La nostra vita in 23 kg di valigia”: una famiglia in giro per il mondo

Hanno lasciato l’Italia nel 2007 con un bimbo di 5 anni e una di 23 giorni per vivere la loro vita all’estero: dall’Europa al Sudafrica fino al Sudamerica. Vi raccontiamo la storia di Claudia e suo marito Fabrizio, dei loro 3 figli, della nonna e del loro cane Nanà. Tutti in giro per il mondo. Tanti i paesi in cui hanno vissuto, lavorato e studiato e dove hanno lasciato un pezzo di cuore. Adesso si trovano in Messico, a Merida. Fermarsi? Per ora non è nei loro piani!

Di Enza Petruzziello

Una coppia, 3 figli, un cane e una nonna. Una famiglia come tante, ma diversa da tutte. La loro vita è infatti racchiusa in 23 kg di valigie e container con cui organizzano trasferimenti e traslochi.

Loro sono Claudia Carboni, 44 anni, suo marito Fabrizio di 46, i loro figli: Tommaso 21, Daria 15 e Sofia 14. La nonna si chiama Gemma e di anni ne ha 74. Il cane é un pastor Belga Malinois di nome Nanà.

In viaggio dal 2007, insieme hanno girato mezzo mondo: dalle isole Canarie, al Sud Africa passando per la Scozia e il Sudamerica. Paesi molto diversi tra di loro, in cui hanno vissuto, lavorato e studiato. Adesso si trovano a Merida in Messico, in attesa della prossima destinazione. Originari di Cremona, Claudia e suo marito si occupano di Flipping Houses: comprano case da ristrutturare e le rivendono una volta rimesse a nuovo. Un lavoro che gli permette di viaggiare e poter vivere di ciò che fanno. Ecco la loro incredibile storia.

UNA FAMIGLIA IN GIRO PER IL MONDO

Claudia quali sono stati i motivi che vi hanno spinto a partire? Che cosa non vi piaceva più della vostra vecchia vita in Italia?

«Abbiamo lasciato l’Italia nel 2007 con un bimbo di 5 anni e una di 23 giorni. La vita in Italia, ci stava stretta da tempo, ma la cosa che più ci ha spinto a partire é stato il desiderio di poter dare ai nostri figli la possibilità di vivere e conoscere più parti del mondo possibile, imparare le lingue e saper vivere integrandosi. Penso che l’Italia ci mancherà sempre per la sua bellezza, per il cibo, per la famiglia, per i ricordi che ogni tanto si fanno sentire. Ma tornare a vivere in Italia sarebbe difficile: i ragazzi parlano abbastanza bene l’italiano ma non saprebbero scriverlo correttamente e poi la sicurezza e il sistema sanitario mi bloccano ogni volta che la malinconia mi prende».

Qual è stata la vostra prima meta?

«È stata Fuerteventura nell’arcipelago delle Canarie. All’epoca era un’isola del tutto fuori dai canali del turismo o dell’immigrazione di massa. Lì abbiamo aperto, dopo anni di sacrifici e lotte contro una burocrazia infinita, il Manohecha, primo Hotel Canino, legale in tutte le Isole Canarie e li é anche nata la nostra terza figlia».

Eppure le Canarie sono conosciute per essere molto favorevoli agli imprenditori e a chi vuole fare attività. Quali sono le difficoltà e gli ostacoli che avete dovuto affrontare?

«Le Canarie sono il primo step di molti Italiani che cercano fortuna fuori dall’Italia. Negli anni, soprattutto negli ultimi, ne abbiamo visti moltissimi arrivare con qualche risparmio, investirli in un’attività sbagliata, molto spesso il classico bar, e poi ritornare a casa perche l’esperienza era andata male. Quindi facile sì, ma non del tutto. Noi abbiamo intrapreso un percorso diverso e del tutto nuovo sull’isola, le difficoltà sono state tante ma dovute soprattutto al fatto che neppure loro sapevano cosa servisse, quali erano le leggi, i permessi, ma alla fine li abbiamo ottenuti!».

Dopo che è successo?

«Dopo aver venduto l’attività ad una famiglia inglese, ci siamo trasferiti in Kenya a Diani precisamente, ma il nostro soggiorno é durato meno del previsto per colpa della malaria e della disastrosa assistenza medica. Ma l’Africa l’avevamo troppo nel cuore e cosi abbiamo deciso di fare il grande salto e trasferirci a Città del Capo, in Sudafrica. Un posto meraviglioso, fatto di infiniti contrasti, ma pieno di vita, di creatività, di panorami indimenticabili. Un posto immensamente diverso da quello che ci si aspetta parlando di Africa, e che per noi ancora oggi é casa».

Come sono stati gli inizi in Sudafrica?

«Siamo arrivati nel 2011 con un inglese basico per noi, e un “The book is on the table” per Tommaso che era il più grande. Abbiamo deciso di vivere prima a Scarborough un piccolo paesino di mare al confine con la riserva di Capo di Buona Speranza, adesso mecca internazionale di Kitesurf, all’epoca un meraviglioso gruppetto di casette sull’Oceano. Poi ci siamo imbattuti in quella che sarebbe stata la prima di una lunghissima serie di ristrutturazioni di case, che ancora oggi sono il motore che ci permette di continuare a poter vivere viaggiando. Abbiamo acquistato una casa in riva al mare a Kommetijie, poco distante da Scarborough e a circa 45 minuti al sud di Città del Capo. Lì i bambini hanno iniziato ad andare a scuola, per loro abbiamo scelto una Waldorf School, ovvero una scuola Steineriana, che li ha davvero accolti e gli ha permesso di integrarsi ad un nuovo sistema scolastico, ad una nuova lingua (ovvero alle 11 lingue ufficiali di questo paese), ad una nuova forma di vivere e di socializzare. Siamo stati felicissimi della scelta fatta e i ragazzi ancora adesso ricordano quei momenti a piedi nudi, sull’altalena appesa ad un albero enorme, i tanti lavori manuali, i quaderni pieni di colori, i bambini di ogni razza e colore, le maestre dolci e accoglienti, i giochi di legno, il metodo e la maniera migliore di vederli felici, che potessimo mai desiderare».

UNA FAMIGLIA IN GIRO PER IL MONDO

Nel frattempo tu e tuo marito di che cosa vi occupavate?

«Abbiamo deciso di approfondire la nostra esperienza presso una scuola di Interior Designer di Città del Capo e in parallelo abbiamo continuato a crescere, a trovare inspirazione, ad imparare tante cose tra progetti di volontariato e artigianato con le donne delle Township e con artigiani delle zone meno fortunate di questa città fatta di così tanti contrasti».

E già perché la capitale del Sudafrica è una città di forti contrasti e di contraddizioni, soprattutto dal punto di vista sociale. Tu che ci hai vissuto, come descriveresti la convivenza tra questi due mondi?

«A Cape Town, puoi trovare case da milioni di dollari, scuole di livello internazionale con ragazzi che arrivano addirittura in elicottero, a un chilometro da quelle che sono le più grosse agglomerazioni di case di lamiera di tutto il mondo. L’ Apartheid é ancora una piaga che si respira ovunque, il razzismo all’uomo bianco é evidente e le estreme differenze economiche, sociali, sanitarie e scolastiche tra bianchi e neri saltano all’occhio in maniera netta in ogni zona dello Stato. C’e parecchia insicurezza, bisogna muoversi con attenzione, non é consigliabile mettersi in auto la sera, non é semplice camminare in alcune zone sentendosi tranquilli e non é neppure sicuro andare in spiaggia se non ce molta gente. I furti in casa sono all’ordine del fine settimana e della luna piena, che uniti, danno quasi la certezza di ricevere una visita inaspettata durante la notte. Questo perché la gente che si dedica a rubare molto spesso non lavora il weekend. La luna piena illumina le strade permettendogli di muoversi senza dover usare la torcia che nella notte africana significa una cosa sola: ladri».

I ladri hanno preso di mira anche voi?

«Sì, siamo stati “visitati” diverse volte. Per questo, poi, abbiamo deciso di muoverci e di andare a vivere a Paarl, nella zona dei famosi vigneti sudafricani, dentro un “Security Estate” ovvero una vera e propria città blindata e protetta da telecamere di sicurezza, filo elettrico e guardie, un posto che descritto così spaventa ma che offre davvero una qualità di vita inimmaginabile».

Che anni sono stati quelli a Paarl?

«Dentro “Val de Vie”abbiamo costruito la nostra prima casa da zero, un progetto ambizioso, costoso e complicato ma che ci ha fatto crescere, che ci ha messo alla prova e regalato una casa meravigliosa con la vista a una riserva naturale con zebre e animali che ci lasciavano ogni giorno a bocca aperta. Lì i bambini, ormai padroni dell’inglese, e con la sufficienza conoscenza di Afrikaans, Zulu e Xhosa, hanno cambiato completamente metodo educativo, contesto sociale e abitudini, frequentando la prestigiosa scuola Bridge House. Li abbiamo visti amalgamarsi con un nuovo stile di vita e mai, come in quel contesto, ho capito che sono spugne e a loro nulla spaventa o sembra impossibile, i bambini hanno risorse infinite e dobbiamo solo permettergli di tirarle fuori».

Il vostro desiderio di scoprire il mondo, però, si è fatto presto risentire. Così vi siete rimessi in viaggio, per dove esattamente?

«Avevamo voglia di ritrovare il calore latino, di ritornare a parlare spagnolo, di scoprire un posto diverso e così siamo arrivati in Messico, precisamente a San Miguel de Allende, Guanajuato, a 1980 metri sul livello del mare, non proprio la tipica cartolina del mare Caraibico, ma una splendida città coloniale piena di tradizione, artigianato, case meravigliose e moltissimi “gringos”, ovvero americani. Quando abbiamo detto ai nostri amici sudafricani che ci saremmo trasferiti in Messico, ci hanno dato dei pazzi, dicendoci che se lì la situazione sicurezza era pessima, in Messico era ancora più disastrosa. Dopo diversi anni di esperienza posso dire che é solamente diversa, la prima più casuale e diffusa, la seconda più mirata, studiata, organizzata ma altrettanto fastidiosa».

Cosa avete fatto in Messico?

«Qui abbiamo continuato ad imparare, abbiamo scoperto nuovi materiali, nuovi modi di organizzare gli spazi, abbiamo visto cose stupende e i nostri bambini hanno ritrovato la lingua che per prima avevano imparato e che li ha fatti sentire a casa. La scuola era internazionale, i bambini venivano da diverse parti di Messico, ma anche da Italia, Grecia, America. La mattina prima di iniziare le lezioni ci si ritrovava nel patio tutti insieme, si metteva una musica ad alto volume e si ballava per 10 minuti, alunni e insegnanti, una delle cose più belle che ho mai visto fare in una scuola».

Questa volta a mettervi in movimento è stato il cosiddetto “mal d’Africa”, quel sentimento di nostalgia per il grande continente che solo chi ci ha vissuto può capire.

«Esatto, Il mal d’Africa ci continuava a solleticare e così via di container di nuovo (credo che ne avremo fatto una decina per lo meno) e la felice decisione di una nuova meta africana, questa volta più wild, selvaggia, estrema della prima. Abbiamo deciso di andare a vivere a Hoedspruit, Limpopo, sempre Sudafrica ma al confine con il Botswana, esattamente nella riserva del Kruger Park. Li abbiamo fatto un sacco di piccoli safari quotidiani, abbiamo imparato come é la vera vita nel bush, i ragazzi hanno frequentato quella che ancora oggi é la mia e la loro scuola preferita (https://www.thescschools.com/), dove le lezioni iniziavano alle 6 del mattino per evitare il caldo della savana nella ore più calde. Un giorno i ragazzi sono corsi a casa, hanno scaraventato le biciclette in giardino e ci hanno detto che i loro amici gli avevano detto che era il “leopard time”, il tempo del leopardo che sale a cacciare verso il tramonto e che quindi bisognava rientrare!».

Che ricordi hai di quei luoghi?

«Bellissimi. Si tratta di posti incontaminati, la natura che ancora (fortunatamente) la fa da padrone, la bellezza dell’essenziale e del primitivo, il sapere che ci sono ancora pochi posti su questa terra dove si vive ad un ritmo in sintonia con ciò che ci circonda, dove si impara anche solo uscendo per una camminata, dove la gente ha come primo impegno quello di conservare e non di creare».

Altro anno, altra destinazione: l’Uruguay. Che esperienza è stata?

«Siamo stati a Punta del Este esattamente. La mecca eco chic di argentini, brasiliani, europei e russi ovviamente. Un posto in cui approdare per poi muovermi e trovare quello che avevo sempre cercato: un mix tra campi immensi, pampa, cavalli selvaggi, carne ottima, persone dal cuore caldo e una vita scandita dalle idee deliziose del suo presidente José Mujica. Ma come si usa dire adesso, una cosa é quella che ordini su internet e un’altra é quella che ti arriva a casa. Direi che tra i tanti posti in cui abbiamo vissuto, l’Uruguay é in fondo alla lista. Non ho trovato nulla di quello che credevo potesse addirittura permettermi di fermarmi, di smettere di cercare, di darmi quella pace e quella completezza che non avevo ancora trovato in nessun posto. Ma no, é stata una delusione, un posto noioso, carissimi, pieno di contrasti tra gente benestante e il restante 99% di gente che fa la fame, ma mascherato sotto un velo di buonismo che faceva ancora più male. Abbiamo vissuto poco meno di un anno lì, i ragazzi hanno frequentato una Scuola Internazionale e aggiungendo pure questa a la lunga lista, penso che nel baule dei ricordi le divise superino i loro compleanni».

Così dopo il deludente soggiorno in Uruguay, avete dato una seconda chance alle Canarie, approdando a Lanzarote? Com’è stato vivere qui?

«La nostra essenza nomade ci ha messo di nuovo in viaggio, ci ha convinto che gli estremi vanno vissuti ma che anche le zone di comfort sono importanti, così siamo andati a Lanzarote. Comodità di aver tutto a portata di mano, lingua ormai sdoganata, temperature da sogno e niente zecche, leopardi e ahimè tramonti infiniti. I ragazzi anche questa volta hanno frequentato una Scuola Internazionale, hanno ritrovato ritmi classici, hanno studiato nelle due lingue che ormai dominavano alla perfezione e hanno ritrovato una modernità che per un lato li eccitava e dall’altro li bloccava, perchè non erano più abituati a portare le scarpe, perché non si sentivano sicuri nel camminare da soli per strada, perchè vedevano negozi di giocattoli nei quali si annoiavano dopo un paio d’ore, perché i ragazzi erano più liberi ma in fondo più in gabbia, secondo loro.

Qui abbiamo continuato con le ristrutturazioni e siamo passati dal vivere in una casa da 500 metri a una di 37 metri, sempre tra 5 umani e qualche quadrupede animale. Lo abbiamo fatto perche abbiamo sempre creduto che sopratutto i ragazzi dovessero prendere come prima lezione il sapersi adattare, il non dare nulla per scontato, il poter essere felici in condizioni diametralmente opposte. Anche per noi però non é stata una lezione semplice vivere 1 anno con mobili a scomparsa e poco spazio vitale, ma ne siamo usciti tutti felicemente amalgamati».

Poi c’è stata la Scozia. Come mai la scelta è ricaduta su questo paese così lontano dal vostro “radar” d’azione e di viaggio?

«Nel mentre si viveva e viaggiava, nostro figlio più grande iniziava a dimostrare di avere doti da campione nel nuoto e quindi dopo aver vinto diversi campionati ed essere stato scelto per rappresentare il paese in competizione nazionali, abbiamo deciso di dargli una grande opportunità, accettare una borsa di studio presso la “National Swimming Accademy” a Stirling, Scozia. Anche in questa occasione i nuovi amici scozzesi ci guardavano con aria molto perplessa dicendoci: “Venite dal sole, dalle Isole dove tutti noi aspettiamo di trasferirci una volta in pensione e siete dei pazzi a venire qui, tra pioggia, umidità e noia”».

Come è stata la vita scozzese?

«In effetti non era facile per chi come noi veniva da un passato di sole, spiagge, piedi nudi, libertà e contatti amichevoli e immediati. Qui le persone erano più riservate, più abituate a passare parecchio tempo in casa, più diffidenti. Dall’altro lato, però, le cose funzionavano a meraviglia, tutto era pulito, ordinato, curato, le scuole pubbliche superavano ampiamente quelle più blasonate, care e internazionali di mezzo mondo, gli uffici pubblici ti rispondevano in tempi record, la sanità privata era eccellente e la sicurezza, che dire, si dormiva con le porte aperte e le chiavi in auto, un sogno».

Perché allora vi siete rimessi in viaggio?

«Perché il nostro viaggio non poteva finire tra pecore, campi verdi, whisky e cornamusa. Dopo quasi due anni, dopo aver finalmente assimilato due frasi intere e veloci dello scozzese di Glasgow, che ha l’accento più incomprensibile e chiuso del mondo, ci siamo rimessi in cammino. Se é vero che quando sei al caldo, sogni il freddo e quando vivi in un posto nuvoloso sogni il sole a tutti i costi, la Costa del Sol era la direzione giusta. Qui Tommaso avrebbe continuato la sua carriera sportiva presso il centro di alto rendimento di Inacua Malaga, le ragazze avrebbero ritrovato la libertà di vivere all’aria aperta, la nonna avrebbe smesso di soffrire delle conseguenze dell’umido sulle ossa e noi ci saremmo divertiti a scoprire un nuovo pezzo di mondo».

Cosa avete trovato a Malaga?

«Abbiamo trovato un posto multietnico, pieno di cose da fare, dove tantissime persone avevano deciso di trasferirsi per godere delle temperature ottime, del sole 350 giorni all’anno, dei prezzi ancora accessibili, dell’aeroporto con voli che costano meno di una pizza e che collegano tutta Europa. Un posto che personalmente non mi ha mai convinto del tutto perché se é vero quello che dicono i malagueñi (che sono in assoluto le persone che più amano la città in cui vivono e non la cambierebbero nemmeno per Beverly Hills) che “Malaga lo tiene todo”, perché ha il mare, la campagna e le montagne dove poter sciare a 2 ore di distanza, é anche vero che si porta dietro una mediocrità generalizzata che me la fa ricordare con un mezzo sorriso. E questo nonostante ci abbia vissuto 2 anni e più la prima volta e un anno la seconda in cui ci siamo tornati. Qui i ragazzi hanno studiato, accumulando due divise in più, la prima al MIT International School che ci ha davvero delusi nonostante si fosse venduta benissimo e successivamente alla Sunland International School di Cártama che invece é davvero una buona scuola».

Quel tuo “mezzo sorriso” mi fa capire che ben presto hai riempito nuovi container per una nuova meta…

«Non sbagli. L’esperienza malagueña è stata sui toni medi e ci mancava un pochino la veridicità dei toni più estremi e quindi ci siamo concessi di scoprire un altro posto in terra spagnola, siamo passati dall’estremo sud all’estremo nord, esattamente in linea retta. Vivere in Asturias è stata un’esperienza emozionante, dura, ma di quelle che lasciano il segno. Ritrovarsi in un paesino sperduto, vivere in una casa che abbiamo ristrutturato sul cocuzzolo di una montagna, fare davvero tante ristrutturazioni perche le case lì costano davvero pochissimo, o meglio costavano fino a qualche anno fa, perché dopo il Covid si è trasformata in una delle mete preferite di madrileni ricchi che cercano pace, natura e niente stress. Inevitabilmente, quindi, i prezzi sono saliti alle stelle».

Ti è piaciuto vivere in Asturias?

«La vita in Asturias é lenta, romantica, lineare, le cose funzionano, la gente é ostinatamente chiusa ma buona, le strade sono pulitissime, cosa che non era affatto comune a Malaga, il mangiare é ottimo, non esiste la parola traffico, e le mucche sono più numerose che le persone. È facile capire che da una parte non si conosce lo stress, ma dall’altra forse mancano un po’ di stimoli, anche perché il tempo é spesso nuvoloso e può piovere per settimane ininterrottamente. Ma che bello é svegliarsi nel silenzio, poter visitare spiagge incontaminate, mangiare il Cachopo in un ristorante dal menu fisso a 12 euro e uscire pieni come dopo un cenone di Capodanno, confrontarsi con una terra piena di risorse e volutamente, gelosamente tenuta fuori dal turismo di massa. Qui abbiamo vissuto quasi 3 anni, abbiamo goduto di tutto quello che poteva offrirci questo spazio di mondo e con un po’ di malinconia siamo ripartiti, avevamo fame di vita, di sole, di caldo e di avventura».

Ora siete a Merida, in Yucatan, Messico. Come mai la scelta è ricaduta su questa città?

«L’abbiamo scelta sotto stretto consiglio di amici messicani che la chiamano la Città Bianca, quella sicura, quella in cui secondo i detti popolari, ma veritieri, vivono le famiglie dei narcotrafficanti più importanti del Messico, che hanno bisogno di avere uno spazio sicuro e controllato perché la loro famiglia possa vivere una vita al sicuro, protetta, quasi normale, dico quasi perché qui le cose non sono mai semplici. Noi viviamo in un’altra di quelle belle e fortunate mini città blindate e sicure, protette e controllate, lo Yucatan Country Club, in cui come dicono i nostri amici chilangos, ovvero provenienti da Città del Messico capitale dello Stato, qui si vive una vita come se si fosse permanentemente in una crociera. I ragazzi si muovono felici e sicuri sulle Golf Car, hanno laghi, tutti i tipi di campi sportivi, Starbucks, Spa, campi da golf, ville di amici in cui passano il tempo, scuola, università, tutto qui dentro».

In generale com’è vivere a Merida? Penso alla qualità della vita, ai costi, ai servizi ecc.

«Merida è una città dove le temperature ad oggi danno una sensazione termica superiore ai 46 gradi, dove l’umidità impazza, dove ci si rinfresca buttandosi nei Cenotes, dove la cultura e la lingua Maya hanno ancora tanta preziosa importanza. Molti amici che vengono da Città del Messico, una delle metropoli più pericolose del mondo abitata da quasi 30 milioni di persone, dove assalti, omicidi, sequestri e violenze sono all’ordine del minuto, non del giorno, dove per fare 10 km ci puoi tranquillamente impiegare 4 ore, trovano in Merida un paradiso in cui investire e in cui vivere senza paura. Per noi che non veniamo da situazioni così collegate alla violenza e alla paura, il punto di forza maggiore è la “simil sicurezza”. Non bisogna mai dimenticare che si vive in Messico: le temperature soffocanti durano 10 mesi l’anno e il traffico ti costringe spesso a passare 2 ore in auto per arrivare dalla zona nord al centro di Merida. La corruzione è un po’ ovunque, le cose funzionano relativamente e sono lente, lentissime. Nel nostro campo, inoltre, c’è molta incompetenza e se gli operai vengono a lavorare ogni giorno é già da considerarsi un gran successo. Tutti questi aspetti rendono la vita qui dura, complicata, alle volte estenuante. Ma se é vero che é in queste occasioni che si impara, si cresce, si migliora, ci si mette alla prova, noi continuiamo a spingere e a gratificarci dei risultati del nostro lavoro».

Una domanda che probabilmente sta incuriosendo tutti i nostri lettori, e anche me: come riuscite a sostenere economicamente tutti questi trasferimenti in giro per il mondo? Ci vuole un budget considerevole oppure no? Penso anche alle scuole internazionali frequentate dai vostri figli.

«Riusciamo a sostenere economicamente la nostra vita nomade, grazie al lavoro che facciamo. Un lavoro rischioso, pesante, fatto di tanti sacrifici e di enormi soddisfazioni. Trovare la casa che valga la pena, informarci sui permessi richiesti, cercare ogni volta una nuova squadra di persone che seguano le nostre indicazioni e soprattutto i nostri ritmi, seguire tutta la ristrutturazione stando sul cantiere anche 10 ore al giorno, come ad esempio qui in Merida con 45 gradi la mattina alle 10. E poi trovare il segmento giusto e indirizzare e seguire la vendita. Insomma non é un lavoro facile, ma ci permette di poter vivere il nostro sogno. Le scuole Internazionali sono molto spesso l’unica possibilità per dare ai nostri figli una costante nelle due principali lingue che parlano e perche in molti posti l’istruzione pubblica é davvero troppo basica».

In che modo riesci ad organizzare i vari spostamenti: dalla ricerca di una casa fino al trasloco vero e proprio? Ti affidi a qualcuno o fai tutto da sola?

«Sul come riesco ad organizzare tutto, vorrei poter aver modo di scrivere un articolo a parte perché é davvero un qualcosa che mi appassiona, che ormai riesco a gestire in maniera molto semplice, efficace, economica e pratica e sopratutto con zero stress. Dipende dal caso, dal paese dove andiamo, dalle condizioni climatiche, da quello che so che non troverò facilmente nella nuova destinazione o quello che invece non c’é bisogno di portare. Direi che abbiamo fatto decine e decine di container, abbiamo spedito semplicemente pacchi per posta, abbiamo lasciato tutto o come questa volta siamo partiti chiudendo tutto il nostro mondo, ognuno in soli 23kg di valigia permessa».

Hai parlato molto dei tuoi figli, del loro adattamento alle diverse realtà locali. Poco della nonna, una figura immagino molto importante in famiglia. Lei come ha vissuto tutti questi trasferimenti? Ha avuto difficoltà ad adattarsi, a fare amicizie, ecc? Come trascorre le sue giornate?

«La nonna ha sempre viaggiato con noi, lei ad oggi ha una vita limitata dalle conseguenze di un morso di una zecca in Sud Africa che l’ha fatta entrare in coma e che le ha lasciato numerose complicazioni. Si tratta della Malattia di LYME. La sua giornata é semplice, non può camminare molto, non ama fare grandi cose e quindi si gode la sua pace, ricama un sacco, dipinge e cucina, ma scopre e vive ogni paese con occhi attenti e curiosi. Lei vive sempre da sola, ma vicino a noi. Ognuno ha i sui ritmi, i suoi orari e le sue abitudini. Ci sono posti che le sono rimasti nel cuore e posti come il Messico che, ad esempio, non ama particolarmente, ma il suo bello é che non si stanca mai di viaggiare e questo la rende speciale».

Dei tanti posti in cui avete vissuto, ce ne è uno che vi è rimasto nel cuore più degli altri e perché?

«Un posto che a tutti é rimasto nel cuore e che per noi é casa é Città del Capo, Sud Africa. Un posto unico, speciale e in cui sogniamo tutti di poter perchè no tornare di nuovo».

Che consigli dareste a chi come voi sta pensando a un cambiamento radicale di vita?

«Un consiglio a chi vuole cambiare vita: bisogna sempre partire subito, quando si vuole andare via. Se si ritarda, si resta. Penso che alle volte faccia solo meno paura stare dove si é, ma invece guardando le cose con più lucidità restare e accontentarsi dovrebbe farne di più. Partire non deve voler dire scappare, deve voler significare qualcosa di più profondo, condiviso questo sì: viaggiando abbiamo conosciuto moltissime coppie o famiglie in cui uno dei due aveva in realtà trascinato l’altro e in questi casi, sempre, la famiglia o la coppia scoppiava. Se si parte insieme, tutti devono avere la stessa volontà altrimenti c’è davvero poca possibilità che si resista».

Com’è cambiata la vostra vita da quel lontano 2007, da quando avete lasciato tutto per vivere all’estero?

«Vivere da expat, farlo per tanti anni senza sosta, farlo con una famiglia al seguito, un mix di adolescenti, uomo e donna nella crisi di mezza età, una nonna con i suoi acciacchi, un cane che fa paura a tutti ma ha paura della sua ombra, essere stati capaci di ridurre il nostro mondo in 23 Kg di valige permesse, ci ha unito, ci ha reso una famiglia diversa, forte, compatta, certo ci ha anche lasciato senza radici, ha reso i ragazzi autonomi, maturi, diversi dai loro coetanei, capaci di sapere che quando si lascia qualcosa si soffre ma poi il nuovo ricompensa sempre, ci ha insegnato, ci ha tolto, ci ha messo e ci continua a mettere davanti a tante consapevolezze, tante scelte, tante domande, ma anche quando ci sono i giorni difficili, ci mettiamo una mano nella tasca e ritroviamo mille sassolini, ognuno con una nostra storia da raccontare da rivivere e ci ritorna il sorriso, la forza, la voglia di continuare a scoprire».

Vi manca mai l’Italia?

«Dell’Italia dopo 16 anni ci manca prevalentemente il cibo, sogniamo spessissimo di poter sederci ad un tavolo di un ristorante Italiano o ancor meglio di poter entrare in un semplicissimo supermercato».

Quali sono i vostri progetti per il futuro?

«I nostri progetti futuri? Goderci il presente innanzi tutto e poi viaggiare e continuare a scoprire tutto quello che di bello non abbiamo ancora visto. Magari imparare una nuova lingua o andare a vivere in un Continente che ancora non abbiamo scoperto. Certo fermarci per ora non é nei piani».

In che modo possono contattarci i nostri lettori?

«Il nostro Instagram STUDIOMUUNDO, vi mostra i nostri progetti, le case che abbiamo ristrutturato, le meraviglie che abbiamo incontrato nel cammino, vi fa scoprire un po’ dell’ingrediente segreto del nostro muoverci. Per chiunque avesse domande siamo a disposizione, la nostra e-mail è: info@studiomuundo.com. Di container, scuole, traslochi internazionali, coraggio, errori, pazzie, certezze e fortuna, ne sappiamo qualcosa, ma continuiamo a studiare».