni sugli altri su Facebook? In viaggio, specialmente in Cambogia, ho riscoperto la natura, la forza degli elementi, la bellezza di un sorriso e la gioia nel dolce far niente».

Quali sono i progetti per il futuro? Rimarrai in Cambogia oppure ripartirai presto verso nuove destinazioni?

«Non lo so ancora. La mia idea è rimanere qui in Cambogia per un altro paio di mesi, approfittandone per visitare anche posti dove non sono ancora stata. Siccome soffro di “wanderlust”, quella voglia di rimettersi in viaggio dopo un po’ che si è nello stesso posto, so che poi ripartirò. Vorrei andare in Vietnam, sia per capire meglio la guerra (ma anche il rapporto Vietnam – Cambogia) sia per ammirare i bellissimi paesaggi di cui mi hanno parlato diversi viaggiatori che ho incontrato. Vorrei visitare tutto il mondo, budget permettendo, ma più che altro non voglio farlo “a caso” bensì seguendo la mia missione che è quella, come ho raccontato, di mettermi al servizio delle Onlus e degli altri. In quest’ottica, sono anche in contatto con un’altra Onlus italiana che opera in Sud Africa, e nel 2023 dovrei viaggiare lì con loro».

Per contattare Maricla Pannocchia ecco alcuni link utili:

Instagram: https://www.instagram.com/maricla.pannocchia/

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