Rossella: vivo in Angola e ogni giorno mi rendo conto di quanto sono fortunata
A cura di Maricla Pannocchia
Rosella, originaria del Trentino, si è sempre affidata al destino, che l’ha portata in Angola e le ha permesso di stravolgere la sua vita. Tutto è iniziato quando la donna ha fatto domanda per svolgere il Servizio Civile e ha passato del tempo in Uganda. Prima, già faceva volontariato per diversi mesi l’anno in Paesi africani, mentre, nel restante periodo, lavorava nell’azienda di famiglia.
“Ho sempre fatto tutto ciò che gli altri si aspettavano da me” ricorda Rossella, “E, a un certo punto, qualcosa ha fatto si è incrinato. Mi sono ascoltata, ho seguito le farfalle nello stomaco e ho deciso di cambiare la mia vita.” All’inizio, i suoi cari non la capivano ma, adesso, la sostengono con amore.
Nonostante senta la mancanza della sua famiglia e degli amici, Rossella è felicissima del suo lavoro, al quale è arrivata dopo una laurea in scienze e tecnologie biomolecolari e dopo 6 anni trascorsi a lavorare nella ditta di famiglia. “In Angola, abbiamo a che fare ogni giorno con persone che muoiono letteralmente di fame” racconta Rossella, “Io non svolgo un lavoro a diretto contatto con loro ma basta poco per incontrare persone che non hanno assolutamente niente. Questo mi rende grata per tutto quello che ho, a cominciare dal cibo nel piatto.”
Rossella non sa se, in futuro, continuerà a lavorare come cooperante, e non le dispiacerebbe creare una cooperativa artigianale tramite la quale dare lavoro a donne vittime di violenze e difficoltà di vario tipo, “Del resto, se posso fare qualcosa, lo faccio. Forse non cambieremo il mondo ma, aiutando una persona alla volta, presto aiuteremo tante persone e, prima o poi, qualcosa accadrà.”
Ciao Rossella, raccontaci qualcosa di te. Chi sei, da dove vieni…
Ciao, mi chiamo Rossella, ho 33 anni e sono originaria della Val di Non, in Trentino.
Adesso sei cooperante nel sud dell’Angola per Medici con l’Africa CUAMM. Puoi raccontarci di più su quest’associazione?
Il CUAMM è una delle più grandi ONG italiane, fra quelle che lavorano in campo sanitario a sostegno delle popolazioni africane. La ONG ha sede a Padova e, dal 1950, manda personale specializzato in Africa, a supporto delle comunità più bisognose. Quasi tutti gli italiani che partono con il CUAMM sono sanitari (medici, infermieri, ostetriche…) ma ci sono anche altre figure di rilevante importanza come amministratori, project managers e logisti. Il punto chiave, che distingue il CUAMM da molte altre realtà, è il suo voler lavorare con l’Africa e non “per” l’Africa. I teams di persone in loco sono composti soprattutto da personale locale, che viene poi affiancato e guidato da personale espatriato.
Il CUAMM è in Angola dal 1997 e, dal 2000, sostiene un piccolo ospedale missionario in una zona rurale, nel sud del Paese, nella regione del Cunene. Per molti anni l’intervento si è “limitato” all’ospedale ma poi, a un certo punto, è stato deciso di guardare oltre a quel muro e allargare l’intervento ai vari villaggi del territorio. Ogni anno vengono scritti dei progetti e cercati i fondi necessari per portare avanti, su vari fronti, i vari interventi di aiuto e supporto.
Di cosa ti occupi al suo interno?
Io sono partita con loro a inizio febbraio 2023 e mi occupo di gestire l’implementazione di due progetti di sanità pubblica sul territorio, a tutela della salute materno- infantile. A livello tecnico, io lavoro come project manager, ovvero come coordinatrice di progetto, e sono responsabile di gestire un’equipe di personale locale, seguire lo svolgimento delle attività di progetto e rendicontare, poi, mensilmente, quanto svolto. Paroloni a parte, provo a spiegarlo in modo semplice. Io mi occupo di gestire attività di salute pubblica a supporto di comunità vulnerabili nel Sud dell’Angola, in due provincie diverse, Il Cunene e il Namibe, che distano circa 6 ore di macchina l’una dall’altra. Sono due posti molto diversi tra loro, geograficamente lontani, con popolazioni diverse, culture diverse, problematiche e difficoltà diverse… All’inizio non è stato facile, e spesso non lo è nemmeno ora, ma gli stimoli sono molti e la soddisfazione è enorme. Le attività a supporto delle comunità sono molte e avvengono con cadenza abbastanza regolare. Ogni mese si svolgono le “brigate mobili”, ovvero gruppi d’infermieri che vanno sul territorio, raggiungono le popolazioni che vivono in zone remote e con scarsa possibilità di accesso alle cure, e svolgono attività come: screening nutrizionale di bambini 6-59 mesi al fine di valutare il loro stato di (mal)nutrizione; visite di controllo a donne incinte e vaccinazioni di routine. Tutti ricevono un antiparassitario e le donne incinte, oltre a quello, ricevono pure i farmaci base come l’acido folico, il ferro e la profilassi per la malaria. Ogni mese avvengono 35 uscite, suddivise in 3 municipi, al fine di coprire (supportare) 35 villaggi diversi con cadenza mensile. Un’altra attività, sempre legata alla nutrizione, è la supervisione delle unità sanitarie, per valutare le condizioni della struttura e quelle del personale che ci lavora. Queste uscite sono svolte assieme alle autorità locali di competenza e prevedono anche una formazione costante “on the job”. Ci sono poi attività come dimostrazioni culinarie e distribuzione di kit alimentari. Il fine è insegnare alle famiglie come preparare un piatto nutriente con le poche cose che hanno a disposizione. In tutto questo parlare ho scordato di dire che il Sud dell’Angola purtroppo è caratterizzato dalla fame e da un tasso di malnutrizione infantile davvero elevato. Piove poco (e nei periodi sbagliati), i raccolti sono molto scarsi e la gente ha fame. Il CUAMM ha come focus principale la salute materno infantile, con un’attenzione particolare sulla nutrizione. Si cerca di supportare la popolazione agendo, appunto, su più fronti: supporto all’ospedale e alle unità sanitarie periferiche, supporto diretto alle popolazione e supporto alle autorità locali, in modo che loro stesse siano in prima linea nella lotta alla fame.
Come sei finita proprio nel Sud dell’Angola?
Sinceramente, è stato un caso! È stato il salto nel vuoto più grande che io abbia mai fatto. A giugno 2022, mentre ero in Uganda con un’altra organizzazione, sono stata contattata dal CUAMM tramite LinkedIn e nulla si è mosso fino al mio rientro in Italia. A settembre 2022 ho fatto (e superato) la prima fase di selezione e a ottobre mi è stato proposto come Paese di destinazione l’Angola. Sapevo che il CUAMM lavorava in 8 Paesi africani, di cui alcuni anglofoni, e davo per scontato che mi avrebbero proposto uno di quelli. Invece no, mi hanno proposto l’Angola, Paese lusofono che a malapena sapevo localizzare geograficamente. E nulla, ho deciso di seguire l’istinto! Mi sono iscritta a un corso di portoghese e ho accettato la proposta di lavoro. A febbraio 2023, dopo 3 mesi (sembrati anni) in attesa del visto, sono partita per l’Angola: Paese nuovo, organizzazione nuova, lingua nuova e settore di lavoro nuovo… un bel salto nel vuoto, accompagnato da un’inspiegabile fiducia nel destino, e nel fatto che tutto sarebbe andato bene!
Puoi descrivere la situazione quotidiana delle persone che vivono lì?
Domanda difficile. L’Angola è il Paese dei mille contrasti. La capitale, Luanda, è stata fino a poco tempo fa tra le città più ricche al mondo mentre le persone che abitano in zone rurali non hanno nemmeno accesso all’acqua. Il Sud dell’Angola è conosciuto per la fame e la siccità. Anche al sud si nota la differenza tra chi vive in città/paese e chi vive nel villaggio ma il divario non è così ampio. Come ho scritto sopra, provincie diverse, culture diverse, ma alla fine i problemi principali e le necessità di base sono le stesse: mancato/scarso accesso all’acqua, al cibo, ai servizi sanitari, all’educazione… Sono culture dure, molto difficili da capire e ancor più da accettare. Bisogna entrare nella vita di queste popolazioni in punta di piedi, senza far troppo rumore, e osservare, sforzandosi di non giudicare. Resilienza, questa è sicuramente una delle parole simbolo di queste persone. Vivono in condizioni di estrema povertà, senza corrente, senza acqua, senza cure mediche. La donna regge sulle sue spalle il peso di tutta la famiglia: si occupa della casa, dei figli, dell’orto e dei piccoli animali, come capre o galline. Le donne cercano di portare qualcosa a casa ogni giorno, coltivando un piccolo orto o commerciando qualcosa al mercato. Le bambine aiutano in casa mentre i bambini si occupano del bestiame.
Com’è, invece, una tua giornata tipo?
Altra domanda difficile! Non ho esattamente una giornata tipo ma posso dire che, purtroppo, passo molto tempo in ufficio, davanti al computer o al telefono. Lo staff locale è sempre in prima linea, si occupa in concreto d’implementare le attività e supportare concretamente i beneficiari. Io, invece, sono dietro le quinte, impegnata a tirare i fili, pianificare, rendicontare, mantenere contatti… Ho al mio fianco due assistenti di progetto, uno per provincia, con cui comunico quasi quotidianamente al fine di pianificare le varie uscite sul territorio, incastrando le varie attività. Le risorse umane sono poche, i fondi ridotti e le cose da fare moltissime! Quindi, ecco, posso dire che Google Drive ed Excel sono i miei fedeli compagni d’avventura. Ogni tanto, però, quando sono un po’ giù e inizio a interrogarmi su questa scelta di vita, lascio la scrivania ed esco sul terreno con l’equipe… e tutto passa! Ricordo perché io abbia scelto di fare ciò che faccio, quanto mi faccia stare bene, quanto bene io possa fare giorno dopo giorno…. E questo mi basta! Mi viene la pelle d’oca, mi si apre una voragine nel petto e spesso mi commuovo proprio. Per me la questione è davvero semplice: ho la possibilità e la forza di fare la differenza nella vita di qualcuno e quindi, semplicemente, la faccio, perché non potrei fare altrimenti.
Che percorso di studi è necessario fare per lavorare come cooperante per le organizzazioni?
Non saprei dirlo con precisione. Non voglio fingermi un’esperta in materia. Io ho una laurea triennale in scienze e tecnologie biomolecolari, ho lavorato tre mesi in un laboratorio, ho iniziato una triennale in lingue che ho mollato dopo 8 mesi e ho lavorato poi nella ditta di famiglia per 6 anni. Non ho un percorso di studi lineare e nemmeno una carriera sempre nello stesso settore. A 23 anni, non sapendo bene che direzione dare alla mia vita, ho iniziato a fare 6/8 settimane di volontariato l’anno in Africa (prima in Kenya, poi in Uganda), lavorando nella ditta di famiglia per il resto dell’anno. E così ho fatto per 6 anni fino a quando la bilancia non si è sbilanciata! Ho fatto domanda per il Servizio Civile, ho passato le selezioni e ho trascorso il mio primo anno di lavoro in Uganda, nella regione del Karamoja, con una piccola ONG piacentina. Da lì in poi è stato un susseguirsi di opportunità, dettate da una fede incrollabile nel destino e dalla voglia d’inseguire un sogno.
Che consigli daresti ad altre persone che aspirano a farlo?
Senza dubbio posso dire che il Servizio Civile è un ottimo punto di partenza per entrare nel settore e che i fatti valgono più di mille parole. Bisogna aver voglia d’imparare, di mettersi in gioco e di sporcarsi le mani. Gli studi sono importanti, certo, ma mai come la passione e la determinazione. Io non avevo studi in itinere ma avevo una gran passione che mi bruciava dentro e una gran voglia d’imparare. Logistica, management, amministrazione e gestione personale li avevo imparati a casa, in ditta. Ho dovuto solo trasformarli e adattarli al nuovo contesto di lavoro. La gavetta, purtroppo, non ce la toglie nessuno ma credere nei propri sogni e lottare per sé stessi con le unghie e con i denti non è mai sbagliato. Bisogna credere in noi stessi e in ciò che si fa! Io credo fermamente nel “puoi riuscirci se lo vuoi”, perché è proprio così che sono arrivata dove sono. Credeteci e non mollate mai. Cadete, riposate, e poi via, di nuovo in piedi, pronti a camminare. L’importante non è avere chiaro il proprio futuro (e chi ce l’ha, per davvero?), l’importante è muovere il primo passo, poi il secondo e anche il terzo… L’importante è guardarsi dentro, ascoltarsi e seguire l’istinto più vero e naturale che ci contraddistingue, perché la motivazione è tutto. Mi sono sentita dare della pazza e pure della incosciente. Mi hanno chiesto cosa mi mancasse, visto che avevo una casa, una macchina e un indeterminato. Mi hanno chiesto come potessi lasciare l’azienda di famiglia visto che rappresento la quinta generazione. Mi hanno fatta sentire sbagliata, in molti modi e momenti diversi, fino a quando ho smesso di lasciare questo potere al prossimo. Sono felice delle mie scelte, felice di ciò che faccio, e ne sono pure orgogliosa. Se a qualcuno non sta bene, beh, non è un problema mio.
Come funziona per l’alloggio? In che tipo di abitazione vivi? L’hai trovata tu o ci ha pensato l’associazione?
Nel mio caso, l’alloggio è fornito dall’associazione. Nella provincia in cui passo circa 20 giorni il mese, il Cunene, gli espatriati vivono tutti assieme all’interno dello stesso compound. Ci sono 7 casette e io ho un appartamento tutto mio: ho la mia privacy e quando voglio stare da sola lo posso fare ma, allo stesso tempo, posso andare dai vicini a bere un caffè o a fare due chiacchiere. Una volta a settimana c’è la serata pizza tutti assieme e ogni tanto la serata cinema. Abitiamo nel nulla più assoluto, quindi, fuori casa o si lavora o si passeggia nel nulla. Nell’altra provincia, invece, vivo in ufficio. Ci sto una decina di giorni al mese, quindi, ho trasformato una stanza in camera da letto. La cucina è in comune con gli altri colleghi e la privacy è un optional ma ci si adatta a tutto! Il weekend in genere non si lavora quindi il team locale non passa in ufficio e io ho un po’ di tranquillità.
Lavori con membri dello staff provenienti da tutto il mondo?
In questo momento no. Lavoro con Italiani e angolani. Per lavoro però devo scrivere anche alcuni report in inglese quindi il mio cervello funziona ormai in tre lingue e, quando sono stanca, esce un bel mix.
Quali sono le parti più difficili del tuo lavoro?
La lontananza da casa, senza dubbio. Faccio un lavoro che adoro e mi sento molto fortunata di essere arrivata dove sono ora ma stare lontana da casa è difficile. Non sempre chi resta capisce quanto per me sia difficile partire ogni volta e salutare tutto e tutti. Il cambiamento è destabilizzante, un mix di gioia e tristezza difficile da descrivere. Un’altra difficoltà, a volte, è la solitudine. Facendo questo lavoro devi essere sempre pronta al cambiamento: cambiano i posti e cambiano pure le persone. Percorri un pezzo di strada con qualcuno e poi ognuno continua il proprio cammino. Ti affezioni a qualcuno e poi continui la tua vita. Manca un po’ una presenza fissa con cui confrontarsi. Ho delle carissime amiche in Italia, che sento spesso, ma facciamo vite molto diverse e io a volte faccio davvero fatica a far capire ciò che vivo, vedo e provo.
Riguardo all’esperienza lavorativa presente, trovo molto difficile aver a che fare tutti i giorni con la malnutrizione. Ogni giorno, comunque, ti senti bianco e privilegiato. Hai una casa accogliente, hai cibo in tavola e acqua per lavarti. E di fronte a te c’è l’ospedale. E fuori dall’ospedale ci sono persone che soffrono la fame. Non è facile capire che devi prenderti cura di te, prima di poter aiutare qualcun altro. Non è facile riuscire a mangiare quando, fuori, le persone muoiono di fame. Tutto ha un altro valore, ogni piatto di riso e ogni bicchier d’acqua. Impari a mangiare bene, in modo semplice, e impari a lavarti i denti con un bicchier d’acqua. Quando sono sulla costa, in Namibe, manca spesso la corrente, e un paio di giorni alla settimana pure l’acqua… invece che scocciarti per quando non le hai, inizi a essere grato per quando, invece, ci sono.
E quali le maggiori soddisfazioni che hai avuto finora?
Aiutare qualcuno a crescere, a livello personale e professionale. Il mio lavoro ha come obiettivo quello di aiutare donne e bambini ma, come scritto sopra, il lavoro concreto, in prima linea, lo fanno i miei colleghi locali, e i risultati non sono comunque mai immediati. Personalmente, io credo molto nella formazione delle persone e cerco, quindi, d’insegnare e trasmettere tutto ciò che so (e che sono). Alcuni colleghi, in questi mesi trascorsi assieme, sono cresciuti molto, e questo mi rende davvero molto felice.
Vivi in una zona in cui raramente prende il telefono. Che impatto ha questo, sia in positivo sia in negativo, sulla tua vita quotidiana?
Sinceramente, non so bene come rispondere perché non so bene come mi sento al riguardo. Diciamo che fa parte del pacchetto e mi ci sono abituata. Non sono mai stata dipendente dai social, anzi, ma ho iniziato a usare i social per far conoscere un po’ di ciò che faccio, e rompere qualche stereotipo. Spesso cammino e mando messaggi vocali, che poi s’inviano appena c’è rete. A livello lavorativo è molto stressante. Gran parte del mio lavoro si svolge al computer e, per questo motivo, ho bisogno di Internet. In ufficio, per fortuna, abbiamo un WiFi che funziona alla grande e questo mi permette di lavorare bene, almeno per la maggior parte del tempo… quando non prende, tuttavia, è un disagio. Dove vivo, invece, è diverso, il telefono prende davvero poco, e a volte la cosa m’infastidisce. Quando abitavo in Italia mi piaceva fare pilates seguendo video su YouTube, fare corsi di lingua o di hobbistica, o, semplicemente, ascoltare dei podcast….ma qui sono cose pressoché impossibili da fare. A volte staccare dal lavoro sarebbe utile, per recuperare un po’ il proprio centro e la propria serenità interiore e, vivendo in mezzo al nulla, senza possibilità di fare un aperitivo o andare al cinema, avere una buona connessione Internet sarebbe utile.
Hai avuto modo di vedere altri luoghi dell’Angola?
Sì e, per ora, ne sono rimasta affascinata! È un Paese davvero poco conosciuto, e, quindi, poco turistico, ma ha molte bellezze naturali da offrire. Ho girato molto il Sud dell’Angola, soprattutto le provincie di Huila e Namibe. Chilometri e chilometri di strada nel deserto, senza nulla all’orizzonte, dune di sabbia, piante preistoriche (Welwitschia Mirabilis), spiagge da sogno e acqua cristallina. Il lavoro è psicologicamente duro e avere la possibilità di staccare e ricaricare le energie, ogni tanto, è importante.
Quali sono, secondo te, i pregiudizi più diffusi su questo Paese?
Sinceramente, non lo so! Non so nemmeno se ne esistano, di pregiudizi, sull’Angola. Sull’Africa in generale, ovviamente, sì, ma sull’Angola non saprei. Come dicevo prima, è un Paese poco conosciuto, poco turistico, di cui pochi parlano, che non si fa molto notare.
Come hanno reagito amici, parenti e conoscenti davanti alla tua scelta?
Ahi, tasto dolente! Inizierei con il dire che tutto è bene ciò che finisce bene! Sono nata e cresciuta in un piccolo paesino in mezzo alle montagne e ho sempre fatto ciò che la società si aspetta da una brava ragazza. Tutto secondo le aspettative altrui, senza mai chiedermi cosa volessi io. Nel 2023, per diverse ragioni, qualcosa si è incrinato e la mia vita è cambiata. Ho iniziato a lavorare su me stessa e a seguire, anche se a fatica, ciò che sentivo dentro. All’inizio quasi nessuno ha capito il motivo della mia scelta, e perché per me fosse così importante fare ciò che stavo facendo, ma ora è tutto diverso. Sono circondata da persone stupende, che mi appoggiano e sono felici per me. Quando cominci a vivere in sintonia con ciò che sei, e ad amare ciò che fai, le persone giuste restano al tuo fianco.
Come ti sei organizzata prima della partenza?
A questa domanda davvero non so rispondere. Posso solo dire che i cambiamenti sono sempre destabilizzanti e che, quando inizi a viaggiare e lavorare all’estero, ti ritrovi con pezzi di cuore sparsi in giro per il mondo. Tristezza e felicità sono sempre ben ingarbugliate e ciò che ne esce è un insieme di emozioni confuse.
Ti sei mai sentita in pericolo?
Sinceramente no.
Ci sono mai stati momenti in cui hai pensato di aver fatto un errore colossale a compiere quella scelta?
Assolutamente no, mai pensato alle parole “errore colossale”. Mi chiedo spesso dove riesca a trovare il coraggio di fare ciò che faccio, questo sì. Come dicevo prima, stare lontana da casa è molto difficile e, a volte, questo pesa moltissimo e mi fa mettere un po’ in dubbio la mia scelta di vita. È, tuttavia, una questione di scelte, di pesi sulla bilancia, come dico io. Se fossi a casa avrei gli affetti vicino ma non sarei felice, perché non starei facendo il lavoro che adoro.
Quali caratteristiche personali è necessario avere, o sviluppare, per lavorare come cooperante?
Riprendo la frase scritta sopra, “volere è potere”. Mettersi in gioco, con molta voglia d’imparare e crescere, sono aspetti base. Bisogna essere disposti ad ascoltare, osservare e pazientare. È importante non giudicare ma mettersi sempre in discussione, perché dal confronto nasce sempre qualcosa di nuovo. Parlando di soft skills, sicuramente mediazione dei conflitti e team work sono indispensabili, conditi da un po’ di leadership.
Dov’è possibile trovare annunci per queste posizioni?
Ci sono parecchi siti per la ricerca del lavoro, alcuni tra i più conosciuti sono: Job4good, Lavorare nel Mondo e InfoCooperazione. Ci sono poi i siti delle singole ONG, dove vengono pubblicati puntualmente gli annunci di lavoro.
È necessario conoscere bene la lingua inglese?
L’inglese, nel mondo della cooperazione, è una lingua ormai data quasi per scontata. L’inglese serve sempre ma possono servire pure francese e portoghese, in base al Paese di destinazione. Io lavoro in Angola e ogni giorno parlo inglese, portoghese e italiano.
Ti piacerebbe lavorare come cooperante in qualche altro Paese? Se sì, quale e perché?
Direi di sì! Mi sembra di aver iniziato questo lavoro giusto ieri e il mondo è davvero grande. Ogni nuovo inizio spaventa ma, allo stesso tempo, è molto stimolante. Non voglio fare troppi progetti ma fidarmi ciecamente del destino, come ho fatto finora. Mai avrei pensato di lavorare in Angola. Mai mi sarei immaginata qui, a gestire un progetto di salute pubblica diviso su due provincie, lavorando ogni giorno in tre lingue. E invece sono qui, ed è bellissimo. Il prossimo passo? Mozambico, Tanzania, Sud Italia… chissà!
Pensi di fare questo lavoro “a vita”?
Sinceramente non lo so. Adoro quello che faccio ma richiede anche molti compromessi e un forte spirito di adattamento. Magari continuerò a farlo, ma in Italia. O magari farò altro. Un mio grande sogno sarebbe quello di unire il sostegno a donne vulnerabili (vittime di violenza, di tratta, richiedenti asilo…) e l’artigianato. Mi piacerebbe lavorare in una cooperativa, o magari aprirne una, chissà, per valorizzare l’artigianato di qualità.
Puoi raccontarci un paio d’incontri che non dimenticherai mai?
Il “mai” è una parola decisamente importante, e questo non lo posso promettere. Tuttavia, d’incontri che toccano il cuore ne ho fatti tanti. Vivo in una zona dove le persone muoiono davvero di fame. Ogni giorno la fame è lì, davanti ai miei occhi, a ricordarmi quanto sono stata fortunata a nascere nella parte “giusta” del mondo, a ricordarmi quanti privilegi ho in quanto donna bianca e che ho l’obbligo di fare tutto ciò che posso. La soluzione a breve termine di solito non è la soluzione. Come cooperante cerco di combattere l’immagine stereotipata dell’Uomo bianco visto come bancomat, che distribuisce soldi, cibo e vestiti, perché non è educativa. Appoggio in pieno lo spirito dell’organizzazione con cui sono partita, che promuove il lavorare CON l’Africa, e non PER l’Africa, vittimizzando e sminuendo il popolo africano. Ci sono anche delle eccezioni. La maggior parte del tempo vivo di fronte a un ospedale, l’ospedale della missione cattolica di Chiulo. Dopo il lavoro, quando ne ho voglia, vado a passeggiare un po’, e rientro quando ormai è già buio. Una sera, davanti al cancello, ho trovato due sorelle, di circa 6 e 10 anni. Mi hanno detto di avere la mamma ricoverata in ospedale e che non mangiavano da due giorni. Quegli occhi mi hanno scavato dentro. Di solito non diamo cibo ai pazienti dell’ospedale, perché non riusciremmo concretamente ad aiutare tutti. La fame è molta, e così pure la disperazione. Ma era notte, e io quelle due sorelle le ho aiutate.
Cos’hai imparato, finora, da questa tua esperienza?
Credo di averlo già spiegato, fra le righe, nei paragrafi precedenti. Tuttavia, provo a ricapitolare.Ho imparato, senza dubbio, che la vita è troppo breve per sottostare alle aspettative altrui. Ho imparato che non abbiamo nessun controllo sul futuro, e che tutto può succedere. Ho imparato che dobbiamo apprezzare il qui e ora, fidarci dell’istinto, e seguire le farfalle nello stomaco. Ho imparato che la felicità, la soddisfazione e la tranquillità interiore, stanno giusto qualche passo oltre la nostra zona di comfort. Ho imparato che posso arrivare dove voglio, se continuo a credere nei miei sogni e nelle mie capacità. E poi ho confermato cose che già sapevo: siamo davvero troppo piccoli per pensare di cambiare il mondo da soli, è vero, ma se possiamo cambiare la vita di una persona abbiamo il dovere di farlo. Non cambieremo il mondo, ma cambieremo almeno il mondo di una persona. E poi, persona dopo persona, qualcosa succederà.
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