Medici senza frontiere: la storia di Gianfranco

Un padre che lo ringrazia nonostante la morte di suo figlio. Una donna stremata dai dolori per un’infezione alle vie urinarie che non è potuta guarire, perché troppo povera da non potersi permettere le medicine. Sono immagini che Gianfranco De Maio, quarantanovenne neurologo calabrese, porta stampate nella sua memoria.

Quelle che smuovono dentro di lui sofferenza, senso di impotenza, e forse anche un po’ di risentimento. Ma sono anche quelle che meglio rappresentano il tipo di vita che ha scelto da una decina d’anni. Oggi De Maio è responsabile medico di Medici senza frontiereItalia. Una virata alla sua vita, dopo la guerra in Kosovo.

Gianfranco De Maio medici senza frontiere

Da neolaureato sino ai 30 anni il neurologo presta servizio presso la Comunità di Capodarco a Roma, una Onlus impegnata nella lotta all’esclusione sociale di categorie svantaggiate. Poi decide di provare “a vivere in modo – dice- normale, come i miei amici e parenti”. E per una decina d’anni, ci riesce. Anche se con un po’ di fatica. Fa il neurologo in una clinica di riabilitazione motoria a Roma, lavora in day hospital, ogni tanto visita privatamente ed é ben pagato.

“Ed è proprio questo- chiarisce- il problema. Il prezzo é superiore al servizio garantito ai nostri pazienti. Il lavoro é fantastico, per niente stressante e anche l’ambiente é gradevole. Niente turni di notte.

I pazienti sono, sì, gravi, ma con la riabilitazione spesso si riprendono. Io mi limito a supervisionare il lavoro dei fisioterapisti. Posso ritagliarmi spazi per il tempo libero e riempire la vita di hobby. Nessuna difficoltà. Una vita troppo comoda”.

E allora? “L’esperienza di Capodarco – spiega- mi ha insegnato a riconoscere i valori autentici della vita e a trattare la malattia in modo diverso. Nel nostro sistema sanitario le rette che la Regione passa alle aziende convenzionate non corrispondono alle prestazioni garantite. Le strutture riabilitative funzionano con criteri di managerialità.

Puntano al profitto. Quindi la salute del malato è marginale e viene garantita spesso da personale demotivato, perché mal pagato. All’epoca, anni novanta, tre quarti d’ora di riabilitazione il giorno retribuite con quattrocento mila lire sono uno scandalo. Ed io, in quell’ingranaggio, sento di essere colluso con un sistema inadeguato, strumento di una realtà che non condivido. All’inizio mi autoinganno, cercando di convincermi che non ho colpa. Ma poi dico basta. Il sistema, infatti, peggiora.

Per mantenere il guadagno previsto dalle aziende, diventano sempre più insufficienti le prestazioni. Io che in quella clinica mi sono battuto per garantire contratti a tempo indeterminato a tutto il personale e turni regolari tra raccomandati e non privilegiati, sono considerato un po’ matto. Mi si dice che il mio discorso cozza con gli interessi dell’azienda. E’ quello il sistema!”.

Dunque, cominciano le resistenze. “No- replica- perché sono una voce isolata. La reazione alle mie parole è l’indifferenza”. E pensare che da ragazzo De Maio era inquadrato, accondiscendente, avendo studiato all’Università Cattolica (Gemelli). Era molto tranquillo. “Ma la vita ti fa cambiare- aggiunge- E certe storture non riesci più a sopportarle. Anche se di solito ci si accomoda più tardi. A me è successo il contrario. Le delusioni e le reazioni dure sono arrivate dopo”.

De Maio Medici senza Frontiere

Il medico si riferisce anche ad alcune missioni. Quelle organizzate da strutture non governative di matrice cattolica. Se ne ricorda una in Albania, di dieci giorni, in cui si preparavano fisioterapisti.

“Al corso- confessa- potevi accedere solo se ti dichiaravi cattolico. E poi tutto era dipendente dai fondi stanziati. Addio soldi, addio malati. Molto deludente”.

Dopo quell’esperienza De Maio prende le distanza dal mondo cattolico, che paragona ad un vestito ormai striminzito da riporre nell’armadio. Ma anche dalle missioni messe in piedi da organizzazioni non governative italiane. Ecco spuntare Medici Senza Frontiere, Ong con guida in Belgio e Francia.

La mia domanda – racconta- per diventare un medico senza frontiere non viene accolta subito. Hanno, infatti, bisogno di un medico che conosca le malattie tropicali. Ed io non le avevo mai studiate. Di qui la decisione di fare un corso di sei mesi ad Anversa, in Belgio, pagato con la buonuscita della clinica, dove la notizia delle mie dimissioni viene accolta senza drammi”.

La prima missione con Msf è in Congo. Bella, ma poco gratificante. “Si era in guerra- spiega- Portavamo medicinali pagati ad un costo politico con piccoli aerei. E il nostro soccorso era indiretto, un lavoro di supervisione dell’attività degli infermieri. E’ stato in Congo che ho fatto la mia prima esperienza frustrante.

C’era una ragazza sofferente per problemi alle vie urinarie. Non le somministravano l’antibiotico per via endovenosa, perché costava molto. Sarei dovuto intervenire e iniettarle il medicinale che non poteva permettersi. Ma a quel tempo non era opportuno stravolgere certi equilibri. Provo ancora un grande senso di colpa. Da quel momento non abbiamo fatto più missioni in quella zona.

Non si poteva tollerare che i medicinali venissero pagati, anche poco, e in un momento in cui c’era la guerra. Oggi dubito che quella missione sia servita davvero”.

Medici senza frontiere all'opera

Quale l’episodio che porterà sempre con sé? “Quello- racconta- di un padre, in Costa d’Avorio, che il giorno successivo alla morte del suo bambino viene a ringraziarmi. Composto nel suo dolore, esprime tutta la sua gratitudine per quello che avevamo fatto. E mi dice: ‘La nostra vita e la nostra morte sono nelle mani di Dio’. Una reazione strana per noi, inconcepibile”.

In che senso? “Beh, ricordo- dice ancora- la signora che gridava, s’arrabbiava e mi chiedeva perché sua madre, di 101 anni, con demenza senile, fosse morta. Allora mi sono innervosito”.

De Maio ha visto tanta sofferenza. E non si riconosce più in una fede religiosa. Piuttosto nell’impegno che si può dare ogni giorno nel proprio piccolo. Ma quale la ricompensa più grande ad un lavoro tanto rischioso? Nessun dubbio. “Dal momento che lo stipendio – afferma con ironia- non è alto, il recupero di persone che riusciamo a rianimare”. Spazi per relazioni più intime non ci sono. Tante, invece, le possibilità di beccare infezioni gravi.

“Per quello- fa capire- ci sono i vaccini. Quello che fa rabbia nel nostro lavoro, è la resistenza. A volte l’ostruzionismo, di alcuni. In certi Paesi, per esempio, dobbiamo sempre negoziare, usare la diplomazia.

Non gradiscono ingerenze e se dobbiamo curare un’infezione grave, e convincere le popolazioni a farsi curare, dobbiamo usare circonlocuzioni. Non possiamo parlare di colera per non danneggiare l’immagine del Paese. Ci vuole tanta pazienza e tenacia”.

Cinzia Ficco

Per le donazioni a Medici senza Frontiere la pagina è la seguente: www.medicisenzafrontiere.it/donazionionline/default.asp