Guardo, come mia abitudine le note biografiche dell’autrice e resto impressionata dalla data di nascita, il 1974 e i lavori svolti da questa giovane studiosa: ricercatrice presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh, consulente presso il Dipartimento Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite e coordinatrice degli studi condotti in Europa dal team di ricerca di Richard Florida. C’è di che attrarre l’attenzione di chi, come me, alla soglia dei 45 anni, si ritrova spesso a fare un calcolo tra età anagrafica e cose fatte nella vita.
Il libro è già superato per alcune considerazioni, diversi dati sono già molto diversi rispetto a solo due anni fa: l’Irlanda non è più il paese fenomeno della comunità europea, la Spagna naviga in mezzo a difficoltà impensabili anche solo due anni fa per chi, come noi, sognava uno Zapatero alla guida del nostro paese. Ma le considerazioni di fondo, che emergono dalle pagine sono assolutamente attuali e precise in modo molto amaro. L’autrice ci consiglia una lettura più disincantata del termine creatività. Parola chiave per ogni sviluppo concreto e profondo, tanto più disattesa quanto più circondata da luoghi comuni.
Il libro è un racconto che va molto al di là della cronaca, triste e risaputa, della fuga di cervelli e analizza il talento tenendo presente dinamiche complesse e non solo economiche. Il talento non è solo una questione individuale ma elemento sociale che si nutre sì del contesto ma che nutre anche ciò che gli sta attorno.
Cosa fa il nostro paese per valorizzare la cultura, la preparazione e la conoscenza? Ci vantiamo dei geni, artisti e scienziati di cui è ricca la nostra storia dandoli per scontati e nello stesso tempo attuiamo politiche economiche e universitarie che mortificano il sapere. Un altro esempio tipico di quella doppia morale così radicata nel nostro patrimonio valutativo e antropologico.
L’autrice ci guida attraverso i meccanismi con cui il sistema mondiale affida valore al talento e alla creatività, in parallelo al modo in cui viene considerato in Italia. Università, sistema sociale, imprese forse da noi hanno perso il passo rispetto al cambiamento che, altri Paesi, hanno cominciato a cavalcare già negli anni settanta.
L’Italia diviene sempre meno appetibile per chi ritiene che la creatività non sia qualcosa a cui rivolgere un sorriso di superiorità ma terreno di investimento e profitti futuri. E questa mancanza di attrattiva riguarda sia il mercato interno che quello estero. Una mentalità poco permeabile a scambi e trasmissione di esperienze stanno rischiando di lasciare l’Italia ai confini del mondo sviluppato.
Un Paese che non dà un riconoscimento sociale alla cultura è destinato a soccombere nelle acque melmose di tradizioni sclerotizzate portate come bandiera di un sapere ormai inutile. Non perché la cultura di cui è erede questo Paese non abbia importanza ma perché la si tratta come fosse materia morta.
Il talento e la creatività di cui spesso si riempiono la bocca politici e baroni universitari non è qualcosa di innato nel dna del nostro popolo ma necessita di un contesto che lo coltivi, lo arricchisca e lo riconosca come elemento imprescindibile per ogni sviluppo. Invece, spesso viene percepito come fosse qualcosa da temere, nel suo potere dirompente rispetto all’immobilismo di posti di potere o rendite economiche.
Cosa significa investire sulla ricerca? Significa investire sul futuro del nostro sviluppo anche attraverso una osmosi con flussi di ricerca provenienti da altri paesi. Cosa potrebbe rendere interessante il nostro paese per le imprese mondiali? Non certo solo la manodopera, che per altro continua a non essere competitiva rispetto ad altri mercati. Ma l’autrice ci mette in guardia anche da questo tipo di mentalità che gioca al ribasso: persone poco e male pagate non sono certo una premessa di lavoro creativo e qualificato.
La lettura di questo libro mi è arrivata come un colpo di ferro appuntito. E, di fianco alla lettura delle sue pagine, sentivo ad ogni istante la domanda: “Cambierà?” Cosa ci manca, cosa ci tiene legati e invischiati sempre alla stessa vecchia mentalità paternalistica e levantina? Come ci vedono davvero dall’estero?
Questo libro è stato una lettura stimolante anche se fonte di grossa amarezza. Chiaro, semplice come ci si aspetta da chi sa di cosa sta parlando. Perché Irene Tinagli lavora all’estero? Perché tanti altri lo hanno fatto o desiderano farlo? Anche solo i titoli dei paragrafi di questo libro sono uno stimolo alla riflessione: Talento come genio; Italia tra ottimismo e declinismo; Conviene studiare?; Il costo dei cervelli in fuga. E tanti altri. Ciò che mortifica, è il caso di dirlo, è notare come spesso ci si trovi a leggere posizioni contrapposte ferme nella difesa di tesi precostituite e dal fastidioso sapore di difesa di potere anziché analisi davvero tese a affrontare il problema.
Ci deve essere una terza via tra la fuga all’estero e la rinuncia. O dobbiamo continuare a sorprenderci quando leggiamo di casi di eccellenza italiana in Italia? Il capitale umano è la risorsa più importante per un Paese intero non solo per una impresa. Ma forse la nostra mentalità cattolica ci impedisce di considerare le persone come un capitale, come se questa parole avesse una connotazione negativa. Eppure già il Vangelo ci ha insegnato la parabola dei talenti che non sono da lasciare sepolti.
L’autrice ci restituisce storie ed esempi assolutamente chiari e pertinenti al tema del cambiamento, che deve essere cambiamento di prospettiva a lungo termine e a partire dalle persone secondo le parole di un imprenditore americano: “Convinci le persone che sono loro a fare la differenza e le persone la faranno davvero.” Sarebbe un bel cambiamento.
A cura di Geraldine Meyer