Mangiare bene per vivere sani

Filippo Ongaro è Direttore Sanitario dell’ Istituto di Medicina Rigenerativa e Anti-Aging (Ismerian) e Vice-Presidente Associazione Medici Italiani Anti-Aging (AMIA). Ha a lungo collaborato con la NASA e lavora ora nel campo della nutrigenomica: vedremo di cosa si tratta parlando con lui del suo libro “Mangia che ti passa”. Un libro importante sul mangiare bene per vivere sani. E lo è tanto più quanto più mette in luce il sostanziale buon senso di cui si fa forza. Il dottor Ongaro parte facendo una semplicissima domanda: “Mettereste della sabbia nel motore della vostra macchina? Eppure è quello che si fa nell’arco delle nostre esistenze, durante le quali si immettono nell’organismo dalle trenta alle sessanta tonnellate di cibo, raffinato, ricco di zuccheri e calorie.” Ma il messaggio fondamentale di questo testo non è puramente dietetico, non ci spiega solo il potere calorico dei cibi ma quello curativo e preventivo degli stessi.

Nutrigenomica è una parola difficile dietro cui, in realtà, si cela un concetto semplice e fondamentale: il cibo influisce sui nostri geni, dando vita o inibendo reazioni molecolari che determinano il corretto funzionamento o meno di tutto l’organismo. In una parola possono determinare la salute, la mancanza di salute, l’insorgere di malattie croniche o il riequilibrio delle condizioni ottimali di funzionamento organico. Tutto ciò comporta un cambiamento rivoluzionario rispetto non solo al concetto di cura e prevenzione ma anche rispetto alla specificità e unicità di ogni singolo organismo umano. E mette in gioco e in discussione tutta una serie di cambiamenti comportamentali, non solo legati al cibo ma anche alla consapevolezza dei consumi e di stili di vita sempre più problematici. Le cure farmacologiche restano fondamentali ma è altrettanto fondamentale il terreno fisiologico funzionale su cui agiscono. Non si tratta solo di uccidere ciò che si ammala ma di riportare equilibrio nell’organismo intero. E il modo in cui si mangia e ciò che si mangia sono ormai, dati scientifici alla mano, assolutamente fondamentali per una risposta molecolare che fa la differenza tra la salute e la malattia. Ne parliamo con il dottor Ongaro che ci racconta, in questa bella intervista, cosa comporta una vera e propria educazione alimentare, e culturale.

Mangiare bene

Dottor Ongaro perché è importante capire che lei non ci sta parlando di medicina alternativa ma, in un certo senso, di medicina innovativa?

Perché secondo me sono termini da abbandonare che, tra l’altro, non ho mai compreso appieno. Medicina ufficiale o medicina alternativa: sarebbe meglio parlare di medicina che funziona e basta. Sarebbe meglio parlare di obiettivi scegliendo, per esempio, il mantenimento di una salute ottimale invece della semplice soppressione dei sintomi e sarebbe meglio basarsi su 3 semplici pilastri condivisibili da tutti: le evidenze scientifiche, la storia personale del paziente e la sua individualità e l’esperienza clinica del medico. Ecco l’innovazione: rimettere al centro il rapporto umano tra medico-paziente arricchito dalla ricerca scientifica più recente.

Mi piace leggere quello che lei ci spiega come una metafora che va oltre l’argomento cibo, cioè la necessità di non fermarsi ai sintomi, è così?

Certamente. Il problema di oggi è che la ricerca ci fornisce già ora la possibilità di garantire più salute a tutti, associando longevità a qualità della vita. Il problema è che questa enorme mole di nuove conoscenze, che originano dai progressi in genomica e biologia molecolare, ci mostrano un quadro dell’organismo e della malattia che cozza con l’organizzazione vecchia e superata della medicina suddivisa per specialità d’organo, come se l’organismo non fosse altro che un insieme di organi scollegati tra loro. In altre parole il nuovo sapere medico richiede una nuova architettura, un nuovo sistema operativo. La medicina è organizzata secondo criteri che riflettono le conoscenze dei primi del novecento e che erano funzionali a contrastare le grandi epidemie di malattie infettive. Oggi siamo di fronte ad un quadro totalmente diverso in cui le malattie emergono a causa di stili di vita errati e ambiente malsano e che sono tipicamente croniche nel loro manifestarsi. I medici sono impreparati a questa nuova sfida.

Ciò che mi ha colpito è stato diventare consapevole che, in fondo, lei ci parla dell’importanza di qualcosa che sa di antico: il cibo come parte integrante del funzionamento dell’organismo. Come e quando abbiamo cominciato a deviare da questa strada?

Diciamo che ci sono state varie deviazioni nel corso dell’evoluzione umana. La prima è stata senza dubbio l’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento circa 10.000 anni fa. Si è trattato di un passo avanti fondamentale che ha permesso all’uomo di iniziare un’organizzazione della produzione del cibo e che lo ha liberato dalla condizione limitata e vincolante del raccoglitore-cacciatore. Allo stesso tempo ha introdotto nuovi alimenti per i quali eravamo e tuttora siamo in parte inadatti. Ma la vera deviazione massiccia è arrivata con la rivoluzione industriale che ha reso il cibo un vero e proprio prodotto da raffinare, alterare, processare, conservare, spesso rendendolo più gradevole ma quasi sempre meno bio-compatibile. Un ultreriore elemento di rottura proviene dalla globalizzazione che ci ha fatto perdere del tutto il controllo sul cibo che ingeriamo che ora proviene dalla parti più disparate del mondo. I ricercatori parlano di globalizzazione e modernizzazione come di una combinazione obesogenica.

L’industria alimentare e quella farmaceutica sono in un certo senso complici di una deviazione consumistica rispetto al cibo e al concetto di cura. C’è davvero il modo per rompere questo circolo vizioso?

L’industria fa i propri interessi. Sono mancati invece progressivamente i filtri necessari per contenere i desideri di profitti e l’eccesso inutile di consumi: leggi che limitino la tipologia di pubblicità consentita, medici che comprendano gli effetti del cibo sull’organismo, percorsi di educazione alimentare seri e non sponsorizzati direttamente o indirettamente da chi dal cibo ci guadagna. Per rompere questo circolo vizioso, così come per molti altri circoli viziosi che caratterizzano la nostra società, occorre diventare consumatori più consapevoli, capire l’impatto che nostri consumi hanno sulla nostra salute e su quella del pianeta. E poi assumersi maggiori responsabilità per quello che riguarda la salute: tendiamo a pensarci solo quando la perdiamo e in genere a quel punto è troppo tardi.

Uno degli elementi fondamentali del suo discorso professionale mi pare sia il recupero del concetto di persona nella sua interezza e nella sua specificità: una vera rivoluzione culturale, oltre che medica, rispetto alla legge dei grandi numeri e quindi dei grandi interessi economici. Cosa deve fare un medico, indipendentemente dalla sua specializzazione?

Certo è una rivoluzione difficile da applicare in un contesto in cui alle esigenze di cura prevalgono quelle di bilancio. Va chiarito però che nella gestione del malato acuto la medicina fa cose eccezionali. E’ per il paziente cronico che spesso manca una visione integrata e una gestione a lungo termine delle sue molteplici problematiche. Ancora una volta la biologia molecolare ci indica l’importanza dell’individualità di ciascuno di noi. Ogni rapporto con un paziente dovrebbe partire da uno studio approfondito della persona e non solo dell’organo sintomatico. Bisogna essere bravi generalisti prima di entrare nel dettaglio della propria specializzazione. E poi occorre uscire dalla mentalità che porta il medico a pensare che se non c’è un danno organico vuol dire che la persona sta bene. La salute non equivale all’assenza di malattia ma alla funzionalità ottimale che dovrebbe essere il vero obiettivo di ogni intervento terapeutico.

Lei parla di un cambiamento anche nel ruolo del paziente che deve diventare cliente, diventando quindi parte attiva del percorso di riequilibrio del funzionamento organico. Una assunzione di responsabilità che sembra quasi titanica viste le condizioni generali di vita. Cosa dovremmo fare noi, concretamente, per ribaltare questo andamento delle cose?

Infatti per questo parlavo anche prima di responsabilizzazione. Alcuni hanno definito la nuova medicina con 4 P: predittiva, preventiva, personalizzata e partecipativa. Con questo ultimo termine ci si riferisce proprio alla possibilità di creare un rapporto di partnership tra medico e paziente che aiuti il paziente a gestire al meglio la sua salute nel tempo. Non è un’impresa titanica. Lo vedo tutti i giorni con i miei pazienti. L’importante è fare un passo alla volta e dare al paziente tutto il supporto tecnico e umano necessario.

Quando si ha a che fare con la salute è fondamentale il rigore, la scientificità e la precisione delle parole: la corretta alimentazione non è sostitutiva delle altre terapie farmacologiche, o no?

Certamente no ma funge da base per la salute e per una miglior efficacia di qualsiasi terapia. Una nutrizione corretta ottimizza il terreno biologico del paziente su cui si può ulterioremente intervenire con terapie nutraceutiche, naturali o farmacologiche. Ma spesso la nutrizione ha effetti curativi anche senza ulteriori farmaci se la condizione non è di una vera e propria patologia ma di squilibrio iniziale. Per altro mi sembra improbabile che un medico pretenda di curare condizioni gravi solo con l’alimentazione. Al contrario invece troppo spesso si pensa solo ai farmaci e poco all’intervento nutrizionale anche in situazioni dove la nutrizione è essenziale.

L’alimentazione ha deragliato, ad un certo punto, verso l’elemento estetico. Quali sono i maggiori rischi di questa deriva?

Sovrappeso e obesità non sono ossesioni estetiche ma condizioni cliniche. Se invece si riferisce a modelli estetici errati promossi ai teenager sono pienamente d’accordo e il rischio è di incentivare i disturbi del comportamento alimentare oltre che di creare una generazione di persone sempre scontente e incapaci di accettare sé stessi. Inoltre le diete sono tutte simili per inefficacia in quanto una percentuale minima di chi le segue mantiene a distanza il peso raggiunto. Non servono diete ma una nuova cultura alimentare.

Lei da molta importanza a internet e alla sua forza dirompente nel veicolare informazioni. Però non c’è il rischio di una sorta di fai da te, nell’ambito della salute, da parte di utenti sempre più smaliziati e indipendenti nel cercare e trovare materiale in rete?

Certo che c’è il rischio ma che alternativa ha il paziente se il medico non è disposto ad ascoltare, dialogare e dare informazioni esausitve? Il problema non è internet ma la sempre più compromessa relazione tra medico e paziente che per altro spesso non è ridotta così per colpa del medico ma del sistema in cui si trova a lavorare. E poi devo dire che chi sa navigare su internet conosce benissimo i meccanismi di verifica delle informazioni e come accedere a fonti ufficiali dunque il pericolo è minimo.

Già i filosofi antichi dicevano: “sei ciò che mangi.” Adesso questa visione è diventata qualcosa che ha a che fare con lo status sociale, che ha introdotto una netta separazione tra il nostro organismo e l’apparenza sociale. Siamo davvero in tempo per fermare questo senso di marcia?

Se non pensassi che siamo in tempo non avrei scritto Mangia che ti passa! Credo che stia nascendo una nuova tendenza che rimette la salute al centro degli interessi personali e collettivi.

Oltre al problema del tipo di cibo che ingeriamo c’è anche quello della sofisticazione industriale del cibo stesso. Intendo dire che, oltre a imparare a conoscere i cibi bisognerebbe anche essere nelle condizioni di trovarne che non siano industrialmente rovinati. Come fare?

Anche in questo caso va sottolineato l’emergere dell’agricoltura biologica e biodinamica e di allevamento non intensivi. Più la domanda aumenta e più crescerà l’offerta e in questo modo scenderanno invece i prezzi. Basta pensare alle sezioni salutistiche che si trovano nei supermercati. Sarebbe stato impensabile anche solo qualche anno fa.

Il suo discorso suggerisce, anzi obbliga a pensare che il cambiamento rispetto al cibo imponga un vero e proprio cambiamento di noi come esseri sociali, come pazienti e come consumatori. Eppure, a pensarci bene, non c’è nulla di rivoluzionario o di strambo in quello che lei dice: perché allora suona invece come qualcosa di davvero nuovo?

Forse perché ci siamo illusi per troppo tempo che le soluzioni arrivino dall’esterno ed è invece ora di ricordarci che i piccoli e grandi cambiamenti iniziano sempre da scelte individuali. Cambiare modo di mangiare è una primo passo verso una nuova gestione della propria salute.

Il sito del Dottor Ongaro:

www.filippo-ongaro.it

 

Intervista a cura di Geraldine Meyer