“Ho sempre lavorato. Prima lavoravo per qualche mesetto, durante le superiori, in estate. Vivendo sola ormai da quasi 11 anni, il lavoro è sempre stata un’esigenza primaria per riuscire a far tornare i conti. Non mi interessavano la fatica, le ore. Il lavoro è sempre stato, come  mi hanno insegnato in famiglia, uno degli obiettivi principali della vita.

Ho cominciato nel 2006 a lavorare nell’attuale azienda. Prima come responsabile di una struttura. La cosa strana è che sono stata scelta, perché facevo lavorare le persone con la musica. Nulla di pesante, ma la musica anni 70/ 80, un filino trash, mette sempre tanta allegria. Le persone lavoravano più serene. In un lavoro come quello del call center, dove la produzione regola tutti i meccanismi, purtroppo anche le relazioni umane, la musica fa sempre sorridere. La mia figura di supervisore è durata circa 2 anni e mezzo, fino a che la struttura è stata chiusa e tutti sono stati trasferiti in una sede più grande.

Lavorare in un call center forza 

Proprio in quel momento un’ernia alla schiena mi ha impedito di lavorare. Una momentanea paralisi al braccio e una persistente insensibilità alla mano rendevano il mio lavoro inutile  alla produzione. Sono sempre stata una persona iperattiva, per cui quello che stava accadendo in maniera sconvolgeva ogni mio piano. Tutto era così bloccato e non potevo farci nulla. Mi dicevo: Io? Ma non è possibile. Avevo bisogno pure di qualcuno che mi aiutasse a lavarmi. Ancora oggi, se ci penso, mi commuovo. Ho odiato così tanto quel problema. E non mi rendevo conto che la malattia mi avrebbe salvata.

Anche se sono problemi che possono comunemente accadere, sono sicura di una cosa: il mio corpo si stava ribellando. Mi diceva: “Basta così! Se non ti fermi tu, ti fermo io”.  E sono convinta che avesse cercato di fermarmi da tempo, ma io non gli prestavo attenzione.

Una mattina a letto, immobile, mentre parlavo dei miei dolori con un amico, ho guardato la finestra e non so, era giorno, il cielo era terso. Così non ci crederete, ho chiesto: “In che mese siamo? E ancora più silenziosa, mi son fatta aiutare ad  alzarmi e ho aperto quella finestra. Non so più da quanto tempo non guardavo lo scorrere delle stagioni.  In ufficio tutti i giorni sembrano uguali e quel misero giorno di riposo mi dava la possibilità di rendermi conto della bellezza che mi circondava. Così piano piano ho iniziato a cercare in rete persone nella mia condizione.

Ne ho trovate tantissime. Tantissime persone che di sicuro lavoravano bene, otto ore al giorno, ma senza vivere in modo pieno la vita.  E soprattutto, inconsapevoli che tanti malanni sono causati da stress, dalla mancanza di una pausa, vera. Nella nostra società uno che riposa viene considerato un pigro.  E mi sono resa conto di quanto sia fragile il nostro corpo e di quanto improvvisamente ci può abbandonare. Da quel momento è cambiato tutto. Il mio modo di vedere le cose. Ad esempio, ho iniziato a smettere di comprare oggetti. Non ho bisogno di 40 paia di scarpe, né di 20 jeans, né dell’ultimo cellulare. Tutto quello che avevo era a dir poco superfluo. Così ho fatto una bella cernita, ho selezionato il giusto e il resto l’ho regalato. Poco m’importava se quel maglione fosse costato tanto, non ne avevo più bisogno. Qualcun altro al contrario lo avrebbe utilizzato. Ho smesso di andare nei grandi centri commerciali: sono il peggio del peggio e ho scoperto che dietro casa ci sono tanti negozi, dove la frutta e la verdura sono sempre fresche.

E’ calato il  mio nervosismo da quando ho smesso di andare negli ipermercati: le file alla cassa, tutta quelle gente che riempie i carrelli come se stesse per scoppiare la guerra. Ho pensato che in realtà riempivano il loro cuore con surrogati di micro apparente felicità, nel tentativo di colmare vuoti più grandi, determinati dalla frenesia di vivere a cento mila.

Tornata a lavoro, ho chiesto un part time. Molti mi direbbero che sono cretina, con il contratto che mi ritrovo. Ma dopo aver imparato ad utilizzare il necessario, ho visto che non ho bisogno di tutti quei soldi. Ho più bisogno di tempo per me, per vivere,  amare e riposarmi, cucinare. Ho scoperto che la cucina mi dà una soddisfazione a dieci stelline: primi, soprattutto risotti- panna e funghi-radicchio e speck- ai fiori di zucca, con le vongole, ai frutti di mare, e torte salate, antipasti stuzzichini tutti colorati. Ormai ogni festa, ricorrenza o anche solo la domenica, è un’ottima occasione, perché prepari un catering di tutto rispetto. La riscoperta degli odori, il basilico, i pomodorini sherry,  i peperoni, l’anguria,  le pesche,  i funghi che sanno ancora di terra e il formaggio che mi porta un pastore, impastare la farina con le mani e invitare i figli della mia amica, giocare con loro, vedere il gatto completamente inzaccherato di farina, mi rendono molto felice.

Ho scoperto che nel mio vicinato molti possono aver davvero bisogno di me. Così mi basta anche solo fare una passeggiata per trovare un’anziana che con difficoltà porta la spesa a casa E sapete cosa faccio? Mi offro di aiutarla e non so come, mi ritrovo a casa sua a bere un the. Lei poi mi racconta tutta la sua vita. C’è un ragazzo che purtroppo ha gravi problemi mentali e forse fa un po’ paura per come si presenta. Mi fermo e lui parla parla parla per ore, delle sue paure di essere lasciato solo, della sua famiglia e io non dico tanto, ma ci sono, lo ascolto. Tutto questo basta per far cambiare una giornata.

Mentre porto avanti la mia ” lotta” civica, sto organizzando un viaggio. Ho già pensato che partirò solo con uno zaino, le cose indispensabili e mi sono prefissata un budget assolutamente low cost. Ho trovato un sito, dove è possibile essere ospitati in tutto il mondo e dormire su un divano. In questo modo ho la possibilità di stare con le persone del luogo e vivere con loro, cucinare quello che loro mangiano, senza tante comodità. Non voglio saponette di alberghi da portarmi via o asciugamani che finirebbero per far cumulo e basta. Vorrei sorrisi, sapori, odori. In tutto questo, ci sarà una tappa di sei mesi in Tibet: potrò dormire nella struttura attigua a un tempio buddista,  se non addirittura dentro, e avrò la possibilità di vivere come i monaci tibetani.  Non so ancora dove mi fermerò in pianta stabile. Mi piacciono i posti freschi, non sono un’amante delle isole ai tropici.

Spero che in questo lungo non ci sia campo per il mio cellulare e la sveglia non serva.
E’ da tempo che mi domando cosa dire ai miei capi. Ci penso. Potrei cominciare così: ” Quando anni fa ci siamo conosciuti, ho ringraziato la terra sopra la quale camminavo per aver avuto  un posto di lavoro così importante, un contratto e una sicurezza economica. Non voglio sputare verso chi mi ha dato da mangiare, ma maledico il giorno in cui ho messo  la mia firma su quel dannato contratto.

Non stavo firmando per 40 ore di lavoro settimanali, stavo ipotecando tutta la mia vita. Voi mi stavate comprando per poco più di mille euro e con quella firma vi siete arrogati il diritto  di gestire tutta la mia vita. E io ve l’ ho permesso. Per cui sono stata vostra complice. Ora esco semplicemente dal gioco. Se in un’ottica aziendale, dove la produzione regna sovrana e tutti sono un numero, io vi rendo la pettorina come quella che hanno i corridori e siete liberi di assegnarla a chiunque voglia scendere a questi patti. Non spremerò più le persone come limoni perché a fine mese vengano crisi di pianto. Non aprirò più i file dove son segnati i nomi di quelli che dovranno essere licenziati, per non essere stati produttivi. E finalmente mi presenterò: libera”.

Sara