Romanzi: “La forma minima della felicità”

Sento un rumore.

Sono al pc. Aggiorno la home-page del sito di mia madre, niente di che, il catalogo per gli ordini, brevi risposte a commenti di donne furiose. A proposito, la tv?

Vedo tutto il mondo tranne te.

Non disse niente, sentivo il tic tic della tastiera.

Pronto.

E quale parte del mondo ti piace?

In che senso.

Ti piace il Kenia?

In che senso.

Sto navigando. Non ci sono mai stato, mi piacerebbe, cazzo. Avessi due soldi, prenderei e partirei subito.

Per fare.

Per andare via. Via da Milano. Cazzo, sparire, sciò, fuori dalle palle. Tu no?

No, io resto.

A fare che.

Non dissi.

Vivere in posti diversi, avere la possibilità di sperimentarsi, di cambiare, svilupparsi. Diventi quello che vivi, gli spazi che occupi ti danno forma. Vorrei diventare, diventare alla massima potenza.

Un che di delirio trasognante attraversò la sua voce.

Mi troverei un lavoretto, il minimo per sopravvivere. Azzerare le sofisticazioni. Voglio passeggiare in ciabatte su una cazzo di spiaggia, in un cazzo di posto senza metro, con una cazzo di vegetazione che mi mozza il fiato. Voglio vivere per avere tempo, lavorare l’indispensabile, non essere costretto a ricalcare a stampo le vite miserevoli preconfezionate della città.

Cioè viaggiare e non lavorare, fine della vita.

Tratto dal meraviglioso romanzo La forma minima della felicità di Francesca Marzia Esposito

 

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