La storia di Elisa, scrittrice e fotografa di viaggi
A quanti di noi è capitato “nel mezzo del cammin di nostra vita” di sentirsi costretti a vivere una vita non nostra?
Alcuni si rassegnano e tirano avanti, altri invece coraggiosamente riescono a prendere un’aspettativa da tutto, per dare una nuova direzione alla propria vita verso la realizzazione di un sogno.
Elisabetta appartiene a questi ultimi, guidata da un cuore invisibile che l’ha portata lontano. Cambogia, Vietnam, Cina, Myanmar, Malesia, Iran e Oman, questi i posti in cui ha vissuto, dapprima per un’esperienza di volontariato poi per scelta perché “ fare ciò che amiamo e che ci rende felici, è ciò per cui siamo venuti al mondo”.
“Sono una scrittrice e fotografa di viaggi, di vite e di avventure che per sbaglio è diventata insegnante di inglese di scuola primaria a tempo indeterminato. Lavoravo nella cooperazione internazionale, ero appena tornata da un’esperienza lavorativa di tre anni in Albania e ho pensato bene di accettare un posto di ruolo che arrivava inaspettato, che avrebbe rasserenato la famiglia, ma che mi avrebbe imprigionata per qualche anno in una vita che non mi apparteneva.
Sognavo la libertà e mi sono ritrovata nella trappola del posto fisso, nella gabbia di una carriera che non era la mia. Negli anni ho costruito un curriculum di tutto rispetto: laureata in lettere a indirizzo artistico, un master per insegnare l’italiano agli stranieri… peccato che io, dentro, non sia il mio curriculum. Ci ho messo quarant’anni a capire cosa non voglio e così sono partita. Bisogna pur rimediare al fatto di essere una blogger nata in un corpo da insegnante, no?”
Mi hai raccontato di aver vissuto un’esperienza di volontariato in Cambogia. Da quale esigenza è nata l’idea di vivere questo tipo di esperienza?
Trascorsi un anno di riflessione su me stessa e di letture su come trovare il coraggio di cambiare vita: le storie di vita degli italiani che avevano lasciato tutto per inseguire un sogno all’estero, raccontate sul sito Voglio Vivere Così, sono state per mesi la mia lettura quotidiana.
Nel maggio del 2010 presi coraggio e telefonai al VIDES (Volontariato Internazionale Donna Educazione Sviluppo) di Roma, che già conoscevo. Coltivavo sin da bambina il desiderio forte di fare un’esperienza lunga di volontariato: sentivo che era arrivato il momento di realizzarlo.
Avevo il mio appartamento tranquillo e un lavoro sicuro nella scuola italiana, ma sentivo che mi mancava qualcosa. La mattina guidavo verso la scuola e sognavo l’Africa. Ne varcavo la soglia e desideravo fosse quella di una missione, a cui offrire il mio tempo, le mie energie e i miei talenti. Da una parte c’era la sicurezza del proprio nido, le abitudini, gli amici, il corso di yoga e la palestra; il conforto di una routine dalla quale, sebbene sia stretta, non è facile uscire.
Dall’altra invece c’era il desiderio di prendere un’aspettativa da tutto, per realizzare un sogno e anche per capire se dare una direzione nuova alla mia vita. Il volontariato internazionale non è solo per ventenni: anche a 38 anni si può decidere di mettere tutto in stand-by e donare un periodo della propria vita a chi ha bisogno di te.
La decisione è stata presa – come al solito – pensando a Michele, amico mancato in un incidente di moto nel 1998, a soli 25 anni. Volevamo andare in Africa insieme dopo le nostre lauree, ma poi lui se n’è andato e io sono rimasta: da allora mi sento come guidata da un cuore invisibile che mi ha portata lontano. Prima in Kenya e in Madagascar, per esperienze brevi di volontariato dove ho lasciato il cuore, poi in Albania. Forte della convinzione che non è necessario aspettare di andare in pensione per coronare un sogno – e Michele insegna che non si sa quanto tempo abbiamo a disposizione per tentare di realizzarlo – mi ritrovai così su un treno che da Torino, la mia città natale, mi stava portando a Roma, destinazione sede del VIDES.
Sei ore di viaggio in cui pensieri, eccitazione e timori, emergevano e scomparivano veloci. Mi chiedevo se mi sarebbe stato proposto di andare in Sudafrica o forse di nuovo in Kenya o magari in Zambia. Poco prima di scendere dal treno, lessi su un libro una frase di Omar Khayyam (Le Rubaiyat): “Perché riflettere così sul futuro che verrà e stremare il tuo cervello in una vana perplessità? Non te ne curare e lascia ad Allah i suoi progetti… Egli non t’annovera tra i suoi architetti”.
Durante il colloquio di conoscenza, Sr Leonor Salazar (la responsabile dei volontari VIDES) sorrideva mentre parlavo delle mie esperienze come insegnante di inglese, finché arrivò il momento tanto atteso: “La provvidenza! Poche settimane fa mi hanno proprio chiesto con urgenza una volontaria che potesse insegnare inglese per il prossimo anno scolastico!”, a cui risposi “Ma dai! E dove?”. “In Cambogia”.
Rimasi bloccata con la bocca semiaperta, la mia mente cercava di localizzare la Cambogia sul planisfero. Un solo pensiero mi attraversò la mente in quel momento: “Allah non solo non mi ha annoverata tra i suoi architetti, ma nemmeno tra i suoi miseri geometri!”. Il mio sgomento non doveva essere sfuggito a Sr Leonor, che subito aggiunse: “Ma se preferisci andare in Africa non c’è problema, abbiamo diverse missioni in cui potresti essere utile anche là”.
Mi congedò dandomi una quindicina di giorni per riflettere sulla proposta. Poche ore dopo, sul treno del ritorno, stavo già fantasticando su come fossero la Cambogia, la missione e le ragazze del Vocational Training Center a cui avrei dovuto insegnare: la decisione era stata presa. Chiesi un’aspettativa alla scuola di otto mesi per motivi personali e i primi di ottobre partii per un’esperienza che mi cambiò la vita.
Quali sono i pro e i contro del volontariato e quali devono essere secondo te le caratteristiche di un buon volontario?
Questa esperienza di volontariato in Cambogia non è stata la prima, bensì la terza: ero già stata un mese in Kenya nel 1999 in un orfanotrofio e due anni dopo in Madagascar per un paio di mesi. Forte delle mie esperienze, mi sento di poter affermare con sicurezza che non ci sono aspetti negativi nel fare volontariato: solo vantaggi.
Prima di tutto, si ha la possibilità di calarsi in realtà molto diverse dalla propria e dunque si sviluppa un forte spirito di adattamento. Si impara a tollerare, a non giudicare, ad affrontare e superare momenti di solitudine.
Si sviluppa una propensione alla mediazione tra la propria cultura e quella dell’altro. Si abbandonano stereotipi e pregiudizi. Si torna cambiati e in meglio: al ritorno da un’esperienza di volontariato i propri problemi vengono ridimensionati, guardati con gli occhi di chi sa che c’è chi sta molto, molto peggio di noi.
Un buon volontario deve essere: empatico, tollerante, diplomatico e aperto al confronto con il diverso; disposto a rinunciare ad alcuni comfort e abitudini (internet, sms, luce 24 ore su 24, acqua calda, TV, amici con cui sfogarsi); avere spirito di adattamento; non temere la solitudine; essere curioso e fare tante domande; deve chiedere prima di giudicare.
Una cosa che dico a tutti coloro che partono è di non credere di andare lì e pensare di cambiare il mondo, di avere soluzioni in mano: non sempre ciò che pensiamo sia giusto, si può adattare a una realtà diversa dalla nostra. E’ necessario spogliarsi dell’arroganza occidentale e avvicinarsi ad un Paese diverso con una buona dose di umiltà.
Come viveva la gente nel villaggio in cui sei stata? Come erano i rapporti tra te e loro?
La missione in cui si trova il Vocational Training Center è situata all’estrema periferia della capitale, Phnom Penh. Io insegnavo inglese a ragazze dai 18 ai 25 anni, per la maggior parte provenienti dai villaggi e da famiglie molto povere.
Il Centro di Formazione Professionale offre un corso di due anni per prepararle a lavorare negli hotel, dalla pulizia delle camere alla reception e nei ristoranti come cuoche o cameriere. Oltre all’inglese, ho anche tenuto lezioni di teatro e danza.
La Cambogia è uno dei Paesi più poveri del sud-est asiatico, con una situazione politica stabile benché fragile. Uno stipendio medio è anche di soli 40 dollari al mese, quello di un insegnante 60 dollari: con uno stipendio così basso possono solamente pagare l’affitto della casa e un po’ di cibo, quando ce la fanno.
Da qui la conseguente corruzione che, in Cambogia, è annidata ovunque. Solo i pochi privilegiati hanno la fortuna di vivere in una bella casa: le persone normali vivono spesso in una sola stanza (le famiglie sono molto numerose), oppure in baracche di legno e lamiera o direttamente in strada. Dopo il genocidio compiuto da Pol Pot nel 1975, molti sono tornati stremati nella capitale dall’esodo forzato che hanno dovuto compiere verso le campagne, senza più trovare le possibilità economiche per ricominciare una vita decorosa, così si sono arrangiati come potevano.
Nei villaggi le case sono costruite a palafitta: quando il Mekong straripa ci si rifugia nella parte alta della casa con tutte le suppellettili, sperando che la furia dell’acqua non butti giù tutto. La violenza domestica è largamente diffusa, insieme al triste fenomeno del turismo sessuale: meno conosciuto di quello praticato nella più popolare Thailandia (dove Elisa si é trasferita a vivere e lavorare) ma non meno devastante per quelle ragazze che finiscono a prostituirsi nei bordelli e nei bar per guadagnarsi da vivere.
Rapportarsi con la gente del posto non è stato difficile: nonostante la barriera linguistica (si parla la lingua khmer e l’inglese non è sempre compreso) e culturale, il popolo cambogiano è aperto e gentile e apprezza che un occidentale doni il tempo e risorse per aiutare il loro Paese. Bisogna essere aperti al confronto con l’altro, senza mai giudicare.
Hai incontrato difficoltà a rapportarti, sei riuscita a instaurare un rapporto fluido? E come ti vedevano?
L’inizio non è stato affatto semplice: l’Asia è molto diversa dall’occidente per cultura e costumi, per cui ho inizialmente faticato molto ad entrare nella mentalità delle persone, a interpretare i loro comportamenti e il loro non essere diretti nell’esprimere ciò che sentivano.
Per me che invece sono molto trasparente e diretta, è stata dura perché non riuscivo a rapportarmi con le mie alunne, a leggere dietro la facciata del “va tutto bene”. Per esempio, quando alla fine di una spiegazione chiedevo se avevano capito, la risposta inizialmente era sempre “Sì”.
Poi si faceva una verifica e vedevo che la maggior parte non aveva capito nulla. Ho poi compreso che le mie alunne rispondevano così perché non volevano deludermi dicendomi che non avevano compreso la mia spiegazione.
Ho impiegato 2/3 mesi per iniziare a comprendere quella realtà buddhista condita da credenze e atteggiamenti diversi, ma molto interessanti e per far capire loro che era importante mi dicessero la verità. Anche con le colleghe locali non è stato semplice instaurare rapporti di amicizia a causa di queste barriere linguistiche e culturali.
Ci è voluto tempo per costruirli, ma alla fine ce l’abbiamo fatta: con una di loro mi sento regolarmente ancora oggi.
Hai vissuto dei momenti in cui ti sei pentita di essere partita per la Cambogia?
Solo le prime due settimane dopo il mio arrivo. In attesa dell’inizio della scuola ho sofferto una gran solitudine. Le suore della missione erano sempre indaffarate nella loro vita di comunità ed io ero spesso sola in camera, senza internet, circondata da gechi, rane e altri animali, chiedendomi chi me l’avesse fatto fare.
Va bene che avevo bisogno di staccare, di prendermi un’aspettativa da tutto, pensavo, ma ambientarmi a quella solitudine era dura. Mi rendevo conto di aver sempre riempito la mia vita di tanti stimoli e di tante cose da non essere più capace di ascoltarmi e sopportare il silenzio. E, quando le circostanze mi hanno imposto di farlo, sono crollata. La sera dopo cena, verso le 19.40, prendevo la torcia e venivo in camera mia.
La torcia non mi serviva per la mancanza di luce, ma per evitare di calpestare eventuali serpenti. Chiudevo a chiave la porta, accendevo la luce e le pale al soffitto per smuovere un po’ di umidità (che in Cambogia raggiunge anche il 90% con 32-35 gradi fissi) e piombavo nella solitudine. Non avevo mai provato una sensazione simile, prima di allora: c’ero solo io, i banani, gli animali, gli insetti, il vento, il cielo nero, persone che ancora non conoscevo e una cultura altrettanto ignota.
La tentazione è stata quella di salutare tutti, prendere il primo volo per l’occidente e tornarmene a casa, alle mie sicurezze, al cibo e agli odori conosciuti, alle telefonate e agli sms, agli amici, alla mia gatta. Cose che, finché ero a casa, non vedevo l’ora di lasciarmi alle spalle, ma che in quel momento mi mancavano come l’aria.
Ricordo che la prima sera l’ho trascorsa riempiendo il silenzio con le canzoni che avevo sul computer portatile; la seconda, ho letto tutto un libro da cima a fondo; la terza sera ho spento tutto, lasciando così che il mio cuore – che tanto temevo – mi parlasse.
E’ stato traumatico, ma salutare. Chi mai avrebbe voglia di risvegliare pensieri e timori messi a tacere da anni di TV a tutto volume, radio in macchina e chilometriche telefonate serali alle amiche? Lasciare che il mio cuore mi parlasse e accettare ciò che mi diceva è stato come fare i gargarismi con l’aceto: non è piacevole, ma alla lunga disinfiamma le tonsille.
Avevo bisogno di questo silenzio: forse dovevo andare fino in Cambogia per ascoltarmi. Da lì in poi i mesi sono volati in serenità e con momenti di gioia intensa, maggio è arrivato senza accorgermene: è bastato lasciare andare tutte le resistenze.
In cosa ti ha cambiato vivere un’esperienza di volontariato?
Mai avrei pensato di fare un’esperienza di volontariato in Asia, a riprova del fatto che non siamo noi a scegliere il luogo che più ci aggrada: è lui a scegliere noi. Questa esperienza mi ha resa più tollerante, meno paurosa di guardarmi dentro e della solitudine, più coraggiosa e pronta a spogliarmi della mia identità per assorbire quella dell’altro.
Passiamo al presente….di cosa ti stai occupando attualmente?
Attualmente io e la mia valigia ci troviamo in Oman, dove sto facendo la guida turistica per tour operator locali, cui si appoggiano gruppi di turisti italiani. Una mia amica italiana che fa la guida qui da tanti anni mi ha proposto di raggiungerla… e ci sono rimasta. In attesa di ripartire, però!
Nella presentazione che hai inviato in redazione hai affermato di esserti presa un’aspettativa da tutto. Da tutto cosa? Cosa ti sei lasciata alle spalle e per quanto tempo pensi di vivere questo periodo di “sospensione”?
Lo scorso luglio ho chiesto un’altra aspettativa dalla scuola, stavolta per dedicarmi non più agli altri ma a me stessa, alla ricerca della mia realizzazione.
Ho lasciato alle spalle un lavoro che non mi soddisfaceva più e un paesino che mi stava stretto, per viaggiare e per fare ciò che più amo: scrivere e fotografare situazioni e luoghi insoliti. E per cercare una nuova carriera che fosse consona alla mia personalità: sono fermamente convinta che fare ciò che amiamo e che ci rende felici, è ciò per cui siamo venuti al mondo.
La mia aspettativa scadrà il prossimo luglio. Io ho aperto una porta, altre se ne stanno aprendo: non è detto che debba per forza tornare, no?
Come è nata l’idea di creare www.toohappytobehomesick.com/ ?
Quand’ero in Cambogia avevo cominciato a mandare agli amici racconti divertenti sulle mie avventure, usanza già iniziata in Albania, anche collaborando con una rivista locale (e in seguito con il sito AlbaniaNews).
vendo riscosso un discreto successo, ho pensato di creare un blog tutto mio attraverso cui diffondere in rete i miei resoconti di viaggio, pubblicare il mio portfolio fotografico (www.goodmorningcambogia.com) e spronare chi vorrebbe fare quel salto a lasciar da parte i timori e partire. E’ difficile scegliere la felicità, ma una volta presa la decisione ci si sente molto più leggeri: la leggerezza che deriva dall’essere finalmente se stessi.
In quali posti hai vissuto? Quali culture hai avuto modo di conoscere e quale tra queste ti ha colpito maggiormente rispetto alle altre?
Da allora sono stata nuovamente in Cambogia, poi in Vietnam, Cina, Thailandia, Myanmar, Malesia, Iran e ora Oman.
Posso affermare di conoscere la cultura cambogiana, di aver assaggiato quella cinese e di stare assaporando quella omanita e iraniana. Quest’ultima è quella che mi ha colpita maggiormente: avevo un’idea totalmente distorta dell’Iran a causa di ciò che ci viene mostrato dai media, invece si è rivelata meravigliosamente l’opposto.
La gente è cordiale, ospitale senza pari, colta, interessante, il cibo è super e ciò che sta succedendo al Paese non ha (ancora) scalfito gli iraniani. Da tornarci (infatti ci sono già stata due volte).
Sei alla ricerca di qualcosa di specifico in questo tuo viaggio? Qual è l’emozione che ricerchi?
Una mattina mi svegliai e decisi che era più coraggioso scegliere di essere felici, piuttosto che arrendersi a vivere una vita che non dà più stimoli, solo perché si ha paura del cambiamento.
Sono partita per scrivere e fotografare, perché questo è ciò che mi viene più naturale fare, che mi dà gioia, che mi fa svegliare al mattino già col sorriso.
La vita non è l’obiettivo che ci siamo posti, ma tutto ciò che ci succede mentre cerchiamo di raggiungerlo: è questa l’emozione che cercavo, che provo ogniqualvolta ho una valigia in mano al check-in di un aeroporto.
E’ un’adrenalina che mi prende il cuore e il cervello: quando un aereo o un autobus stanno per partire con me sopra, mi sale l’impulso di scrivere e via con penna, taccuino o netbook, a registrare volti, situazioni e storie, sempre con grande senso dell’umorismo.
Se mi fermo mi spengo. L’emozione più forte non me la dà il posto in cui mi fermo: me la provoca il viaggio per arrivarci.
Come ti sostieni durante il tuo viaggio?
Dopo essere tornata dalla Cambogia, ho risparmiato come una formichina per un anno intero. In Cina ho insegnato inglese in una scuola per due mesi e mi offrivano anche l’alloggio.
Da allora (settembre) non ho più lavorato e mi sono servita, per dormire, di Couchsurfing e di alloggi condivisi tramite Airbnb.com. Non mangio quasi mai nei ristoranti, ma cerco sempre di avere una cucina in cui poter preparare i miei pasti.
Scelgo sempre mete poco care: è certamente meglio scegliere, per fermarsi, città o villaggi del Sud-Est Asiatico piuttosto che New York. Questo è il segreto per farcela per un bel po’ di mesi con i propri risparmi.
Qual è l’aspetto più bello del viaggiare nei Paesi orientali?
La rilassatezza di certi Paesi orientali aiuta a riconciliarsi con se stessi, a ritrovare un equilibrio perso da anni di stress accumulati, che intossicano la vita.
Spesso non indosso neanche più l’orologio, in Cambogia e in Thailandia mi svegliavo naturalmente all’alba con il cinguettio di un uccellino che sembrava un carretto cigolante. Essere sempre di corsa è dannoso non solo per la nostra salute, ma anche nei nostri rapporti con gli altri: in Italia la mia vita aveva perduto il piacere di godere di ogni attimo vissuto senza fretta.
Hai uno stile di viaggio ben preciso o parti senza sapere a cosa vai incontro?
Io sono un’incosciente per natura: parto sempre senza sapere dove sto andando e a cosa vado incontro. E’ uno stile di viaggio selvaggio, a cominciare dal biglietto aereo: ho fatto un biglietto di sola andata e sono partita.
Ho scelto di non acquistare un round the world ticket proprio per essere libera di decidere di andare dove mi porta l’ispirazione del momento. E’ così che ho visitato la Malesia: ero in Thailandia, ho tirato fuori la mappa del Sud-Est Asiatico, l’ho osservata e mi sono detta: “Perché non visitare Kuala Lumpur?” e così ho acquistato un biglietto dell’autobus e mi sono imbarcata.
Che gusto c’è nel decidere a tavolino, un anno prima, quali Paesi visitare? Il bello è proprio perdersi per strada, ridefinire la rotta e, perdendosi, trovarsi in un luogo bellissimo che non ti saresti mai aspettato.
Qual è il momento più magico che hai vissuto durante i tuoi viaggi?
Ero in Cambogia seduta vicino a un canale pieno di ninfee e fiori di loto, al tramonto. Le palme intorno a me si stagliavano alte nel cielo blu che andava striandosi di arancione, giallo e viola, i banani e gli alberi di mango si scurivano insieme al cielo.
I miei quattro cani giocavano sereni intorno a me, uno di loro mi è venuto vicino e mi ha leccato la mano per dirmi che mi voleva bene. Un geco enorme che lì chiamano tokkè, lanciava tranquillo i suoi richiami dall’alto della palma.
L’aria profumava di monsone che stava per arrivare e mi sono sdraiata a pancia in su a guardare le nuvole che correvano basse nel cielo, diventato color lavanda. In quel momento non avrei voluto essere da nessun’altra parte, ero dove volevo essere e un senso di pace e di gioia indescrivibili mi hanno pervasa tutta: ho pensato che quella notte sarei anche potuto morire, perché ormai avevo realizzato il mio sogno. Ero felice.
Quali sono le maggiori difficoltà che si incontrano nel viaggiare da soli? E quali sono le cose più importanti che hai imparato o stai imparando in questo tuo viaggio?
Penso che la maggiore difficoltà che si possa incontrare viaggiando da soli sia la solitudine. Da un lato è bello poter decidere da soli, senza dover mediare con la volontà di un compagno di viaggio e inoltre il distacco da tutti è salutare per riflettere in silenzio sul proprio cammino.
Però, ci sono momenti in cui questa può pesare: quando non si sta bene, se ci si fa male, quando si cena da soli in un luogo sconosciuto, quando ci assale il senso di vuoto e ci si chiede: “Ma cosa ci sto facendo io, qui? Chi me l’ha fatto fare?”.
E’ importante stare bene con se stessi perché in quei momenti si impara a trovare la forza dentro di sé: questa forza ci aiuta a compiere quel salto importante che ci farà passare dalla nostra zona di comfort alla libertà. Come dice Nicholas Lore nel suo libro The Pathfinder: “Se sei disposto a sperimentare la paura, la delusione e l’imbarazzo, diventerai una forza della natura quasi inarrestabile”.
L’insegnamento maggiore che sto traendo dal mio girovagare per l’Asia e il Medio Oriente è l’importanza di liberarsi delle cose futili di cui riempiamo le nostre vite. Perché? Per mettere a tacere la nostra insoddisfazione con quintali di vestiti, scarpe e gadget vari di cui possiamo fare assolutamente a meno: la prova ne è la depressione post-shopping.
Sono mesi che vivo con l’essenziale e vivo benissimo. Forse perché quando si è felici si emana una luce che viene da dentro e non si ha più bisogno di alcun artificio per illudersi di essere sereni.
In base a cosa scegli la tua destinazione?
Come ho già detto, le destinazioni le scelgo a seconda dell’ispirazione del momento, di un’amica che mi invita, di un luogo di cui sento di aver bisogno. Ad esempio, dopo l’esperienza cinese sono rimasta una settimana nel sud della Thailandia: vi sono giunta cercando a caso su internet un piccolo resort lontano dalla massa e l’ho trovato. Da lì ho poi deciso di frequentare un corso gratuito di meditazione vipassana in Myanmar, trovato sempre cercando su internet qualche corso rilassante.
Mai partire senza……?
Tanta pazienza, un buon libro e un paio di jeans. La pazienza serve per sopportare situazioni sgradevoli o strane che inevitabilmente capitano in viaggio e anche per non cedere quando si è stanchi – viaggiare spesso, benché interessante, dopo un po’ stanca.
Il buon libro serve per ridare motivazione e energia quando si è giù di morale: deve essere quel libro che, mesi prima, ci aveva spinti a decidere di partire. Bisogna portarlo sempre con sé, a ricordarci perché siamo partiti. Il paio di jeans deve essere quello che ci fa sentire noi stessi, a nostro agio, che rispecchia il nostro stile di vita e la nostra personalità.
A volte basta infilarli, prendere taccuino e macchina fotografica e via: siamo pronti per una nuova avventura. Con tanto senso dell’humour. Gli aspetti divertenti, insoliti e talvolta assurdi del nostro lungo viaggio vanno guardati così: col sorriso di chi ha capito che, come dice Steinbeck, non sono le persone a fare i viaggi, ma sono i viaggi che fanno le persone.
Per concludere l’intervista, cosa ti piacerebbe trasmettere con la tua testimonianza di vita?
Il mio messaggio è questo: vestitevi, fate la valigia e uscite di casa. Smettetela di procrastinare e fate quel biglietto per la libertà.
Un biglietto che vi porti ovunque, anche dall’altra parte della città, l’importante è cominciare. Può darsi che, mentre vi state recando alla fermata dell’autobus, prendiate un’altra strada e qualcosa di nuovo si apra.
Ma se non foste manco usciti di casa, avreste perso un’opportunità: quella di cambiare la vostra vita.
Email: elizabethsundayanne@gmail.com
A cura di Nicole Cascione