Ho raccontato le mie storie nei teatri, ho accolto quelle di altri dove capitava. Attraverso le vicissitudini appare, però, l’impossibilità di realizzare da sola il mio progetto in quei Paesi. La mia è, infatti, anche la storia di un’autonomia, che deve riuscire a passare fra le maglie strette degli schemi sociali. E’per questo che sono tornata in Italia, dove ho fatto del camper la casa ed il mezzo di trasporto più adatti all’impresa, percorrendo ogni provincia per conoscere e far conoscere le qualità di alberi, animali, fenomeni naturali, persone e luoghi.

Viaggiare come la luna

Con le mie “fantastiche storie vere della natura” volevo e voglio avvicinare le persone a ciò che le può far sentire come parte di un insieme affascinante in cui ciascuno ha una parte di rilievo, quando prende responsabilità di sé per poter realizzare scopi comuni.

Dedico il libro all’Italia, nel suo centocinquantesimo anniversario dall’unità, perché leggendolo ci si accorga che patrimonio di tutti, al di là di ogni origine e preferenza, è la natura. Difendere il nostro territorio e quello del mondo intero, si può fare oggi con i mezzi pacifici e fortemente terapeutici, che derivano dal prendersene cura con competenza ed amore.

Qui di seguito potrete leggere un estratto dal capitolo dedicato al Senegal e uno da quello dell’Italia

LE TERMITI E LE CASE DI TERRA

Lungo la strada della Casamance che porta verso Enampor, gruppetti di palme circondano grandi termitai e li proteggono con l’ombra. Guglie di terra alte fino a sei metri si alzano da una base larga, come un’eruzione del suolo ardente. Sono dure come pietra ed esternamente deserte. Le termiti non escono mai alla luce; vivono nel buio dove scavano e costruiscono lunghissime gallerie per arrivare al cibo, cementando ogni granello di sabbia con le feci collose, riparandone i guasti dopo aver umettato i raccordi con la saliva. Ampie stanze, lunghi corridoi, alti camini, minuscole aperture fanno circolare l’aria perché si rinnovi e mantenga costante la temperatura all’interno, dove migliaia o milioni di creature senza occhi, si riconoscono al tatto e all’odore. Popolano la terra fin dagli inizi del mondo, prima delle formiche, avversarie ben fornite di difese che loro non hanno. E’ da allora che si sono ritirate nei castelli presidiati da soldati, che ne vigilano ogni apertura e la ostruiscono con l’arma che è l’enorme testa cornuta. Non mancheranno mai di cibo, loro che si nutrono di tutto ciò che è vegetale, consumandolo dall’interno, per non esporsi mai alla luce. Una galleria sottile quanto un dito le porta alla base di alberi, che masticano voracemente fino quasi alla corteccia, svuotandolo per intero senza che niente lo lasci sospettare. Solo quando crolla come un abito sospeso nell’aria ci si accorge della loro opera nefasta. Sedie, tavoli, porte e travi si afflosciano d’un tratto dopo il loro passaggio, se appena li si tocca. Degli abiti restano solo i bottoni, dei carri rimangono le parti di ferro. Così è successo a volte.

Qui sembra che non ne abbiano bisogno e la gente vive tranquilla accanto a loro, in case di terra cruda che debbono la tecnica anche a quegli insetti. Come loro, gli uomini le hanno sempre costruite lavorando in gruppo, mescolando terra e paglia con acqua e sterco bovino, ricco della cellulosa che dà sostegno ai vegetali.

Ad Enampor c’è una casa circolare ad impluvio con un cortile interno, dove una vasca raccoglie l’acqua piovana scesa dal tetto rivestito di paglia, con le travi in legno di palma borasso e mangrovia, che resistono alle termiti. Accoglie varie famiglie, ed era stata costruita quando le guerre si combattevano con lance e frecce. A M’lomp ci sono case singole di terra cruda a due piani. L’antico metodo è altrove adattato alle esigenze moderne e le dimore più all’avanguardia lo hanno fatto proprio. Ma ancora si possono vedere dappertutto nel mondo, quelle che anche la povera gente può edificare,  belle come costruzioni di fiaba e robuste come castelli.

MODENA ED IL GIARDINO ESTENSE

A Modena c’è una palazzina in fondo al giardino estense, tutta dipinta di arancio, con grandi vetrate ed il disegno barocco di quando era stata costruita a metà settecento. Musica e ballo erano nel suo destino, scritto dai granduchi che avevano avuto il palazzo lì vicino e riservavano al piacere del ritmo, lo spazio fra gli alberi domestici.

Estensi

La grande quercia del prato di sinistra era già adulta quando solo qualche spirito sensibile poteva immaginare che un albero apprezzasse la musica. Ma in fondo, poiché molti strumenti sono di legno, aveva senso pensare che le fibre di ciascun albero sapessero anche cogliere il piacere delle vibrazioni sonore.

L’allegra musica da ballo, che porta le persone ad avvicinarsi e muoversi con grazia, era stata forse assorbita dalla quercia con l’odore dei corpi nell’estasi del ritmo condiviso. Si era diffusa nella terra fino a diventare parte della sua sostanza, portata dalle radici che la percorrevano tutta. Vi era rimasta anche molto tempo dopo che la palazzina aveva cambiato destinazione ed ospiti, fino a diventare una serra.

L’orto botanico, che era stato fondato proprio sulla destra del giardino, si era esteso fino a prenderne una buona parte e gli alberi originari erano stati sostituiti quasi tutti tranne la quercia, che ben raramente ha avuto da allora l’occasione di gustare musica. Chissà se era stato il terreno, che ne aveva conservato integro il sapore, a dare ai nuovi alberi un carattere incline all’abbraccio. In riva allo stagno, un frassino ed un olmo erano cresciuti vicinissimi, intrecciando le loro radici sopra il pelo della terra, come mani che avessero incrociato fra loro le dita. Una quercia si era accoppiata ad un tiglio e addirittura, in un punto più appartato, un cipresso calvo si era avvinto ad un frassino ed un bagolaro insieme. Due alberi di Giuda e due carpini erano cresciuti da gemelli, vicini ma con quel minimo di distanza necessaria alle coppie di consanguinei e le acacie se ne stavano in gruppo come amiche adolescenti.

Le coppie, nel parco estense sono più numerose fra gli alberi che fra gli umani. Eppure proprio quello è uno dei pochi posti dove si può sperare in uno sguardo, in un sorriso che sarebbe troppo aspettarsi per la strada, dove ciascuno corre verso chissà cosa. Tra alberi e fiori, invece, dove si viene a passare un po’ di tempo all’aria aperta, un poco più di coraggio nel mostrare il proprio desiderio di compagnia lo si può avere. C’è nello sguardo dei ragazzi stranieri che vengono lì con la speranza di fare qualche amicizia, in un Paese dove si sentono certo molto soli. Seduti sulle panchine, nel pomeriggio, commentano il passaggio delle donne nei loro idiomi esotici, ne cercano lo sguardo, sorridono. Se si risponde almeno con gli occhi dicono qualcosa, uno si alza, cerca di fare conoscenza, cammina fino all’uscita dove un bagolaro vive con un giovane acero campestre e sul lato opposto, vicino al cancello, un olmo abbraccia uno spaccasassi adolescente. L’uomo non ci fa caso, occupato com’è a cercare le parole adatte ad interessare la donna. Ma lei intuisce che è troppo sprovveduto e preferisce continuare da sola la sua passeggiata, fino al prato dove sta la quercia monumentale, con davanti un olmo bellissimo e vedovo, che tiene tra le radici il tronco mozzato del suo compagno, morto da tanto tempo.

Anna Cassarino

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