Made in carcere: una seconda possibilità

Voglio vivere così non è solo anelito alla fuga, paesi lontani e mari esotici. E il “sole in fronte” di cui parla la celebre canzone è, per qualcuno, un desiderio di riconquistare il senso delle cose nella vita di tutti i giorni, nel contesto geografico e culturale in cui si è nati e vissuti. Le parole hanno un suono e un significato particolare e unico per ciascuno. Per questo l’espressione “cambiare paese” per molti significa espatriare per altri significa cercare di cambiare qualcosa restando dove si è. Entrambe scelte importanti, a volte difficili, mai banali.

Ciò che sottende entrambe le strade è il bisogno irrinunciabile di cambiare direzione, di levare la polvere dagli ingranaggi e rimettersi in gioco. Perché è difficile proseguire quando ci si sente come in una palude, quando non si riesce più a rispondere alla domanda: “Perché lo sto facendo?” È un po’ la sindrome del criceto in gabbia che, povera bestiolina, fa una gran fatica e un gran movimento sulla sua ruota senza però spostarsi di un solo millimetro.

E tutto ciò non ha nulla a che fare con il fallimento. Le storie che abbiamo raccontato qui non erano storie di fallimenti. Forse vite insoddisfacenti, inquiete, scontente ma, talmente poco fallite da aver lasciato il varco di un cambiamento.

La storia che vorrei raccontarvi è quella di una donna straordinaria nella sua tenacia e caparbietà. Una donna che la sua vita l’ha cambiata eccome. Tanto che adesso, quando parla di cosa faceva prima, usa sempre l’espressione “nella mia prima vita”. Parliamo di Luciana Delle Donne. Io ne ho sentito parlare, anzi ne ho letto, nel libro di Antonio Galdo “Basta poco”. Lo stavo leggendo per recensirlo e per fare un’intervista all’autore quando mi sono imbattuta nelle righe in cui si parla di questa donna e della sua impresa.

Made in Carcere

Luciana, volitiva e instancabile leccese, è stata per tanti anni dirigente di spicco di grandi banche. Ha contribuito a creare la prima banca virtuale, la Banca 121, e ha raggiunto incarichi dirigenziali all’interno del Gruppo San Paolo Banca Intesa. Esperta di innovazione e gestione del cambiamento, a Milano si era costruita una carriera solida e molto molto ben remunerata. “So cosa vuol dire guadagnare tanti soldi e raggiungere il successo” dice con molta semplicità e onestà. Poi però non basta più: “Con l’arrivo della grande crisi, con l’esplosione della bolla speculativa ho cominciato ad avvertire che i principi su cui si basava il mio lavoro non mi appartenevano più.”

Qualcosa attorno a lei stava cambiando e qualcosa dentro di lei reclamava spazio. Luciana lascia il suo lavoro, lascia Milano e torna nella sua Puglia: “Sentivo la necessità di restituire quello che avevo ottenuto in termini di successo, e volevo provare a farlo nella mia terra.”

Luciana è una donna pragmatica, l’esperienza professionale l’ha formata alla concretezza, alla visione chiara e fattiva delle cose. Attraverso studi e indagini individua alcuni settori in cui intraprendere. Settori che hanno per parole chiave Inclusione sociale, recupero e sostenibilità ambientale.

La Puglia è un bel laboratorio politico e culturale per iniziative nuove e dal respiro lungo. Tra le regioni del sud più vivaci e intraprendenti questa terra diviene la complice ideale per il progetto di Luciana: una cooperativa che produca borse attraverso il riutilizzo di materiali scartati dalle grandi aziende. Non solo. Queste borse le produce in carcere. Nel carcere di Trani. Ecco l’inclusione sociale e cioè una seconda opportunità per chi paga un conto con la giustizia. Ed ecco il recupero e la sostenibilità ambientale. L’inizio non è facile, come sempre. Le carcerate accolgono l’idea con un’iniziale resistenza. E Luciana, che ha sì un sogno ma è anche molto pratica non si lascia scoraggiare: “Io sono qui per fare impresa – dice alle donne – se non vi interessa ci metto un attimo a smontare tutto e andarmene altrove.”

Made in Carcere

Luciana è un’imprenditrice nel senso vero del termine e la lunga esperienza bancaria la aiuta a non lasciare che le velleità affondino la concretezza. Nasce così la cooperativa Officina creativa che con il marchio Madeincarcere da lavoro a ventidue donne, regolarmente assunte, e produce, all’inizio, borse per convegni e incontri di lavoro. Le donne imparano un mestiere, imparano cosa sia l’organizzazione che c’è dietro un progetto e vengono pagate. “Non ci sono volontari tra noi” dice con contenuto orgoglio Luciana. Quella di Luciana è una vera e propria impresa non è un’opera di carità. Ed è un’impresa che cresce. Ora la produzione comprende anche articoli di moda, commercializzati e venduti nei negozi di tutto il mondo in collaborazione con la Fondazione Borsalino.

Luciana è incontenibile e instancabile, su e giù per l’Italia per presentare la sua iniziativa, per prendere contatti, per lavorare, per creare sinergie, per trovare fondi e acquistare le macchine che servono per produrre. L’anno scorso ha anche organizzato una bellissima sfilata dei prodotti della cooperativa all’interno dell’Ikea di Bari. Perché questo è lavoro e come tale va considerato. Ora sta per lanciare un’altra linea di prodotti dal suggestivo nome di Second Chance. Una seconda possibilità che Luciana ha dato alle donne del carcere ma anche a sé stessa.

Finalmente, dopo tanto inseguirci, la incontro a Milano, tra un impegno e l’altro. Sta per ripartire per Lecce e la chiacchierata è tra un caffè e una sigaretta. Ma l’entusiasmo di Luciana è immediato, incontenibile e travolge subito.

Luciana, quello che mi è rimasto impresso della tua storia è che tu mi sembri una donna che conosce l’etica delle parole. Tu hai creato un progetto attorno alle parole inclusione, recupero e sostenibilità.

Ti ringrazio per questa definizione. Sì forse è così. C’è un’etica e un’estetica per me. Estetica nel senso di pulizia mentale. Parole belle, gesti belli, prodotti belli.

In fondo c’è stato un motivo etico anche dietro la tua decisione di mollare il tuo lavoro e di creare questa cooperativa?

In un certo senso sì. Ad un certo punto ho cominciato ad avvertire la sensazione di perdere tempo. In banca fissavamo delle riunioni con tempi ben precisi. Se non si arrivava al nocciolo della questione nel tempo stabilito si interrompeva comunque e si rimandava tutto al prossimo incontro. Così mi ritrovavo a fare una cosa sola per una settimana intera. Certo guadagnavo molti soldi, ma non facevo più nulla. Guadagnavo e basta. E ho cominciato a vergognarmi. Così mi sono chiesta cosa potessi fare per restituire un po’ della fortuna che avevo avuto. Un modo per cercare, non solo di trovare un senso, ma anche di lasciarne uno.

Hai dovuto scontrarti anche con pregiudizi?

Tanti. E tante difficoltà. Ancora oggi. Talvolta sembra che per l’amministrazione carceraria la cooperativa sia un peso. In fondo li costringo a lavorare di più. E mi scontro quotidianamente con una mentalità che fa fatica a capire che la mia è un’impresa a tutti gli effetti. Proprio oggi, per fare un esempio, il laboratorio non può lavorare perchè stanno facendo dei lavori di ristrutturazione. Basterebbe fare piccoli spostamenti per non fermare la produzione. Ma è così. Comunque continuo e non mi fermo. I progetti sono tanti e le richieste di collaborazione crescono.

Qual è la responsabilità che senti maggiormente?

Quella di continuare a lavorare per pagare gli stipendi alle donne. Su questo non transigo.

E via, verso l’aereoporto per l’ennesimo volo.

www.madeincarcere.it

è il sito della cooperativa di Luciana

A cura di Geraldine Meyer