La Storia di Luca e il Suo Cambiamento Radicale

A cura di Nicole Cascione

Dalla vita frenetica delle metropoli, alla vita tranquilla della campagna. Da chef, a contadino. Un significativo cambiamento di vita dettato da un evento importante che ha segnato la vita di Luca, il quale si è lasciato alle spalle lo stress quotidiano e si è trasferito in montagna: “Per me ogni giorno è un giorno nuovo, che divido tra la pesca, la cura dell’orto, la raccolta dei funghi e dei frutti di bosco. Ora posso finalmente dire di essere felice”.

Luca da Chef a Contadino in Valle D'Aosta

Luca, a 55 anni, un problema di salute ha segnato per te la svolta. Hai smesso di lavorare e di preoccuparti del futuro, cercando di vivere il presente al meglio e in tranquillità. Ti va di raccontarci quando e perché hai preso questa decisione?

La svolta è arrivata quando mi hanno diagnosticato una malattia neurodegenerativa. E’ stata una notizia che mi ha sconvolto la vita. Anche se al momento sono ancora autosufficiente, i medici mi hanno detto che presto il mio stato di salute si aggraverà, così ho deciso di cambiare il mio stile di vita, in modo da poter godermi questi ultimi anni in pace e tranquillità.

Così hai deciso di trasferirti in valle D’Aosta dove hai ritrovato la tua serenità. Da chef a contadino, la tua vita ha subito un cambiamento notevole. Cosa ti sei lasciato alle spalle e cosa invece hai ritrovato?

Purtroppo questa malattia prima o poi costringe, chi ne è colpito, a modificare il proprio stile di vita. Ti porta a modificare anche l’alimentazione, in modo che non interferisca con i medicinali, ci si ritrova ad adattare le proprie abitudini e le proprie attività in base agli orari in cui il farmaco dà il maggiore effetto e alla fine si è costretti a cambiare o lasciare il lavoro. La professione di chef comporta un alto livello di stress. Per farti capire ti racconto quella che era una mia giornata lavorativa.

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Sono le sette del mattino, diciamo di un venerdì a Birmingham, nell’Inghilterra centrale dove ho lavorato per un certo periodo in un hotel. Il fatto che sia venerdì comporta una lunga serie di problemi. Primo fra tutti che mi arriveranno merci in quantità tripla perché sabato e domenica non si fanno consegne. So già che appena entrato in cucina troverò una decina di casse di polistirolo contenenti sei o sette qualità di pesci, branzini, orate, alici, cernie, salmoni e tonni, tutti da pulire, una cassa di cozze, una di vongole e svariati tipi di molluschi per la pasta e l’insalata di mare.

Poi in rapida successione arriveranno il macellaio e due fornitori di frutta e verdura per un totale di una trentina di casse per cui, il ragazzo addetto alle celle frigorifere, verrà “murato vivo” tra la dispensa e l’ingresso delle celle e potrà rivedere la luce solo dopo aver stivato tutto quanto in bell’ordine. Spesso, appena finito, viene rimurato dal lattaio che scarica casse di latte, panna, cartoni di uova, formaggi e salumi. Esco di casa e mi avvio alla fermata dell’autobus.

Mentre aspetto sotto la pioggia tento di organizzare mentalmente la giornata, ma so già che sarà difficile perché il venerdì e il sabato sera sono notoriamente serate campali, nelle quali registriamo il tutto esaurito nelle prenotazioni dei tavoli. In più, appena arrivato, scopro anche un discreto numero di prenotazioni per pranzo. Alle otto e mezza del mattino la cucina è già a pieno regime.

Il pasticcere, lo chef panettiere e il pastaio stanno trasformando elementi banali quali farina, zucchero e uova in croccanti focacce, tenere baguettes, biscotti al cioccolato, semifreddi, ravioli e tortellini. Gli addetti alle preparazioni tagliano, affettano, arrostiscono, preparano salse, sughi e condimenti mentre io tento di districarmi tra fornitori, camerieri che chiedono spiegazioni su un piatto nuovo, baristi che chiedono stuzzichini, telefonate e clienti che vogliono organizzare pranzi e cene. Il tutto quasi mai in vero inglese, ma nelle ormai incalcolabili diverse inflessioni che vanno dall’inglese preistorico del lavapiatti che è di Nottingham allo Spanglish dei latini, al Pakinglish della nutrita comunità Pakistana.

Il burro, ad esempio, è chiamato bàtter dagli Italiani, bèdda o bàdda dagli orientali, bàda dai cinesi, buder dagli est europei e via così. Intanto il pasticcere si lamenta perché non ha abbastanza uova mentre in breve è mezzogiorno e arrivano i primi clienti. Il ritmo di lavoro sale, si urla, si sbraita, ci si dà il tempo, io ho una marinata di cozze e una zuppa di pesce che devono essere servite con delle fette di pane arrostite all’aglio e nessuno ha tempo di farle. Io mi arrabbio, urlo, offendo il mio aiutante e alla fine lo minaccio se non prepara il pane entro dieci secondi. Le ordinazioni si susseguono implacabili, tutti urlano con tutti, in un clima da ottava bolgia dantesca. Gli ultimi clienti se ne vanno alle tre del pomeriggio e hanno consumato una marea di preparazioni per cui faccio un pisolino di mezz’ora su un mucchio di tovaglie sporche e sono di nuovo al lavoro.

Il maitre di sala mi comunica un numero impressionante di prenotazioni per la serata e io sono già a pezzi. Il servizio serale è un sabba infernale, una rumba indiavolata di streghe e folletti maligni travestiti da clienti, arrivano ordinazioni per cinque, otto diciotto, venticinque persone che vogliono mangiare e se ne fregano che tu sei più cotto del carrè di agnello che stai tagliando perché pagano e non vogliono aspettare. Ma i ragazzi resistono bene, i piatti escono dalla cucina a buon ritmo e in qualche modo anche per stasera è finita. Possiamo mettere via gli avanzi, pulire tutto e andare a berci una birra al pub. E domani si ricomincia.

E’ una vita errabonda fatta di relazioni instabili, eccessi di tutti i generi, sregolata e caotica. I cuochi che si sposano rendono la moglie vedova prima del tempo perché hanno orari assurdi, non sono mai a casa e quando ci sono hanno la testa e i sentimenti altrove. La vera famiglia degli chef è la brigata di cucina, con cui passano la maggior parte del tempo. Io conoscevo molto meglio il mio aiutante di cucina che mia moglie.

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E’ una vita che deve piacere. A me, piaceva. Cosa mi sono lasciato alle spalle? Adesso che sono passati molti anni da che ho dovuto lasciare il lavoro e posso guardare indietro nel tempo con maggiore serenità, mi pare di capire che mi sono lasciato alle spalle il periodo più folle della mia vita. Fu un periodo durato vent’anni talmente frenetico da sembrare una comica alla Buster Keaton. Vedo me stesso correre in mezzo a sacchi di farina che esplodono, torte che volano, fiamme che avvampano in ogni direzione, eccomi a Londra, a Parigi, a New York divorato dall’ansia di divorarmi la vita, ma senza sentirne il gusto.

Ero nel mezzo di un ciclone che io stesso avevo creato e tutto mi girava attorno in un tumulto esasperato che non faceva che accrescere l’ansia in un crescendo senza fine. Invece finì e nel peggiore dei modi.

Come trascorri ora le tue giornate?

Sicuramente con più tranquillità rispetto al passato. Mi sveglio presto, circondato dalla bellezza della natura. Ogni giorno è un giorno nuovo, che divido tra la pesca, la cura dell’orto, la raccolta dei funghi e dei frutti di bosco.

Ti manca qualcosa della città?

No, non mi manca assolutamente nulla. Ultimamente mi capitava sempre più spesso con amici e conoscenti, di parlare sempre e solo del passato. Avevo perso tutti gli stimoli. Non guardavo più al futuro. Mi stavo spegnendo. Così ho preso un cane, ho venduto la mia casa di Milano e mi sono trasferito qui in montagna, dove tutto è cambiato in meglio.

Dalla vita frenetica a quella in solitaria. Come e in cosa sei cambiato?

Sinceramente io mi reputo da sempre un solitario obbligato ad avere rapporti sociali. Vivere qui non mi ha cambiato. Sono rimasto sempre lo stesso. E’ cambiato tutto il resto. Ora posso finalmente dire di essere felice.

poetadelleneide@virgilio.it