Secondo lo scrittore e giornalista “quel sentimento che ci suggerisce di provare un turbamento, oppure un senso d’indegnità di fronte alle conseguenze di una nostra frase o azione, che c’induce a chinare il capo, abbassare gli occhi, evitare lo sguardo dell’altro, a farci piccoli e timorosi, sembra scomparso”. Per Belpoliti oggi la vergogna, ma anche il pudore, suo fratello gemello, non costituisce più un freno al trionfo dell’esibizionismo, al voyeurismo, sia tra la gente comune come tra le classi dirigenti. La perdita di valore della vergogna è contestuale a un altro singolare fenomeno: l’idealizzazione del banale e dell’insignificante.

“Lo sguardo ammirato di molti- scrive- non si rivolge più a persone di notevole rilievo morale o intellettuale, bensì a uomini e donne modesti, anonimi assolutamente identici all’uomo della strada o alla donna della porta accanto. Si tratta di un fenomeno prodotto dalla televisione, da alcuni programmi di grande ascolto come Il Grande fratello”.

la vergogna

Nella vergogna, spiega l’autore, si sperimenta  il negativo di se stessi e della propria immagine. E l’effetto primo di chi  prova questo sentimento che comporta un’autoscopia, è la presa di distanza da se stesso. Come il senso di colpa, la vergogna è una delle emozioni dell’autoconsapevolezza.

E allora? L’uomo contemporaneo non è più abituato ad osservarsi,  proiettare lo sguardo su stesso, potremmo dire a farsi esami di coscienza. La società del tutto è possibile, quella attuale,  ha sostituito Edipo, simbolo del senso borghese, del mondo patriarcale, con Narciso, in cui è il successo a costruire identità, quindi a confermare o negare la propria riuscita. Il fatto è che il bellissimo eroe della mitologia greca porta con sé, sì, il dono della libertà, ma anche un crescente senso di vuoto e il fantasma dell’impotenza.

Ma cosa c’entra tutto questo con la vergogna che non esiste più? Belpoliti scrive che nella società postmoderna, che ha cancellato la cultura del senso di colpa, è entrata quella della vergogna, ma la vergogna amorale, di superficie, collegata all’etica del successo, dell’autoindipendenza e del conformismo. Per questo il giornalista riprende Cristospher Lasch. Il quale  ha riassunto tale posizione con la formula cultura del narcisismo.

“Il nuovo narcisista – aveva scritto Lasch- è perseguitato dall’ansia e non più dalla colpa. Insegue il senso della propria vita e non è più propenso a imporre agli altri le proprie certezze”. Non solo. E’ superficialmente rilassato e tollerante, uno che ha perso la sicurezza che proviene dalla solidarietà di gruppo e che vede negli altri potenziali rivali con cui competere. Il nuovo narcisista, secondo Lasch- ha superato i tabù sessuali del vecchio paternalismo, ma questo non gli ha procurato una vera serenità sessuale; coltiva uno scarso interesse per il futuro, poiché non sente importante il passato; piuttosto vive un intenso sentimento di nostalgia, un sentimento che è diventato un prodotto commerciale spacciato quotidianamente da trasmissioni televisive, film, dischi, gadget di ogni forma e dimensione”.

A fare da sfondo, una società basata sull’assenso, in cui  il senso critico sembra scomparso. Prosegue Belpoliti a pagina 28: “E’ in corso un inarrestabile processo di omologazione fondato sulla democrazia  dei consumi, di cui l’audience è il sistema  di valutazione. In questo contesto  la vergogna tende a scomparire,  un sentimento proprio di altre epoche dell’umanità, in cui il bisogno di esserci, o meglio, di esser visti e di vedere  tutto scompare, come accade oggi. La visibilità come obiettivo ultimo dell’esistenza dei singoli individui”. E la vergogna? Per lo scrittore, si è trasformata in vergogna di non avere successo, di non essere notati: la terribile vergogna d’essere nessuno. Come dice uno psicologo, che Belpolititi riprende, la  vergogna contemporanea consiste nel sentimento del fallimento della propria esibizione. “Ci si vergogna di vergognarsi, poiché questo richiama l’attenzione di tutti sull’unica cosa che si vuole nascondere: l’insuccesso”.

VERGOGNA

Molto interessante il modo con cui l’autore costruisce e sostiene la sua tesi. Il libro, scritto come un racconto, ci conduce nel carcere iracheno di Abu Ghraib, a Tokyo, a Parigi, nelle camerette dei ragazzi giapponesi che si isolano, facendo hikikimori, a New York,  Parigi, persino ad Auschwitz e  Nagasaki.

Alla fine del percorso diventa sempre più netta la posizione del giornalista. E cioè che oggi, per dirla con Agnes Heller, filosofa ungherese, se vergogna proviamo, è solo quella sulla pelle, cioè una amorale, di superficie, legata all’etica del successo, al conformismo di fondo, che nonostante le tante parole e immagini spese per innalzare l’individuo, per affermarlo, in realtà lo sta omologando sempre più: diversi, ma sempre uguali”.

Insomma, Belpoliti è chiaro: “La vergogna sulla pelle funziona perfettamente nella società  svergognata in cui viviamo, quella in cui la barriera del pudore, si è molto abbassata  e non solo quella del pudore sessuale, ma anche del pudore legato alla scambio delle merci”. La vergogna amorale non comporta la stretta fusione di senso di colpa e vergogna. E, piuttosto legata a modelli di consumo, ad etichette sociali, al potere personale o all’esito  della competizione sessuale per la conquista di una donna o di un uomo. Questo tipo di vergogna non lascia segni profondi, ma solo uno stato d’animo transitorio di imbarazzo”.

VERGOGNA

Ma parliamone con l’autore e cerchiamo di attualizzare la sua posizione.

Partiamo dall’attualità: disegno di legge sulle intercettazioni, in via di approvazione alla Camera dei Deputati  e vergogna. Cosa mi dice? Perderemo la possibilità di recuperare un po’ di sana vergogna?

Perderemo la libertà di informazione, prima di tutto, che è un bene prezioso come l’aria in una democrazia che tende a essere sempre più dominata dal populismo mediatico. Bavaglio per la carta stampata, l’unica che si è mantenuta libera, sia a sinistra come a destra. La vergogna manca a chi fa leggi così.

Nella nostra società, delle immagini, narcisista, che effetto, pensa, abbiano avuto le immagini di Stefano Cucchi, malmenato, sulla  nostra coscienza? Ritiene che abbiano spinto qualcuno alla vergogna?

Uno choc davvero. Ci si è identificati in lui. La paura dello straniero, del diverso, è direttamente proporzionale alla paura di cadere nelle mani di un potere poliziesco assoluto. Di chi può fare di noi quello che vuole. Non so se qualcuno si è vergognato. La vergogna è un sentimento personale, non sempre pubblico. Lo auspico.

E veniamo a Primo Levi, ormai, sempre più lontano dalle nostre coscienze. Lo scrittore ha provato vari tipi di vergogna, oltre a quella per le umiliazioni subite, quella di essere sopravvissuto. Pensa che quello di Levi sia diventato oggi un modello anacronistico, che mai più si proporrà? Quindi non saremo più in grado di provare vergogna come lui?

Il caso di Levi è insieme un caso comune ed estremo. E’ l’uomo comune, seppur dotato di aspetti geniali, che viene gettato nell’ “ano del mondo”, come dice lui stesso. E qui scopre diversi livelli di vergogna, il cui più estremo, che possiamo provare tutti, anche senza entrare nel Lager, è quello della vergogna di essere uomini. Levi è quanto mai attuale. “I sommersi e i salvati”, dove si trova il capitolo sulla vergogna (propria e altrui) è uno dei libri più importanti del XXI secolo. Più questo di “Se questo è un uomo”. Non è anacronistico. Chi ha che fare con la sofferenza umana – un aspetto oggi molto diffuso tra le donne e gli adolescenti – sa che troverà in Levi un maestro illuminante: chiaro, coinciso, essenziale, perforante, laico, acutissimo. Non è un fatto solo di personalità, ma di pensiero e di emozioni. Tutti possiamo farlo.

E il pudore, che fine farà?

E’ il fratello minore della vergogna: lo si prova per noi stessi, per difenderci, ma mai per gli altri. Invece, ci si vergogna per gli altri, di quello che ci hanno fatto, dice Levi. Le vittime si vergognano, mai i carnefici. Lo sanno bene le donne che hanno subito violenza: la vergogna del male subito è terribile.

E’ più corretto dire che non proviamo più sensi di colpa o che cerchiamo “parafulmini”, capri espiatori fuori da noi?

Non sono uno psicologo. A naso direi che i sensi di colpa sono molto diminuiti. Pensi a personaggi come Callisto Tanzi. Se è vero quello che riferiscono i giornali, colpito da condanne e pene pecuniarie, va a nuotare sereno nella “sua” piscina. E pensi a tutti quei finanzieri che con un computer attaccano le economie deboli, ci speculano sopra, affamano individui, famiglie, popoli, Paesi. Lo possono fare perché non li vedono, perché sono numeri, immagini lontane. E alla sera tornano nella loro casetta fuori New York, accarezzano il cane, baciano i figli, e si siedono sul loro divano preferito col giornale della sera tra le mani. Una fantasia, certo, però…

Quanto su questo hanno inciso i pensatori nichilisti, con la demistificazione di ogni valore assoluto, universale?

Non lo so. Il nichilismo filosofico è sempre, comunque, un pensiero, non una azione. Il vero nichilismo è quello pratico di economisti, uomini politici, finanzieri, ecc. Nietzsche non ha colpa del nazismo e neppure del turbo-capitalismo. Sono gli uomini, i singoli uomini, a portare il peso della responsabilità personale. Tu lo faresti? Si deve rispondere a questa semplice domanda. Molti di noi, forse, potrebbero rispondere sì. Lo spiega Primo Levi con la “zona grigia”.

E il ’68, con la cultura della deresponsabilizzazione, c’entra qualcosa con la scomparsa della vergogna?

Non credo che il Sessantotto sia stato questo. Io c’ero, avevo 15-16 allora, al Liceo. Ci  sentivamo, nella nostra ingenuità, responsabili di tutto quello che accadeva. Semmai abbiamo ecceduto nell’eroismo, nel romanticismo, ma non certo nella mancanza di responsabilità. Leggevamo “Lettera a una professoressa” di Don Milani e ci si sentiva responsabili degli altri meno fortunati, dei poveri, degli sfruttati, degli oppressi. Troppo responsabili, semmai, fino all’esagerazione. Ma quando si è giovani, si è sempre esagerati, per fortuna.

Dove rintracciare la causa di una cultura che ci fa abbracciare “il male minore”, le zone grigie, che ci rende collusi con un sistema che ha emarginato la vergogna e ha per tutti sempre pronti modi per salvarsi e svicolare? Cosa potrà salvarci? Il Vangelo?

Il Vangelo non è mai passato di moda. E’ sempre attuale. Forse è la chiesa di oggi ad averlo dimenticato. In Italia la Chiesa ha perso di autorevolezza, non dice più parole di verità, ma si è accodata al pasto dei potenti. Anche se ci sono preti che vivono in mezzo alla gente e condividono le durezze dei più poveri, degli umili. I preti che difendono i rom e gli immigrati. La chiesa di Roma è uno svolazzo di sete rosse e papaline cardinalizie. Se ci fosse Pasolini…

Secondo lei non riusciamo a vergognarci più per paura? Paura di affrontare noi stessi?

Non so. Forse la vergogna ci porta dritti al risentimento, che il vero mood di questa epoca.

Mi cita qualche caso più clamoroso, attuale, in cui chi doveva vergognarsi non lo ha fatto?  Obama di fronte alla marea nera cosa avrà realmente provato rispetto a quello che avrà voluto far credere ai media?

Obama: lo vedo come un uomo vero, che si commuove e sa commuovere, che è capace di decisioni. Pensi ai 40 milioni di americani senza copertura sanitaria. Chi glielo ha fatto fare di mettersi contro le lobby sanitarie e finanziarie? Poi come tutti noi, dovrà anche recitare, e chi non lo fa. Mica è un santo! Però a me pare un uomo positivo, in un mare di problemi e difficoltà. Non vorrei essere al suo posto. Ha visto come si è ingrigito in poco tempo. Che fatica dirigere, comandare. Un mestiere difficile, come quello dell’educatore e del confessore, ma anche dello psicoanalista.

Obama è una speranza per tutti noi.

Belpoliti, Senza Vergogna

 

A cura di Cinzia Ficco