Non ho voluto farle domande per lasciare che la narrazione scorresse così, con il proprio ritmo, con i ricordi e le tappe che Anna ha voluto ricostruire. Leggendo la sua storia si avverte quanto sia importante narrare anche per cambiare. In ambito aziendale si fa sempre più largo lo story telling, in quello psicoanalitico e formativo si sottolinea sempre più l’importanza di raccontare a se stessi la propria storia. La narrazione permette di giocare con i tempi, i punti di vista e i personaggi. E mentre crea una trama introduce leggerezza nella storia. E la storia di Anna, pur testimonianza di un cambiamento enorme, è leggerissima. Buona lettura.

 

La poesia può salvare la vita

Lavoravo part time in un ufficio di assicurazioni, ci sono stata tre anni e mezzo, poi nel maggio scorso, sette mesi fa, ho mollato tutto. E prima? E dopo? In effetti io sono sempre stata una lavoratrice anomala, e perciò quella lunga parentesi devastante di ufficio è stata un’anomalia anche lei, in una vita che di regolare forse ha solo i tratti del viso e il corredo cromosomico. Prima di quel lavoro, al termine di un percorso scolastico tutto sommato perbene ma anch’esso vissuto con estrema insofferenza e senso di estraneità – liceo classico in centro di Milano, Lettere alla Statale, poi cambiate con Filosofia, e laurea in quest’ultima materia con 106/110 – avevo fatto traduzioni, revisioni editoriali di ogni genere, avevo scritto libri di ogni tipo sotto pseudonimo per quattro lire, le buone vecchie lire della giovinezza, e un bel po’ di libri miei, che poi vendevo soprattutto durante le presentazioni; e poi avevo scritto qualche articolo qua e là, scritto canzoni, dato lezioni di chitarra, lavorato come interprete per la Polizia, cos’altro? Ah sì, stavo dimenticando la cosa più corposa e distruttiva di tutte, le tesi. Per dieci anni ho scritto da capo a piedi tesi di laurea per un’agenzia specializzata in questo illecito.

Ho fatto più di settanta tesi, su tutti gli argomenti a me accessibili, dalle materie umanistiche fino a Economia, Giurisprudenza e perfino Medicina. Il tutto, sempre per tre soldi in croce, in nero, senza il minimo riconoscimento, bruciandomi inesorabilmente un neurone dopo l’altro, giorno e notte, giorno e notte… Sì, ok, le bollette arrivavo a pagarle. Ma dopo? Stavo di merda. Se mi passate il termine. Nel frattempo, diciamo 15-20 anni fa, la mia amatissima mamma cominciava a stare male, se n’è andata nel novembre 2007, e a me cosa volete che importasse di tutte le buffonate del mondo. Mi interessavano mia madre, il Niguarda, le mie poesie, la boiata chiamata amore. E tutto quanto franava e splendeva insieme al tempo della mia vita.

Non ne potevo più delle tesi, che fra l’altro funzionavano sempre peggio, di pari passo con l’incasinamento generale dell’Università, la crisi economica incipiente, la concorrenza, internet.

La Poesia può salvare la vita

Finché poi, miracolosamente, l’occasione impensata che avrebbe risolto i miei problemi: un’amica, titolare di un’agenzia di assicurazioni, si trova allo scoperto con le impiegate, perché una è in maternità e l’altra si è licenziata. Scherzando mi dice: “L’ufficio è messo così male che quasi quasi potresti venire tu!”. E io prendo al volo l’occasione. Ci siamo! Impiegatucola di assicurazioni, come Kafka e Pessoa e Italo Svevo, mi dicevo: ma già questo svolazzo mentale che mi ripetevo come un mantra per farmi coraggio nei giorni sempre più pesanti che andavo ad affrontare, poteva suggerire che più di tanto non sarebbe durata.

Infatti poi è stato un disastro. Non avevo proprio la testa. Entravo lì e mi veniva una specie di sordità isterica, non sentivo il telefono, non sentivo quello che mi dicevano. Precipitavo in un’atmosfera di ostilità, non avevo capito che una ditta è la metafora di una radura preistorica piena di tirannosauri. Non capivo la mentalità dell’altra impiegata, nuova anche lei ma vecchia volpe da ufficio, che faceva dei ragionamenti incomprensibili, con doppi e tripli e forse quadrupli sensi, riferiti a privilegi piccolissimi; per esempio, c’era uno stato perpetuo di guerra per le ferie, ma io non lo sospettavo neanche, e così mi facevo fregare tutti i giorni di ferie, che venivano prenotati dalla mia collega con mesi di anticipo, mentre nella mia mente anche solo parlare di “fra un mese” è un tuffo nel principio di indeterminazione di Heisenberg, ma chissà dove sarò io fra un mese, chissà se respirerò ancora? Non avevo introiettato a livello cellulare che un ufficio è per sempre, che il ritmo della vita e dei pensieri deve assumere una scansione determinata dal mondo dell’ufficio.

Poi ci si è messa una crescente ostilità da parte della titolare, ormai diventata ex amica: probabilmente, anzi sicuramente, l’ho delusa nelle sue aspettative, prima mi amava e poi mi ha odiato, e non si faceva problema a manifestarmelo. Non mi sopportava più, le dava fastidio come mi muovevo, come mi vestivo. Mi avrebbe ammazzato ogni volta che facevo un errore, e purtroppo mi sentivo così male che ne facevo tanti. Un circolo vizioso sempre più stretto attorno alla mia gola.

Il tutto per uno stipendio buono in assoluto ma pur sempre da part time, circa 640 euro al mese, che quindi non mi permetteva nulla se non la sopravvivenza, mentre il tempo libero che avevo era bruciato da una continua stanchezza e dall’impossibilità di impostare altri progetti. In poche parole non riuscivo più a fare niente, l’ufficio mi assorbiva tutte le energie, mi angosciava tanto, mi distruggeva l’umore e non mi dava possibilità di gettare uno sguardo al futuro. Mi sentivo in trappola. Se si aggiunge un altro elemento più sottile che forse le persone sane non riusciranno a comprendere ma per dovere di verità devo riferire, cioè quella sorta di dipendenza sonnolenta che dà la routine, come uno rimbambito di valium, quell’attaccarsi a ogni piccolo particolare extra-mansioni relativo all’ufficio, per esempio andare a bere il caffè al bar di sotto, guardare le piastrelle del bagno, affettivizzare l’anonimato dei gesti ripetitivi, seguire il rumore della macchina delle fotocopie, rifugiarsi nell’apnea esecutiva – si dovrebbe capire che davvero non ce la potevo più fare.

Ho cominciato a dare vistosi segni di cedimento. Dovevo assolutamente andarmene ma a quel punto mi ha preso l’insicurezza. Anche perché nel frattempo nonostante tutto ero diventata bravina, me la cavavo meglio, ricevevo l’affetto e la stima degli altri due soci, benché l’ex amica fosse sempre più una belva. I soldi erano pochi ma c’erano. E dopo che cosa avrei fatto? Ritornavo col sedere per terra come sempre?

Confusione, confusione in me! Scoramento. Per arrivare a lasciare l’ufficio ho attraversato una gran crisi, acuita dal fatto che ho dovuto forzare il muro denso delle paure, delle prediche accorate, degli avvertimenti angosciati di quasi tutte le persone a me più care. Ansia porta ansia. Insomma, la situazione era questa: io, artista immatura e inquieta, senza nessuna sicurezza economica alle spalle, un po’ sociopatica, con una vita familiare riassumibile in tre parole – bellezza, amore e tragedie – all’alba dei quaranta e passa anni, senza nessuna capacità particolare se non quella di essere sveglia e acculturata, avevo avuto il colpo di fortuna di un lavoro tranquillo, dignitoso, sicuro, vicino a casa, solo al pomeriggio, con l’assunzione a tempo indeterminato! Con la crisi economica nel frattempo deflagrata!

La Poesia può salvare la vita

“Stai attenta, stai attenta… No, non sono proprio d’accordo… Ma sei pazza? Ragiona così: l’ufficio c’è, e questa è la sicurezza; poi, al mattino, alla sera, nei weekend, puoi portare avanti i tuoi interessi. Poi cerchi di farti più furba, impari a contrattare meglio le ferie, una botta qua una là, un po’ di malattia… Qualche lavoretto extra per arrotondare… Quel minimo di sicurezza che ti permette di stare tranquilla e di scrivere i tuoi libri senza l’ansia di non avere i soldi per fare la spesa…” Queste cose mi dicevano le persone a me più vicine, persino la psicoterapeuta! Ma perché nessuno mi capiva, perché non riuscivano a vedere che non era proprio così, che io ci lasciavo la pelle, in quell’ufficio! Oltretutto io non sono sposata, non ho figli, non ho un’altra dimensione di vita o costruzione parallela in cui riconoscermi. Non sono veramente adulta, non ho nessuna tranquillità. La mia inquietudine, la mia malattia se volete chiamarla così, è davvero inconciliabile con discorsi apparentemente realistici di quel tipo, che però non sono realistici perché non sono veri.

E’ arrivato il giorno della classica goccia che fa traboccare il vaso. Una frase orrenda contro di me da parte della titolare, e io che allora ho preso l’occasione, ho preso la porta. E addio. Fuori, desolata, nella pioggia, ma con le orecchie in fiamme, alle quattro del pomeriggio, tutta stranita come uno che esce da San Vittore senza nessuno ad aspettarlo e senza un posto dove andare. Non era proprio il mio caso, per fortuna. Telefono alla persona extrafamiliare che mi ama e che mi sostiene, glielo dico tutta sconvolta, mi viene da piangere per l’accumulo di emozioni; lei mi dice di stare tranquilla e approva la mia scelta. Così come, subito dopo, le mie migliori amiche.

Resta il problema del mio vecchio padre, e voi potrete ridere, ma non ho ancora avuto il coraggio di dirglielo. Per lui sarebbe un duro colpo. Rimando sempre il momento. Non ho voglia né di prendermi una sgridata dolorosa io, né di fare andare la pressione alle stelle a lui.

E adesso? Adesso sono impegnata a tutto tondo in un progetto adatto a me, la Scuola di Poesia Lamberti-Bocconi. Perché sono ferratissima in poesia, è la cosa che meglio conosco “dentro” e che so trasmettere. Avevo cominciato a tenere dei corsi di scrittura poetica già ai tempi dell’ufficio, ricevendo da subito un riscontro talmente positivo, al di là delle mie aspettative, da incoraggiarmi ad andare avanti. I risultati sono ottimi, i miei allievi si sciolgono, diventano bravi, la gittata di arte, artigianato e anche di terapia che può avere lavorare in un gruppo di scrittura si sprigiona potentemente. Insegno tecnica e spirito. Per conto mio affino la didattica, maturo e propongo nuove idee, ho persino affittato una casa in montagna per poter svolgere seminari residenziali tutto l’anno, che io chiamo “Laboratori-Vacanza”. E ai quali siete caldamente invitati tutti quanti. Si sta bene, si crea l’età dell’oro, un altro mondo è possibile.

“E i soldi? Ce la fai a campare?”, mi chiedono. Rispondo: insomma, per ora è ancora molto dura. Faccio prezzi stracciati, non sono abile nella promozione, se fosse per me non avrei neanche voglia di farmi pagare. Però, mi dico, se l’alternativa è l’ufficio oppure la mensa dei poveri, cara Anna, è meglio che ti dia da fare, che cerchi il più possibile di diventare manager di te stessa. E così faccio. Questa è la situazione addì 19 novembre 2010. E per tenervi aggiornati mi sono anche fatta un blog, http://lambertibocconi.blogspot.com/.

Un abbraccio e un saluto a tutti.

Anna Lamberti-Bocconi

A cura di Geraldine Meyer