Francesca Borri, corrispondente di guerra, si racconta a Nicole Cascione

“Alla fine, esiste davvero solo quello che viene raccontato e solo quello che esiste può essere cambiato. In questo mestiere siamo sempre in due. Siamo sempre insieme, io che scrivo e tu che leggi”. Ho conosciuto Francesca Borri durante il TEDx che si è svolto a Bari, sua e mia città natale, nel mese di novembre. Quello che più mi ha colpito di lei sono stati i suoi occhi, erano occhi che sapevano ridere nonostante tutto. Nonostante la guerra, i morti, la paura. Francesca è una corrispondente di guerra che vive da anni in Medio Oriente e che racconta la storia, non quella del passato, ma quella presente; una storia che spesso preferiamo ignorare, perchè ci fa troppa paura.

Francesca, qual è stato il percorso professionale che ti ha portato a diventare corrispondente di guerra?

In realtà ho studiato altro. Ho studiato relazioni internazionali. Ero già in Medio Oriente da alcuni anni, ma come specialista di diritti umani. Solo che sono nata a Bari e non ha molto senso difendere i diritti umani in Afghanistan, in Iraq, in Yemen, se poi non sei capace di difenderli a casa tua – di difenderli a Taranto, per esempio. E così un giorno ho deciso di raccontare l’Ilva. Seguita poi da tanti altri. Le nostre inchieste hanno consentito ai magistrati di intervenire con più forza, hanno consentito ai sindacati, agli ambientalisti, ai semplici cittadini di avere più voce: alla fine, è stata una delle mie migliori battaglie per i diritti umani. E quindi sono tornata in Medio Oriente, ma da giornalista.

Quando e per quale motivo hai deciso di avvicinarti al giornalismo di guerra?

Non sono stata io ad andare in guerra: è stata la guerra a venire da me. E credo che molti di noi direbbero la stessa cosa. La guerra non si sceglie. A un certo punto, semplicemente, ci sei dentro. Non ho deciso di raccontare una guerra, ho deciso di raccontare la primavera araba – che in quel momento, il 2012, era in Siria. Mubarak e Gheddafi erano già caduti. Poi nel tempo è diventata una guerra, ma onestamente ancora oggi, al fondo, nonostante 500mila morti, sto raccontando la stessa storia: una battaglia per la libertà e la dignità. Il primo giorno del primo cessate il fuoco negoziato dalle Nazioni Unite, a febbraio, i siriani sono tornati in piazza. Esausti, affamati. Stremati. Ma come prima cosa, il primo giorno, sono tornati in piazza. L’unica differenza è che ora sono sia contro Assad sia contro al-Qaeda.

Qual è la situazione reale che si vive in Medio Oriente?

Una situazione di precarietà assoluta. Rientri a casa la sera e non sai mai se durante la notte qualcuno sfonderà la porta e sparirai. O se domani, all’improvviso, qualcuno inizierà a bombardare il tuo paese. Non esistono regole. Sei sempre ostaggio di guerre altrui, interessi altrui. La mattina ti svegli e voi controllate le notizie, se piove, se tira vento, noi controlliamo chi è stato arrestato o ucciso.

Come si svolge una tua giornata tipo?

Non ho una giornata tipo. Dipende dalla storia a cui sto lavorando. Seguo la mia storia, nient’altro.

Qual è l’aspetto più difficile del tuo lavoro?

Vedere le cose mentre accadono. Passo dopo passo. Giorno dopo giorno, vedere le cose mentre ancora possono essere cambiate – le guerre: mentre ancora possono essere fermate. Perché niente è inevitabile. Abbiamo visto i primi jihadisti per le strade di Aleppo quando ancora erano così pochi. Così poco organizzati. O anche i profughi, i bambini che si spiaggiano morti sulle nostre coste. Siamo italiani, siamo cresciuti tra gli sbarchi dei profughi. Ma fino a quando non è un disastro, non ti ascolta nessuno. E’ la cosa più difficile, in assoluto. Ho scelto il giornalismo per occuparmi del presente, il passato è competenza degli storici. E invece arriviamo postumi. Arriviamo quando ormai sono morti tutti.

Quali sono invece le maggiori soddisfazioni?

I lettori. Sono molto legata ai miei lettori. Ho dei lettori straordinari. Mi scrivono per raccontarmi quello che gli succede sotto casa, o anche dentro casa, a volte, per raccontarmi cosa significa essere operai in Bangladesh, in Cina, o vivere a Londra e avere un figlio con un handicap, un padre con l’Alzheimer. Mi scrivono e mi dicono: “Vieni da me, ti ospito io. Ma vieni a raccontare tutto questo”. Non è vero che non abbiamo potere. Che tanto non cambia niente. Io credo profondamente nella forza della parola. Alla fine, esiste davvero solo quello che viene raccontato e solo quello che esiste può essere cambiato. In questo mestiere siamo sempre in due. Siamo sempre insieme, io che scrivo e tu che leggi.

Qui da noi arriva un’immagine spesso negativa del Medio Oriente. Ma qual è la verità?

Il Medio Oriente è un mondo molto diverso dal nostro. In Occidente siamo individualisti: gli arabi invece vivono insieme, sono allegri, casinisti. Hanno la porta di casa sempre aperta. Hanno questo modo bellissimo di prendersi cura gli uni degli altri. Poi sono anche Paesi molto giovani, l’età media è intorno ai vent’anni e quindi sono Paesi con un’energia sconfinata. Al di là dell’hummus e di queste cose un po’ da turista, al di là dei cammelli, del tè e dei tappeti, ecco, la ragione vera per cui in Medio Oriente mi sento così a casa è che i ragazzi arabi sono esclusi da tutto esattamente come noi. Non sto raccontando la primavera araba: sto raccontando la mia generazione. Solo che loro stanno provando a cambiare le cose, noi no. Nonostante tutto, per me vivere in Medio Oriente non è un onere ma un onore.

Hai mai pensato di mollare tutto e rientrare in Italia, abbandonando il giornalismo di guerra?

No. Mai.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Nessuno. Cioè, solo la Siria. Tornare in Siria. Non ho in testa altro, al momento. E non avrò in testa altro fino a quando la guerra non sarà finita. Il mio posto è lì, è lì che ho senso. Qualsiasi cosa accada. Quando i siriani saranno liberi di pensare al futuro, penserò al futuro anche io.

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A cura di Nicole Cascione