“San Francisco Milano”: Federico, un italiano nell’altra America
L’ultimo libro di Federico Rampini “San Francisco Milano. Un italiano nell’altra America” già dal titolo ci da la chiave di lettura di questa testimonianza. Sebbene Rampini si sia trasferito da Milano a San Francisco, la città californiana nel titolo compare prima perché il giornalista guarda questi anni come da “uno specchietto retrovisore”. E altra America sottolinea la specificità di questa città rispetto al resto degli Stati Uniti. La lettura per chi, come me, abita a Milano lascia un sapore particolarmente amaro in bocca. Anche se le considerazioni che vengono fatte non sono peculiari solo di questa metropoli.
Metropoli che si è sempre vantata del suo ruolo di capitale politica e morale per ritrovarsi vecchia e stanca a fare da cartina di tornasole al Paese intero. Rampini ci restituisce l’immagine di una città quasi impossibile da vivere e lo fa non tanto mettendone in luce gli aspetti negativi quanto mettendo in luce quelli positivi di San Francisco. E lo fa senza retorica, senza nascondere i problemi e le difficoltà che si vivono anche a quelle latitudini. Ma il confronto è impietoso e chiama in causa il concetto stesso dell’essere cittadini. Storicamente laboratorio di mescolanze umane e innovazioni tecnologiche chi la abita ne fa un luogo civile attraverso piccoli gesti quotidiani che diventano gesti di portata politica.
Una città in cui i cittadini determinano e influenzano le scelte amministrative che li riguardano. Molto lontani da quella tendenza a delegare passivamente ad un’autorità così tipica dell’italica penisola. Un libro scritto come un diario di viaggio, con tanti quadri di piccoli e grandi episodi di vita.
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Abbiamo raggiunto telefonicamente Rampini negli Stati Uniti per una chiacchierata che dal libro è inevitabilmente “sconfinata” alla situazione generale dell’Italia.
Dottor Rampini intanto perché nel suo libro parla proprio di Milano?
Prima di tutto perché è la città che conosco meglio. È vero che ho passato tutta la mia vita sbattacchiato in giro per il mondo, però a Milano ci ho studiato e vissuto per un po’. E poi perché, nel bene e nel male, Milano è uno specchio fedele del clima politico e sociale dell’intero Paese.
Interessante infatti leggere nel libro di Rampini cosa significa integrazione vera, cosa vuol dire rendere cittadini partecipi uomini e donne provenienti da diverse parti del mondo. E cosa significa per San Francisco “tolleranza zero”. Niente a che vedere con i gruppi di poliziotti e militari che girano per le metropolitane di Milano o le varie leggi sulla regolazione dei flussi.
Leggendo il suo libro viene da pensare che noi italiani “no, non ce la facciamo” ma perché? Bisogna davvero arrivare a pensare che non siamo cittadini ma sudditi?
Guardi io credo che, in questo momento, si debba dire che in Italia c’è una democrazia malata, debole. E questa considerazione non può non chiamare in causa anche i cittadini, dal momento che questo governo non ha preso il potere con un golpe ma è stato liberamente eletto. C’è un libro, recentemente pubblicato dalla casa editrice Laterza “La libertà dei servi” scritto dal professor Viroli che spiega molto bene questo concetto. Al di la del titolo, comunque amaramente restitutivo di una certa realtà. Il servo è libero di deresponsabilizzarsi. E un cittadino, senza il concetto di responsabilità, in effetti, non è un cittadino. Non parlo di tutta la società italiana, perché c’è una parte notevole di essa che non è affatto contenta di come stanno andando le cose. Ma è innegabile che una grossa percentuale di italiani accetta tutto ciò. Pensi che nei sondaggi fatti sul gradimento di questo governo, a poche ore dalle squallide vicende di escort e compagnia bella, Il premier non ha subito contraccolpi. Forse questo negli Stati Uniti, pur con tutti i problemi che ci sono, non sarebbe possibile perché il concetto di cittadinanza è molto radicato e inculcato culturalmente.
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Come la vede l’Italia da li e come la vedono i giornali locali? Politicamente contiamo talmente poco da essere solo una macchietta?
Quasi tutti gli amici italiani che mi interpellano mi chiedono “Ma come ci vedono all’estero?” E capisco che sia una curiosità drammaticamente sentita e legittima. Devo dire che il giudizio dipende molto dal Paese da cui proviene. La Francia, per esempio, che è un paese che conosco molto bene, essendo così vicina, anche geograficamente, ha un’opinione durissima e molto severa nei confronti dell’Italia. Negli Stati Uniti o in Cina l’informazione politica arriva un po’ più diluita. Però se vengono scritti articoli più approfonditi allora il tenore del giudizio cambia. E la critica ad un certo modo di governare non si disgiunge, purtroppo, dalla critica a tutta la società italiana, per i motivi che dicevo prima.
Lei nel suo libro parla dell’imbarazzo che ad un certo punto la California ha provato nell’ avere Schwarzenegger come governatore; non ho potuto fare a meno di pensare che lo stesso imbarazzo non lo proviamo noi per certi atteggiamenti di chi ci guida. Allora è vero che non abbiamo interesse per la questione morale perché siamo il paese dalla doppia morale.
Forse sì, è un’affermazione forte ma forse è vera. Però per tornare alla questione dell’immagine dell’Italia devo dire che tra la gente il nome di questo paese è associato a cose bellissime. Parlare dell’Italia in America vuol dire ancora parlare di cultura, di architettura, dell’opera, della moda e del design. E soprattutto di enogastronomia. Le eccellenze italiane non vengono oscurate dall’attualità. E questi sono comunque punti di forza.
E a questo punto della chiacchierata questa considerazione mi spinge, come milanese e come italiana, a riflettere sulla mancanza di appetibilità di Milano e dell’Italia tutta in termini di investimenti economici e umani. La Silicon Valley viene descritta in questo libro come laboratorio e fucina di innovazione e dinamismo mentre Milano adesso si prepara con criminale negligenza e disinteresse all’Expo. Ospitando, se riuscirà, una manifestazione che rimarrà lettera morta e non occasione di vero rinnovamento.
Si però bisogna dire che davvero “nemo propheta in patria”. Mi ricordo le parole di un’intervista di Renzo Piano che diceva che, per un certo tipo di italianità all’estero si trova sempre una tavola apparecchiata. Non da noi però
Eh sì, Renzo Piano è un caso significativo di sottovalutazione. Negli Stati Uniti ha realizzato decine di importanti lavori. So che, per esempio, il comune di Genova non ha accettato alcune cose che lui avrebbe realizzato gratis per la sua città. In effetti il problema della fuga dei cervelli dall’Italia è serio. Facciamo solo questo esempio: l’Università Bocconi e il Politecnico di Milano sono università da cui escono studenti preparatissimi. I migliori di loro arrivano negli Usa e sono alla pari, quando non ad un livello superiore, con i migliori studenti provenienti dal resto del mondo. Queste sono risorse italiane da cui l’Italia dovrebbe ripartire.
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Invece leggendo il suo libro si ha sempre più la sensazione che al nostro Paese manchi un concetto fondamentale: il futuro, inteso come visuale a lungo termine.
Sì. La prima cosa da cui ripartire deve assolutamente essere quella di indurre questi giovani a tornare in Italia. Le risorse ci sarebbero, le eccellenze anche. È obbligatorio ripartire da li. In queste persone il futuro ci sarebbe.
Anche per costruire una classe dirigente degna di questo nome.
Esattamente. Per questo seguo molto da vicino anche la questione della riforma universitaria.
Da li, se dovesse definire l’Italia con una sola parola cosa direbbe?
Con una sola parola? Domanda difficile anche perché la parola sarà cattivissima: traditrice. Sì mi viene in mente questa parola. L’Italia è come una bellissima donna, di cui ci si innamora e che ti delude ogni volta. E il tradimento è un’esperienza dolorosissima per chi ama.
Pensa mai di tornarci?
Guardi io non faccio più progetti anche perché i miei trasferimenti non sono mai stati decisi da me solo. Non posso quindi escludere nulla ma per il momento non ne ho nessuna intenzione.
Leggere questo libro non consola e provoca rabbia e amarezza portandoci, capitolo dopo capitolo, all’interno di un modo di vivere e convivere che a noi appaiono lontani anni luce. Però è una lettura che consiglio come sollecitazione continua e come provocazione nel senso etimologico del termine.
Intervista di Geraldine Meyer