Sì, il trentottenne geometra “pentito” ha smesso di correre e prova nostalgia per un rapporto quasi fisico che aveva col pallone. Ma l’energia, la voglia di sfidarsi e sorprendere che aveva sui campi di calcio, sono rimaste inalterate. E chi lo segue nelle dirette alla radio, se ne accorge. “Parlare davanti ad un microfono- afferma l’ex bomber perugino- non è facile. E’ come scendere in campo, ti metti in gioco, sei giudicato. Ci vogliono due qualità: maturità emotiva e un pizzico di incoscienza”. Per cambiare occorre sentire che è il momento giusto. “Ma al momento giusto-dice- ci arrivi solo se lavori molto su te stesso. Nel calcio, come in radio, ho dovuto combattere con le mie insicurezze e le mie fragilità”.

Roberto Balducci pallone

E cosa ha imparato?

E’ impossibile non avere debolezze. Il segreto è lavorare sui propri limiti per riconoscerli, trattarli e poi vincerli. Un percorso che alla fine ti regala una gioia davvero grande.

Ma parliamo della sua vita da giocatore, cominciata dopo il diploma Isef.

Ho sempre voluto fare il calciatore. Sin da bambino. Ma non è stato semplice. Ho cominciato giocando, sudando, facendo sacrifici. A diciotto anni, il sabato sera, mentre i miei coetanei uscivano, io andavo a letto. Ho preso tante fregature. Riflettevo su tutto quello che mi capitava e cercavo di migliorare sotto ogni profilo: tecnico, tattico, ma, soprattutto, caratteriale. Sono caduto un sacco di volte, ma mi sono rialzato sempre più forte.

Giocava nella squadra del Gualdo?

Sì. Nella mia carriera ho solo un grande rammarico: non ho mai giocato per il Grifo. Io e il Perugia ci siamo sempre mancati per un pelo. Ho giocato come professionista con la Viterbese, l’Ancona, l’Arezzo, il Pisa, l’Alto Adige e per tanto tempo con il Gualdo. Ma con la squadra del Perugia mai. Pazienza vorrà dire che l’ allenerò. Avrei voluto giocare anche con la Spal (la squadra di Ferrara), perché ne ho subito il fascino quando ci ho giocato contro. Ma il Grifo è il Grifo!

Quando ha cominciato?

La mia carriera da giocatore in Prima Squadra è cominciata nell’agosto del 1988 ed è terminata a maggio scorso. L’ennesimo infortunio mi ha fatto capire che era ora di dire basta!

Giocava col numero dieci!

Sì, ho giocato nel ruolo secondo me più affascinante e, cioè, il trequartista, quello che i meno esperti identificano con il numero 10. E’ un ruolo meraviglioso, perché in teoria è interpretato dal giocatore più talentuoso, quello da cui tutti si aspettano la giocata vincente. Giocare col “10” richiede grande responsabilità.

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In che senso?

Il numero dieci ti può portare alle stelle o spingere nella polvere. Il “10” vive calcisticamente di fantasia. E’ a lui che si richiedono il colpo di classe, l’invenzione che cambia il volto di un match. Tutti gli altri fanno le cose normali di una partita. Michel Platini un giorno disse: credo nella magia del numero 10. Se l’ha detto lui…

Cosa le piaceva della vita da calciatore?

Della vita da calciatore adoravo tutto. Dal punto di vista tecnico: il gusto di inventare calcio, partecipare ad un progetto collettivo. Dal punto di vista umano: le emozioni estreme, che questo sport, come pochi, ti fa provare. Il calcio ti mette sempre in discussione. In una sola domenica ti può far cambiare molto l’umore. Hai sempre la possibilità di rifarti, se è andata male o di sciupare tutto quello che di buono hai fatto la settimana precedente. Il tuo equilibrio è di continuo minato dagli eventi sia positivi che negativi. E la grande, affascinante sfida, è quella di mantenere una certa stabilità emotiva.

Cos’altro c’era di bello?

Lo spogliatoio. Un microcosmo fantastico, dove incontri persone di tutti i tipi. Ognuno con le sue peculiarità. La vita di gruppo ti insegna tantissimo e ti fa fare di continuo i conti con te stesso.

Cosa le dava fastidio?

Del mio ambiente non sopportavo e non sopporto l’ignoranza, l’arroganza, l’incapacità di assumersi le responsabilità e la tendenza ad addossare ad altri le proprie colpe. Nello sport di squadra questo accade spesso. E poi non tollero la mancanza di sportività. Ma queste son cose che mi fanno arrabbiare anche in ambienti extracalcistici.

La partita che porterà nel cuore?

La finale di Play Off per salire in serie C, Arezzo- Spezia vinta per 2-1. Settemila tifosi ci seguirono a Pistoia. In tribuna c’era un muro amaranto di persone che palpitavano con noi e per noi. L’episodio è il mio goal di tacco con quel muro che esplode di gioia. Al nostro ritorno una città intera in visibilio. Ecco un’altra cosa che adoravo di questa professione: la possibilità di regalare con pochi gesti emozioni indelebili.

Un collega particolare?

Ho avuto tanti compagni con i quali sono stato davvero bene. Ma su tutti ricordo il mio amico Massimo Spagnolli, un centravanti con il quale c’era una grande intesa dentro e fuori dal campo.

Il suo maestro?

Potrei citarne tanti. Il mio primo maestro è stato Elio Grassi, che mi ha seguito nella fase più delicata e, cioè, dai dodici ai diciassette anni. E poi Serse Cosmi, che mi ha allenato quattro anni e che mi ha fatto fare il definitivo salto di qualità.

Avrebbe voluto giocare in altri ruoli, per curiosità?

Ripeto: sono contentissimo di aver giocato nel mio ruolo, ma mi sarebbe piaciuto essere anche altro sul manto erboso. E questo perché ho un’innata curiosità che mi spinge a cercare altri ruoli anche nella mia vita quotidiana.

Il rapporto con i fans?

Le persone mi hanno sempre voluto bene, in qualsiasi posto andassi. Un po’ perché ho avuto la fortuna di fare belle annate. E poi era apprezzata la connaturata capacità di “giocare per la maglia” che vestivo. Ho sempre avuto grande attaccamento per i colori che di volta in volta indossavo. Merito del mio back-ground da dilettante.

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Le fans?

Sono felicemente sposato. E’ meglio dire “no comment”!

Il biglietto, la frase che ricorda con emozione?

Ho ricevuto la cosa più simpatica dopo un derby: Ancona – Ascoli 2-1, in cui feci una doppietta. Lì, il derby era una cosa molto sentita e fui considerato un eroe. Il martedì successivo alla gara, al termine dell’allenamento, trovai la mia mitica Punto bianca completamente avvolta da un lenzuolo su cui erano scritte tante bellissime frasi e su cui era raffigurato un leone.

Le è capitato di stare in panchina? Cosa si prova?

Stare in panca non è per niente facile, ma sono momenti di sofferenza che, se sai gestire, ti danno una forza incredibile.

Com’è stato il rapporto con gli arbitri?

Gli arbitri, lo dico senza polemica, non li considero. Penso che sono una componente della partita. Devono solo essere aiutati a far bene il loro lavoro. A volte ti aiutano, a volte ti danneggiano, ma non sono loro i protagonisti.

Un’occasione mancata?

Rifiutai a 19 anni di andare a Catania. Decisione sofferta, ma non mi sentivo pronto come calciatore e, soprattutto, avevo paura di affrontare un’esperienza tanto importante. Fu la prima decisione importante della mia vita, in cui capii che non ci sono decisione giuste o sbagliate a priori. Compresi che si deve fare sempre quello che si vuole in totale onestà soprattutto verso se stessi.

Ora c’è la radio. Una sua vecchia passione.

E’ successo circa sette anni fa. Giocavo nel Gualdo. Mi chiamarono come ospite in un programma radiofonico di Erreti (Radio Tadino), dedicato ai giocatori della squadra. A me piacque parlare davanti ad un microfono, al direttore piacque il mio modo di farlo e così è partita l’avventura da speaker. Faccio radio orami da sette anni. Un anno l’ho saltato perché sono emigrato come calciatore in Alto Adige. Da cinque anni conduco Magabald – (Magabald contrazione delle due parole Magazine, il nome del programma che c’era prima, più  Baldo, che sta per Balducci, ndr) (www.magabald.it).

Di cosa si tratta?

E’ un contenitore satirico, in cui ci occupiamo di attualità soprattutto locale. All’interno di questo contenitore ho interpretato un sacco di personaggi. Completamente inventati. Che ci permettono di dare al fatto che raccontiamo una lettura ironica. Attraverso l’ironia trattiamo qualsiasi argomento. Agli inizi nella trasmissione si parlava di più di calcio. Partecipavano al programma alcuni miei colleghi che inventavano storie e personaggi. Era un modo per fare gruppo e rendere la squadra più coesa: un’altra forma di complicità che dava i suoi frutti anche in campo.

Ora cos’è Magabald?

Un programma meno sportivo, ma ugualmente divertente. Collaborano altri ragazzi molto talentuosi che fanno di Magabald un programma unico. Riusciamo a trasmettere tanto calore umano e spontaneità.

Cos’altro le sta dando la radio?

Sono un appassionato di comunicazione e “fare radio” per me è il massimo. Mi piace aver creato un gruppo che lavora ad un progetto e che si è appassionato a questo strumento meraviglioso, che è la radio. Senza contare che grazie a Magabald in questi anni abbiamo ospitato più di trecento persone. Un’esperienza impareggiabile dal punto di vista umano.

Radio e calcio. Cosa hanno in comune?

Il minimo comune denominatore tra il mestiere del calciatore e quello dello speaker sono le emozioni che regali e che ricevi, è l’adrenalina che scorre durante una partita o durante una diretta. Non sono mai andato in differita: per me la radio è solo diretta. Parlare davanti ad un microfono non è facile. E’ come scendere in campo, ti metti in gioco, sei giudicato. Ci vogliono due cose in apparenza contraddittorie: maturità emotiva e un pizzico di incoscienza.

Cosa vuole dire?

Sia nel calcio, sia in radio, ho dovuto combattere con le mie insicurezze e le mie fragilità, ma ho capito che è impossibile non averne. Il segreto è lavorare sui propri limiti per saperli riconoscere, trattare e poi vincerli. Questo alla fine ti regala una gioia immensa. Ciò che ci rende speciali come esseri umani è che siamo esseri cangianti e comprenderlo ci obbliga ad un viaggio introspettivo continuo. La cosa che mi piace di più è vedere lo stupore di chi pensa che un calciatore (o un allenatore) non possa essere anche uno speaker radiofonico. Certo che si può! Basta cercare di continuo dentro noi stessi le cose che ci piacciono. E se sono mondi apparentemente lontani, beh, chissenefrega! Io non sono una cosa sola!

E cioè?

Il programma Sorgente Aperta, più serio, che ho ideato e condotto per due anni con il mio alter ego Mario Fioriti (in cui si faceva anche musica dal vivo e ha permesso di realizzare due Cd venduti poi per beneficenza), raccontava questo.

Dica!

Parlava di persone comuni che nella vita avevano il proprio mestiere, ma che in radio venivano a raccontarci un altro modo di essere. E allora scoprivi il chirurgo-poeta, il ginecologo- attore, l’operaio-pittore e cosi via.

Mantiene buoni rapporti con i suoi colleghi ?

Saltuariamente, per qualche performance radiofonica. E’ anche un modo per stare in contatto.

Ora è allenatore del Gualdo.

Si, sono al mio primo anno. Alleno anche nel Settore Giovanile del Gualdo. Sono allenatore e istruttore. Due cose simili, ma al tempo stesso anche profondamente diverse.

Cosa le manca della vita da calciatore?

Mi manca la gioia di dialogare in modo fisico con quello che da sempre considero il mio migliore amico: il pallone. Però, lasciando il calcio ho guadagnato in salute. Negli ultimi anni gli acciacchi fisici non mi permettevano di vivere in modo sereno. In termini psicologici mi costava troppo essere sempre al top.

Consigli a chi voglia fare il giocatore?

Quello che direi a qualsiasi altra persona che si avvicina ad una professione. E’ quello che poi dico ai ragazzi che alleno. Ama profondamente quello che fai. Non smettere mai di sognare e di dare tutto te stesso affinché quel sogno si realizzi. Ai miei ragazzi ricordo spesso le parole di Martin Luter King.

Quali?

“Se non potete essere un pino sulla vetta del monte, siate un cespuglio nella valle, ma siate il miglior piccolo cespuglio sulla sponda del ruscello. Siate un cespuglio se non potete essere un albero. Se non potete essere una via maestra, siate un sentiero. Se non potete essere il sole, siate una stella; non con la mole vincete o fallite. Siate il meglio di qualunque cosa siate. Cercate ardentemente di scoprire a che cosa siete chiamati, e poi mettetevi a farlo appassionatamente.”

Da allenatore riesce ad individuare subito un bomber? E’ difficile scoprire talenti?

Sicuramente, sì. Anche se il talento è spesso riconoscibile. La cosa difficile è capire le prospettive di un ragazzo. Quanto riuscirà a migliorare con l’allenamento, se ha il carattere giusto o se ha la capacità di ascoltare per migliorarsi tecnicamente e psicologicamente. Quando si ha a che fare con gli esseri umani bisogna capire che questi cambiano in continuazione. Un ragazzo che magari ti sembra oggi un po’ più indietro può diventare un gran giocatore, perché si applica, si sacrifica e ti segue. Un altro che appare oggi più talentuoso può perdersi per strada, perché non migliora la sua superficialità o la sua fragilità caratteriale. Tutte queste variabili rendono il mestiere di allenatore molto stimolante.

Da allenatore usa con tutti lo stesso metodo?

Il sistema giusto è cercare di allenare tutti allo stesso modo. Chi ha talento e chi ne ha di meno. Un istruttore deve saper seminare. Poi dipende dal ragazzo raccogliere il seme e farlo germogliare.

Spesso i grandi giocatori provengono da ambienti miseri. E’ solo un caso?

Forse è solo un caso. O forse la motivazione ad arrivare è superiore in chi cerca dal proprio talento le risposte per vivere una vita accettabile. Le motivazioni fanno sempre la differenza. A parità di talento, di sicuro, ha più possibilità di “arrivare” uno che ha “fame” rispetto ad uno che vive il calcio come una delle tante cose della sua agiata vita. Fermo restando che esistono anche campioni che provengono da ambienti ricchi.

Il giocatore che apprezza di più?

Tecnicamente ancora oggi il giocatore che apprezzo di più è Francesco Totti. Perché è un vero “numero 10”. Quando ha finito di pensare ad una giocata, gli altri devono ancora cominciare a farlo. Un genio.

Lo sposterebbe in un’altra squadra?

Neanche morto!Perché faccio un tifo spudorato per la maggica Roma!

Cosa mi dice del Perugia?

Dall’esterno non vedo un progetto proiettato nella continuità. Capto solo tanta confusione e un ambiente che non ha ancora accettato la serie C. Purtroppo, non si può vivere solo di ricordi. Ma forse mi sbaglio. O forse no. Le dico solo che mio figlio a due anni già cantava “undici in campo che sembran cento…”, mitico inno del Perugia. Perché in qualsiasi categoria, il Grifo è sempre il Grifo!

Intervista a cura di Cinzia Ficco