Migliorare cambiando: la storia di Sergio

Sergio Troisi, classe 1970, nato a Trapani ci racconta una storia in cui il cambiamento sembra essere una costante. Aiutato certo da un’indole curiosa e da una tendenza a considerare come opportunità ciò che si presenta come sconosciuto. La sua è una storia in cui espatriare è servito anche a rimettere in discussione tutto sé stesso, e a fargli considerare il proprio paese in modo diverso. “Credo di essere molto testardo – ci dice – quando sono profondamente convinto di una cosa, ma, al contempo, molto tollerante. Però se mi accorgo che si sta abusando di questa tolleranza e della pazienza che l’accompagna, allora reagisco. E lo faccio sia se sono coinvolto in prima persona sia se sono coinvolti altri. Ad essere eccessivamente tolleranti e pazienti ci rimette l’individuo e la società intera: due concetti strettamente correlati. Per questo bisogna avere rispetto e cura per entrambi. Le scelte che fai come individuo ricadono sempre sulla società; anche i tuoi tentativi di migliorare e cambiare. E io la mia vita l’ho cambiata, per non dire stravolta, molte volte.”

Sergio Troisi migliorare

Raccontaci di questi cambiamenti.

Ogni volta che cominciavo a sentire che le cose intorno a me mi stavano diventando strette sentivo anche l’esigenza di cambiare aria. E ogni volta l’incertezza per quello che sarebbe accaduto non mi ha mai fatto paura. Anzi, l’incertezza diventava motivo di curiosità e nuovo entusiasmo. Un po’ come quando stai per tuffarti da uno scoglio molto alto: le emozioni positive legate al salto sono sempre state di intensità superiore alla paura.

Il posto in cui sei nato, l’ambiente familiare in cui sei cresciuto hanno avuto una certa influenza sul tuo desiderio di “buttarti”?

Forse sì. Io vengo da una famiglia abbastanza conservatrice, con schemi piuttosto rigidi e non poche contraddizioni. E forse il primo salto è stato quello necessario per tirarmi fuori proprio da quegli schemi e costruirmi una corazza per difendermi dalle critiche che sempre accompagnano scelte ritenute eccentriche. È un lavoro su sé stessi quello che si deve fare e non avviene in un istante ma ci vuole tempo. E richiede anche molte energie: quelle che servono a convincere gli altri e che potrebbero essere usate in modo diverso se, invece, si avessero attorno degli alleati. Però, in fondo, di energie ne restano lo stesso, energie pulite e rinnovabili direi. Ci vuole determinazione e consapevolezza di sé e del mondo.

Quali sono queste scelte eccentriche di cui parli?

Mah, per esempio lasciar passare quattro anni dalla maturità prima di iscrivermi all’università (sono laureato in ingegneria elettronica) o licenziarmi da due grosse aziende in cui avevo un lavoro sicuro. E una di queste due aziende era l’Alitalia. E partire da solo per Londra per imparare l’inglese, senza conoscere nessuno e avendo, come unica certezza, un posto in un ostello prenotato solo il giorno prima di partire. Eppure non ho mai pensato che la mia vita sia stata faticosa o difficile perché, essendo un inguaribile ottimista, ho sempre vissuto tutti gli eventi come uno stimolo.

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Raccontaci un po’ di questa tua esperienza londinese. Cosa facevi?

Ho fatto il lavapiatti, il glass collector in un pub, il cameriere, il tecnico di biglietterie automatiche, il tecnico di lavatrici industriali. E poi finalmente sono stato assunto come ingegnere in una ditta che costruisce treni. E dico finalmente non certo per mettere in discussione la dignità dei lavori precedenti ma solo perché mi si addice di più. Ma devo dire che c’è sempre stato qualcosa di positivo nei lavori che ho fatto prima e anche nella ricerca stessa di quei lavori. Essere soli e cercare di cavarsela in un paese di cui non si conosce la lingua è un’esperienza forte che ti aiuta a crescere e a fare un viaggio di scoperta in te stesso.

Ma a Londra quello che facevi non era eccentrico.

Londra è piena di persone che vengono da ogni parte del mondo e che vivono queste stesse esperienze. Quindi qui era normale ciò che, per esempio, agli occhi di qualche mio compaesano poteva sembrare folle.

Cosa cercavi e cosa trovavi nei lavori che facevi i primi tempi?

Cercavo il sostentamento e un continuo miglioramento, anche semplice. Fare il cameriere era meglio che fare il lavapiatti, aggiustare lavatrici era meglio che fare il cameriere. E qui voglio spezzare una lancia in favore dei camerieri che fanno un lavoro durissimo, usurante e che, in alcune condizioni rasenta davvero la schiavitù. Certo è stato bello e importante ad un certo punto poter fare l’igegnere all’interno di un’azienda che mi ha anche fatto crescere professionalmente. Anche se il mio scopo non è mai stato quello della carriera, ma quello di fare qualcosa che mi piacesse e per cui alzarsi la mattina non fosse una tortura. Cambiare per me è sempre stato assecondare lo stimolo di una ricerca. Nell’azienda per cui lavoro attualmente ho avuto la fortuna di incontrare ottimi manager che hanno apprezzato oltre alla mia professionalità, anche il mio atteggiamento nei confronti della vita, dandomi molti riconoscimenti senza che io li chiedessi. Eppure non mi bastava neanche quello.

Come non ti bastava? E quindi?

Nonostante mi trovassi bene, un paio d’anni fa ho dato le dimissioni. Volevo tornare in Italia. L’azienda ha accettato ma mi ha comunque proposto una consulenza per seguire due progetti importanti. Questo è il motivo per cui continuo ad andare spessissimo a Londra.

Ma perché hai voluto tornare in Italia?

Mettiamola così: la mia terra, la Sicilia ha tante qualità e potenzialità. Molte di queste sono sfruttate dalla mafia, ma moltissime sono ancora lì, a disposizione della parte onesta della popolazione. E vorrei fare qualcosa per questo. Sembra strano, ma ho capito solo stando all’estero alcune cose che riguardano l’Italia. E, forse sono folle, ho pensato che volevo far qualcosa per migliorarla.

Eppure Londra ti ha dato tantissimo

Londra è una città bellissima, davvero multiculturale; una città in cui tutti, dopo le normali difficoltà iniziali, riescono a trovare una loro dimensione. Le istituzioni nel Regno Unito funzionano molto bene e non credo di andare molto lontano dal vero se dico che vivere qui è, in un certo senso, meno complicato. Se perdi il lavoro è lo stesso governo che ti aiuta a trovarne un altro e ti paga il sussidio. Qui hai la sensazione che i soldi siano davvero uno strumento per gestire le attività sociali. Ma attenzione a pensare che sia tutto oro, che all’estero sia tutto perfetto. E l’Inghilterra non è un paese perfetto. Se sei cittadino del suo regno puoi cavartela, ma l’atteggiamento che hanno avuto nei confronti di alcuni paesi stranieri è stato abbastanza discutibile. Anche la storia recente lo dimostra.

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Sembra quasi che tu abbia avuto una crisi di coscienza

Forse. Mi sono limitato a fare alcune considerazioni e sono arrivato a capire che la malapolitica c’è dovunque, che forse bisogna iniziare a parlare in termini di cittadinanza e non di stati. Il potere è in mano a pochissime persone che se lo tengono stretto anche con guerre e violenza. E anche il Regno Unito non è esente da alcune di queste guerre. In un certo senso la sua, chiamiamola prosperità, è stata ottenuta a discapito di altri paesi più poveri. Insomma è un discorso complicato. Ho solo pensato che continuare a criticare, anche giustamente l’Italia, stando in un paese che non è certo perfetto, fosse un po’ contraddittorio. Almeno per me. Questo non significa che non sia disposto a continuare a girare il mondo e ad andare dove ci sarà da lavorare. Ma lo farò con un altro spirito e con alcune idee che vorrei realizzare in Sicilia, con alcuni amici. Sono convinto che l’unica alternativa è creare delle alternative e questo lo possiamo fare solo noi, in qualunque posto sid vada a vivere, e non i politici.

Come diceva Richard Buckminster Fuller: “Non cambierai mai le cose combattendo la realta’ esistente. Per cambiare qualcosa, costruisci un modello nuovo che renda la realta’ obsoleta”.

Per scrivere a Sergio:

sergio.troisi.3@gmail.com

A cura di Geraldine Meyer