Il dolore più grande: la perdita di Daniela

Per tutti coloro che amano, hanno amato e ameranno. Alle navi in navigazione e ai porti di scavo, alla mia famiglia e a tutti gli amici ed estranei: questo … è un messaggio e una preghiera.

Il messaggio è che i miei viaggi mi hanno insegnato una grande verità: io ho già avuto quello che tutti quanti cercano ma che soltanto pochi trovano, la sola persona al mondo che ero destinata ad amare per sempre.

Una persona ricca di semplici tesori che si è fatta da sola e che da sola ha imparato.

Un porto in cui mi sento a casa per sempre e che nessun vento, nessun problema potranno mai distruggere.

La preghiera è che tutti al mondo possano conoscere questo genere d’amore ed essere da esso sanati. Se la mia preghiera sarà ascoltata saranno cancellati per sempre tutti i rimpianti e tutte le colpe e avranno fine tutti i rancori…

Quadro Picasso perdita

Ricorre al libro “Le parole che non ti ho detto” di Nicolas Spark ” per riaprire la pagina più dolorosa della sua vita e ricordare il grande amore, Marco, 26 anni, suo figlio morto in un incidente il primo giugno del 2008.  Non le è molto facile parlare di quell’evento che le ha sconvolto l’esistenza, ma accetta di farlo, forse per sostenere altre mamme distrutte dalla stessa sofferenza, incapaci di reagire.  Oppure solo per sfogarsi. Oggi la vita di Daniela, 50 anni, barese, responsabile del  settore Iniziative speciali della Gazzetta del Mezzogiorno, è cambiata.  “Penso che il dolore – afferma- mi abbia resa fragilissima e nello steso tempo fortissima. Proprio perché non ho più paure, né speranze. Per una mamma la paura più grande non è perdere la propria vita, ma la vita del proprio figlio. Io l’ho già persa. La speranza più grande è vedere il proprio figlio felice. Io posso sperare che lo sia comunque, ma non posso vederlo né saperlo”.

Com’era Marco?

“Un ragazzo come tanti- dice- con i suoi pregi e i suoi difetti. Abbiamo litigato come ogni mamma fa con il proprio figlio. Era un ragazzo coraggioso, però, questo sì. Coraggioso e con un gran cuore, sempre pronto a scendere in difesa dei più deboli e senza paura dei più forti. E che ha saputo pagare per questo. E poi intraprendente. Dopo il liceo ha scelto Sociologia e si è iscritto a Roma, alla Sapienza. Ha vinto un Erasmus in Spagna. Ed è andato. Questa è stata la cosa che di lui porto come esempio per me. Fece tutto da solo. Documenti e domande. Un giorno mi disse che l’avevano preso, che era risultato fra i primi in graduatoria. Gli dissi ok, che se lui voleva fare questa esperienza lo avrei aiutato. Andai a Roma e insieme chiudemmo la sua casa romana. Aveva una camera in una casa di studenti. Facemmo i bagagli e io portai via tutto, a Bari, in macchina”.

A quel punto, cosa è successo?

A lui lasciai solo uno zaino con le cose indispensabili, il suo computer portatile, i documenti dell’Università e un po’ di soldi e tornai a Bari. Il mattino dopo aveva l’aereo per Madrid. Non aveva mai preso un aereo da solo. Macchina, treno e moto sempre, ma l’aereo non era mai capitato.

Aveva 22 anni più o meno. Attaccati al telefono per tutto il tragitto sul treno fino a Fiumicino, in diretta telefonica fino all’imbarco, poi ciao, buon viaggio. Pochi soldi in tasca e non conosceva una sola parola di spagnolo. Non sapeva dove avrebbe dormito quella sera. Aveva solo i numeri di riferimento del professore universitario, a cui avrebbe dovuto presentarsi il giorno dopo, all’università cattolica di Salamanca. Ma Marco era così. Nel suo zaino con i documenti dell’università e qualche maglione, c’erano tutti i suoi sogni. Non sapeva come avrebbe fatto a farsi capire in una lingua sconosciuta, ma questo non era un problema per lui. In due giorni aveva trovato una stanza presso una famiglia e in pochissimo tempo parlava bene spagnolo e iniziò a dare gli esami con successo.

Poi?

Lavorava per mantenersi,  perché la borsa di studio non copre tutte le spese.  Io non potevo mandargli molto soldi. E’ sempre stato molto bravo a fare amicizia e tutti gli volevano bene. Ha finito gli studi lì, poi si è trasferito a Barcellona con la sua fidanzata, una ragazza cinese conosciuta lì, in Spagna, all’Università. Lavoravano entrambi a Barcellona. E lì, a Barcellona, la notte del 1 giugno 2008 ha avuto un incidente con la sua moto.

Si vede che era orgogliosa di lui!

Sì.  Questo è Marco. Io per tanto tempo, anche prima della tragedia, quando avevo un problema pensavo a questo: se Marco è stato capace, così giovane, di andare con uno zaino in spalla a studiare in una città sconosciuta e in una nazione, senza conoscere la lingua, se è stato capace di farsi una vita con le sue mani, senza aiuti di alcun genere, io devo essere degna di lui e non devo farmi fermare da alcuna difficoltà. A parte questo, era  un ragazzo sportivo. Ha sempre avuto la passione delle moto dall’età di 13 anni. Ha iniziato con i vespini, poi via via con moto più grandi, fino all’ultima moto: la Yamaha 1000, identica a quella di Valentino Rossi. Ha sempre lavorato per mantenere le moto. Anche nelle estati degli anni del liceo andava a lavorare fuori. Aveva  contratti con le agenzie interinali. Ha fatto il barista, l’operaio, il magazziniere. Di tutto. Per tornare a casa con i soldi per le moto.  Io non avevo molto, essendo separata.

Aveva paura quando andava in moto?

Abbiamo litigato mille volte, perché io avevo terrore. Però lui mi diceva che non potevo separarlo dalla sua passione e che se gli avessi tolto la moto, lo avrei fatto morire. E che non dovevo preoccuparmi. Diceva che se il destino avesse voluto che lui morisse sulla sua moto, non avremmo dovuto opporre resistenza. E’ successo. E io l’ho accettato come lui mi aveva chiesto di fare. Il suo funerale è stato un corteo di motociclisti. Glielo dovevo. Un ragazzo che muore a 26 anni non può avere un funerale tradizionale. Sono venuti i suoi amici motociclisti da tutt’Italia e insieme siamo andati in aeroporto ad aspettare la sua bara che scendeva dall’aereo. L’abbiamo scortato in moto fino in chiesa. Un lungo corteo di moto che ruggivano di rabbia e di dolore, ma anche di amore. Io ero sulla prima moto che seguiva il carro funebre dietro uno dei suoi più cari amici. Avevo paura, ma glielo dovevo. Continuo ad amare e rispettare le moto. Su You Tube c’è un video. Si legge: “E’ vero, in moto si muore, ma non c’è maniera migliore per vivere”. Marco ci credeva. Io lo rispetto.

Cosa si diceva nei giorni successivi alla tragedia?

Non si può morire a 26 anni. Giovani, felici, innamorati. Amava la sua ragazza. Avevano comprato le fedi, volevano sposarsi. Lei non era con lui per fortuna al momento dell’incidente. Straziata dal dolore anche lei. Ora è tornata a vivere a Pechino dalla sua famiglia. Ci sentiamo ancora. Lei non lo ha dimenticato, ma io vorrei tanto che si rifacesse una vita.  Poverina anche lei, che brutto dolore, così giovane…

Cosa ha saputo dell’incidente?

Non so nulla. Quando si muore in un Paese straniero, è un guaio. Marco ha avuto un incidente a un semaforo, che funzionava. Non c’erano testimoni. Nessuno mi dirà mai chi è passato con il rosso. Non credo che la colpa sia di Marco, perché non era un cretino alla guida , ma non posso dimostrarlo e lui non può più dirlo. C’è una causa ancora in corso come sempre quando qualcuno muore, la aprono d’ufficio, ma so già come finirà. La persona con cui ha avuto l’incidente guidava un furgone di proprietà delle metropolitane di Barcellona. Ovvio, non dirà mai che l’incidente è avvenuto per colpa sua. Chi si accollerebbe la responsabilità di aver ucciso un ragazzo? Non so se di notte dorme quell’uomo.  Ma se vuole, lui in Spagna può trovare tutti i testimoni che vuole e dichiarare quello che vuole. Io davvero non so com’è andata e non lo saprò mai. Non serve accanirsi. Se avessi ragione mi darebbero dei soldi,  ma non mio figlio E dei soldi non so che fare, non voglio soldi che derivano dalla morte di mio figlio. Quindi va bene così. Marco  è morto sul colpo. Non ha avuto il tempo di rendersi conto di niente, almeno spero. Perché noi della morte non sappiamo niente. Ogni tanto me lo chiedo. Chissà cosa ha pensato. Poi caccio via questo pensiero, non riesco a reggerlo.

Dov’era e cosa faceva quando è avvenuta la tragedia?

Ero a Bari, lontanissima da Barcellona, e mentre mio figlio moriva, io dormivo. Poi mi sono svegliata e lui era già morto e io non lo sapevo. Mi sono lavata e vestita, messa un costume da bagno e andata al mare. Per circa otto ore dalla sua morte ho vissuto ignara di quanto fosse accaduto. L’avevo sentito per telefono la sera prima. Tutto ok. La telefonata dal Consolato italiano in Spagna mi ha raggiunta su una barca al largo di Polignano a Mare. Ho capito subito cosa fosse  successo. Anche se tergiversavano.  Ho chiesto: “Mi dica la verità, mio figlio è morto?” Mi hanno detto di sì. Punto. Ho chiuso il telefono.

Cosa è successo in quell’attimo?

Si è fermata anche la mia vita. Questo penso ogni tanto: quando arriva una tragedia nessuno può prevederla. Io ho vissuto per otto ore una vita falsa, mio figlio era morto, la mia vita si era già fermata e io non lo sapevo. Otto ore di “filecenza”, come si diceva quando si giocava da bambini. Strano vero? Dicono che dovresti sentirtelo, io non ho sentito niente. Alla notizia sono rimasta gelata. Nulla serviva più. Non serviva correre, non serviva piangere, non serviva urlare. Non serviva nulla. I miei amici mi hanno riportata a terra in poco, hanno chiamato al telefono mia sorella. Ma io ero un pezzo di ghiaccio. Ho preso la mia macchina, ho voluto guidare io, non ho voluto nessuno. Sono andata dai miei genitori, ho bussato al campanello e come un pezzo di ghiaccio ho detto: Marco è morto. Li ho lasciati lì con tutti i parenti e gli amici accorsi nel frattempo e sono andata al giornale. Dove ho scritto io, di mio pugno, il necrologio.

Nei giorni successivi?

Non ho voluto vedere nessuno, né parlare con nessuno. Pensavo a Marco e cercavo di continuare a sorridere, a fare quello che lui avrebbe voluto che facessi. Non sono partita, non sono andata in Spagna. Non serviva più. Finché ho potuto, e Marco c’è stato, ho smosso anche le montagne per lui. Ma in quel momento niente serviva più. Ho fatto chiamare il padre. In Spagna è andato lui per tutto quello che è stato necessario. Io sono rimasta qui. Sulle prime ho detto che non volevo nemmeno andare al funerale, che non mi interessava che ci fosse un funerale. Non ho voluto manifesti né alcun  cenno di lutto. Volevo solo sorrisi per Marco. Marco è tornato in Italia dopo dieci giorni. Allora ho pensato che non potevo essere vigliacca e lasciarlo solo in quella che sarebbe stata l’ultima avventura terrena.

E allora?

Ho organizzato il funerale a modo mio, anzi, a modo suo. Moto e giovani, e sorrisi e musica e applausi. E io non ho smesso un secondo di sorridere. Non mi chieda come ho fatto. Non lo so. Non so chi mi abbia dato la forza. Forse Marco. Anzi, certamente lui. Ho seguito la sua bara, ho camminato di lato alla sua bara con una mano sulla cassa come se lo tenessi per mano. E pensavo questo: “Figlio mio, non so se quello che stai vivendo ora, è una cosa bella o brutta, ma mamma è con te, come sempre”.

Ora, dopo due anni?

Continuo a vivere. Come sempre. Perché quello che non so, che ancora non so, é se morire sia una cosa brutta. E se fosse un viaggio, mi chiedo, una trasformazione? Un andare oltre? Io lo spero. Purtroppo, non ho certezze. Voglio pensarlo. E quindi dico a Marco che io sono con lui anche in questa esperienza. E’ un’altra esperienza. Difficilissima. Ma a stiamo vivendo insieme e io devo essere all’altezza. Se lui ha saputo vivere ogni esperienza, la vita, la morte, il passaggio, io devo essere capace di stare insieme con  lui, di condividere.

Si sente in colpa? Prova rabbia?

Nei miei pensieri non c’è colpa, né rancore e forse nemmeno rabbia. Non si può avere rabbia per quello che non si conosce.

Cosa  pensa?

Se morire è una cosa brutta, è successa a lui, e se è una cosa bella è successa sempre a lui. Non posso dargli pensiero per me. Io devo essere all’altezza. Io sono la mamma, io devo preoccuparmi per lui e non lui per me, ancora oggi, come sempre. Non ho marito, né compagno alcuno, né altri figli. Mi sono stati vicini tutti, parenti, amici e colleghi. Ma non è che serva. E’ una cosa tua, solo tua.

E la sua famiglia?

Ho fatto del mio meglio per essere forte anche per i miei genitori. Io ho Marco dentro di me e la forza del nostro amore indistruttibile. Loro hanno più di 80 anni. Devo continuare a sorridere e fare in modo che loro sorridano. Marco vuole così, ne sono certa.  Marco non vuole avere il dolore di vederci schiantati per la sua assenza. Marco deve star bene. E io devo fare tutto quello che posso, perché lui stia bene. Non pensi che io sia un automa o Nembo Kid. Ho pianto e strepitato mille notti da sola. Poi dico a me stessa che come sono stata capace di farlo andare a vivere le sue esperienze e di accompagnarlo con il mio amore quando era in questo mondo, devo farlo ancora. Noi diamo la vita ai figli, ma i nostri figli non sono nostri. Noi siamo l’arco, loro la freccia. La freccia va.

E’ credente?

Non so se sono credente. Se lo sono, non lo sono nel modo tradizionale.

Com’è cambiata la sua vita?

L’impresa eccezionale è essere normale, dice un canzone di Lucio Dalla. Le mie colleghe mi hanno fatto un grande regalo in quei mesi. Mi hanno messa in contatto con una psichiatra barese, perché mi aiutasse a elaborare il lutto. Io non so se ho elaborato il lutto. Però, Tina, si chiama così questa psichiatra, mi ha insegnato una cosa importantissima: nulla sarà mai come prima e bisogna accettarlo. E’ una verità stupidissima, ma è l’unica verità. Per forza quella di oggi è un’altra Daniela. Dolorante e nuova. Fragile e fortissima, perché più nulla può ferirmi. Ho già avuto dalla vita la ferita più assurda. Ora è tutto relativo. Niente, però, sarà mai più come prima, nel bene e nel male. Io l’ho accettato. Nella mia vita non ci sono più emozioni violente, né belle, né brutte. Normali. Banali forse. Non c’è felicità perché non può più esserci senza Marco, non c’è dolore, perché il dolore più assurdo è stato dover imparare a fare a meno di Marco. Ci sono le piccole gioie e i piccoli dispiaceri di ogni giorno. l mio quotidiano è “normale”. Lavoro, mi curo di me stessa e dei miei genitori, ho una cagnetta a cui voglio molto bene. Ho amiche e colleghe carissime, i loro figli. Ho una sorella e una nipote.

Parla con suo figlio?

Non so. Il dialogo muto è continuo. Nel senso che lui è con me qualsiasi cosa io faccia. Ogni cosa è divisa con lui. Perché lui è dentro di me, di nuovo, come prima che nascesse. E’ nella mia pancia, nel mio cuore. Se corro, corre con me, se vado in palestra viene con me, con me al mare, con me al lavoro, con me al cinema. se ascolto musica la sento con lui, se canto una canzone è dedicata a lui. Lo sento vicino. Non so. All’inizio era diverso. Più lontano o più vicino, ora è come se fossimo una persona sola. Quindi non è questione di lontananza o vicinanza. Lui è dentro di me come io sono con lui, ovunque lui sia. I segnali sono un cammino evolutivo. Arrivano, vanno via, tornano. Quando essere uniti è una costante, quale segnale cercare ancora?

Dunque, un dolore insuperabile!

Superare. Non si supera mai, si cammina insieme, si cambia, ci si evolve, insieme sempre, nel rapporto eterno di una mamma e di un figlio. E forse continueremo ad evolverci quando anche io sarò nell’altra dimensione. Che  sappiamo noi qui di cosa c’è oltre? La religione dice che ci ritroveremo, io dico che non ci siamo mai persi. Un’immagine: a me piace correre. Quando corro, al mattino, con il vento in faccia e la musica nelle orecchie, Marco corre con me, dentro di me. La piacevolezza del vento sul viso è AMORE. Non ho mai deciso di “superare”. Niente si supera, tutto si condivide e si vive. Marco c’è. Non so come e non so dove, ma c’è. Dentro di me o altrove, nel vento e nel mare, vicino e lontano. Marco è un figlio che vive lontano.

Ma cos’è la morte?

Ogni tanto penso che la morte sia il nulla, ma la nostra mente il nulla non riesce a concepirlo, come il tutto. L’aiutano in parte il lavoro, la famiglia, le amicizie?

Lavoro, amicizie sono stati e sono parte importante della mia vita. Ma se cerchi di fare discorsi compensativi o di aggrapparti a qualcosa, è la fine. Niente è compensazione, anzi tutto diventa delusione. Cosa mai dovrebbe darti il lavoro o un’amica per “compensare” la “perdita” di un figlio? Magari all’inizio è naturale cercare compensazioni , ma è solo una sofferenza più atroce

Ha incontrato altre mamme segnate dallo stesso dolore?

Ognuno vive e sente il dolore a modo suo. Ci si abbraccia, ci si sente sorelle nel dolore, ma poi  in qualche momento ci si conforta, in qualche altro, è meglio sfuggirsi per non farsi da cassa di risonanza.

Giacomo Cardaci, guarito dal cancro, alla nostra Redazione ha detto che il dolore non rende più forti. Anzi, amplifica la paura. Che ne pensa?

Non so rispondere a Giacomo. Ognuno di noi elabora il dolore a modo suo. Io penso solo che dobbiamo sempre sforzarci di essere migliori e  diventare migliori anche in conseguenza di un dolore profondo. Però, il mio caso è diverso dal suo. Per me sforzarmi di essere migliore è un regalo dedicato a mio figlio. Per amore di Marco, ci provo. Se dovessi pensare che tutto questo è accaduto invano o che io non sono all’altezza di fare ancora qualcosa di buono per Marco, sarebbe una beffa infinita. Allora, sì, che sarebbe davvero la fine di tutto. Penso che il dolore mi abbia resa fragilissima e nello steso tempo fortissima. Proprio perché non ho più paure, né speranze.  Che direi alle mamme che hanno perso il proprio figlio? Assolutamente niente.  Ciascuna fa del suo meglio. Non ci sono ricette. Si fanno anche tante cazzate per l’immenso dolore. Tutto va capito. Qualsiasi cosa. Davanti a uno schianto così. Ognuna può solo cercare di voler bene ai quei cocci di sé che restano fra le mani. Voglio chiudere con un ricordo.

Prego!

Quando Marco era bambino nella sua stanza avevo appeso una poesia di Kipling: “If” C’è una strofa che dice: “Se saprai vedere le cose per cui hai dato la vita distrutte e curvarti e ricostruirle con utensili logorati”… Bene Queste e molte altre cose io ho cercato di insegnare a Marco nella sua vita. Quando è arrivato il momento, ho detto a me stessa che dovevo essere capace di fare, nel dolore più grande, quello che avevo predicato per anni a lui. Era questa la sfida. Sono ancora curva a ricostruire con utensili logorati, in una strada difficilissima e in evoluzione continua. Devo essere degna di lui.

A cura di Cinzia Ficco