Diego Galdino, barista-scrittore, si racconta

Di Enza Petruzziello

Cosa si nasconde dietro una tazza di caffè? Un mondo intero. Ma soprattutto storie di persone, di vite reali che tra un sorso e l’altro di questa amatissima bevanda animano bar e banconi. A raccontarle è Diego Galdino nel suo L’Ultimo caffè della sera”, edito da Sperling & Kupfer. Romano, classe 1971, Galdino ogni mattina si alza alle cinque per aprire il suo bar in centro, dove tutti i giorni saluta i clienti con i caffè più fantasiosi della città. Un’attività questa che si affianca a quella di scrittore in un’unione perfetta di narrativa e dolci aromi. Oltre a servire i clienti del suo bar, ha infatti trovato il modo di trasformare la sua conoscenza del caffè in letteratura. Ed è proprio dal suo bar che nascono i suoi libri più belli.

Naturale proseguo del suo romanzo d’esordio –Il primo caffè del mattino – scritto quattro anni fa, “L’Ultimo caffè della sera” riprende la storia di Massimo proprietario di un piccolo bar nel cuore di Trastevere. Sono passati due anni e nella vita di Massimo molte cose sono cambiate, così come nel bar Tiberi, dove però, tra addii e nuovi arrivi, l’atmosfera è rimasta quella di sempre, allegra e impertinente. Poi, un giorno, come in un déjà vu, al bar piomba un’incantevole ragazza dai grandi occhi blu che sconvolgerà la sua vita. Proprio come quella dello scrittore che abbiamo incontrato tra un caffè e un aperitivo. Ecco cosa ci ha raccontato.

Diego Galdino

Diego quando ha scoperto la passione per la scrittura?

«Ho iniziato a scrivere romanzi molto tardi, anche se da bambino scrivevo delle storie di fantascienza. Affascinato da cartoni animati come Goldrake o Mazinga Z, ricordo che la signora Maria, uno dei personaggi de “Il primo caffè del mattino”, mi cuciva insieme i fogli per farli diventare dei piccoli libri. Mi dispiace tantissimo che siano andati persi. Si può dire che sono diventato lo scrittore di oggi per merito – o colpa – di una ragazza adorabile che a sua volta adorava Rosamunde Pilcher. Una scrittrice inglese che di storie d’amore se ne intendeva parecchio. Un giorno lei mi mise in mano un libro e mi disse: “Tieni, questo è il mio romanzo preferito. Lo so, forse è un genere che piace più alle donne, ma sono certa che lo apprezzerai, conoscendo il tuo animo sensibile”. Il titolo del romanzo era “Ritorno a casa” e la ragazza aveva pienamente ragione. Quel libro mi conquistò a tal punto che nelle settimane a seguire lessi l’opera omnia dell’autrice. Il mio preferito era “I cercatori di conchiglie”. Scoprii che il sogno più grande di questa ragazza di cui ero perdutamente innamorato era vedere di persona i posti meravigliosi in cui la Pilcher ambientava le sue storie. Ma questo non era possibile perché un grave problema fisico le impediva gli spostamenti lunghi. Così, senza pensarci due volte, le proposi: “Andrò io per te, e i miei occhi saranno i tuoi. Farò un sacco di foto e poi te le farò vedere”.

E poi cosa è successo?

«Qualche giorno più tardi partii alla volta di Londra. Con la benedizione della famiglia e la promessa di una camicia di forza al mio ritorno. Fu il viaggio più folle della mia vita e ancora oggi, quando ci ripenso, stento a credere di averlo fatto davvero. Due ore di aereo, sei ore di treno attraverso la Cornovaglia; un’ora di corriera per raggiungere Penzance, una delle ultime cittadine d’Inghilterra, e le mitiche scogliere di Land’s End. Decine di foto al mare, al cielo, alle verdi scogliere, al muschio sulle rocce; al vento, al tramonto, per poi all’alba del giorno dopo riprendere il treno; fare il viaggio a ritroso insieme ai pendolari di tutti i santi d’Inghilterra che andavano a lavorare a Londra. Un giorno soltanto, ma uno di quei giorni che ti cambiano la vita. Tornato a Roma, lasciai come promesso i miei occhi, i miei ricordi, le mie emozioni a quella ragazza. Forse le avrei lasciato anche il mio cuore, se lei non si fosse trasferita con la famiglia in un’altra città a causa dei suoi problemi di salute. Non c’incontrammo mai più, ma era lei che mi aveva ispirato quel viaggio. In fin dei conti tutto ciò che letterariamente mi è successo in seguito si può ricondurre alla scintilla che lei aveva acceso in me. La voglia di scrivere una storia d’amore che a differenza della nostra finisse bene».

Dunque complice un viaggio e l’amore, esordisce nel panorama editoriale nel 2014 con Il primo caffè del mattino di cui sono stati venduti anche i diritti cinematografi. Come è nata l’idea del suo primo romanzo e che cosa l’ha ispirato?

«Si può dire che io sia nato dietro al bancone di un bar nel vero senso della parola, perché a mia madre si ruppero le acque proprio dietro a quello stesso bancone dove io ho imparato a fare i caffè e ancora oggi ne preparo a miei clienti/amici/famigliari e protagonisti dei miei due romanzi dedicati al caffè. Il primo caffè del mattino parla di un Bar di quelli che forse ormai non esistono più. Parla di chi ci lavora dentro, di chi ci passa a prendere un caffè tutte le mattine, o ci passa le giornate o la vita come se facesse parte di una famiglia. Parla di una ragazza francese che ci capita per volere del destino, che non ha mai incontrato l’amore e che senza aver buttato la monetina nella fontana di Trevi torna a Roma senza esserci mai stata prima. Una Roma che ti aspetta sempre come fossi di casa, che non ti dice ‘Buongiorno’, ma ‘Ciao’che t’invita a prendere un caffè, uno di quelli che come i diamanti sono per sempre».

A distanza di 4 anni dal suo esordio, riprendi “Nell’ultimo caffè della sera” la storia di Massimo. Anche per lui sono trascorsi diversi anni. Come è cambiata la vita del protagonista?

«In realtà non era previsto che io scrivessi il seguito de “Il primo caffè del mattino“, non sono un amante dei seguiti, preferisco da sempre cimentarmi in storie autoconclusive. Ma negli ultimi anni mi sono capitate un sacco di cose brutte, o almeno non belle, che hanno stravolto la mia vita e il bar di famiglia che poi è la stessa cosa. Così ho deciso di scrivere “L’ultimo caffè della sera“, come dico sempre: “per rendere leggendario l’ordinario“, perché di bar dove bere il caffè ce ne sono tantissimi e in tutto il mondo, ma come quello dove sono nato e ancora oggi continuo a fare i caffè credo ce ne siano pochissimi. Anch’io come Massimo il protagonista de “Il primo caffè del mattino“ ho perso un grande amico, un secondo padre. È stata una perdita, come accade nel mio nuovo romanzo, improvvisa, destabilizzante, per me e per il bar. Qualche mese dopo anche mio padre, quello vero, si è ammalato gravemente. Così sono rimasto da solo, sia fuori, che dietro il bancone del bar. A quel punto, sono dovute cambiare tante cose, ho dovuto reinventarmi e per non mandare perduti i ricordi e le persone, ho deciso di scrivere questo libro mettendoci dentro tutto, le battute e gli aneddoti che per me erano familiari, erano casa, aggiungendoci ciò che mi rende lo scrittore che sono…l’amore. Massimo dovrà confrontarsi con l’amore del passato e un nuovo amore, solo che lui ha un cuore solo e dovrà scegliere a chi donarlo».

In che modo, invece, è cambiata la sua di vita?

«In effetti come direbbe lo Hugh Grant di Notting Hill tutto è un po’ surreale, ma bello. La mia è un po’ una doppia vita come quella di Clark Kent e Superman. Nel bar ho imparato a camminare, ho detto le mie prime parole, ho fatto i miei primi compiti, mi sono innamorato. Per questo tornare è difficile, ma allo stesso tempo facile. Perché malgrado io possa andare girando come scrittore in mezza Europa grazie ai miei libri e alla mia vita da scrittore, alla fine torno sempre a casa…Ops! Volevo dire al bar…».

Cosa rappresentano il primo caffè del mattino e l’ultimo della sera?

«Sono i due caffè che rappresentano una storia d’amore, perché cosa c’è di più bello per un innamorato che prendere il primo caffè del mattino con la persona che ama e finire la giornata bevendo con lei l’ultimo caffè della sera? Che sia stata una giornata buona o cattiva sicuramente finirà bene con la persona che ami».

Inevitabilmente ogni persona che entra nel suo bar a consumare un caffè piuttosto che un panino o un succo, ha una storia da raccontare, un mondo che spesso a uno sguardo distratto sfugge. Che rapporto ha con i clienti del suo bar?

«Il bar racchiude al suo interno una galassia di persone diverse che girano intorno al bancone come i pianeti intorno al Sole, prendendo dal caffè quel calore, quell’energia che ti accompagnerà. Anzi che ti farà compagnia per il resto della tua giornata. In cambio queste persone permettono, con le loro storie di vita vissuta, le loro manie, i loro caratteri simili o sempre diversi, al Sole/bancone di adempiere al suo dovere a ciò che ne rende indispensabile per se stesso e per gli altri la sua stessa esistenza».

C’è stato qualcuno che più degli altri ha ispirato o comunque influenzato i suoi personaggi?

«La cosa più bella è quando vengono al Bar lettori dei paesi in cui sono stati pubblicati i miei romanzi, per farsi fare una dedica o scattarsi una foto dietro al bancone insieme a me. Lì si rendono conto che è tutto vero, che non mi sono inventato niente; che sono entrati a far parte delle mie storie come i personaggi dei libri che hanno letto. Poi quando gli presento Antonio l’idraulico, Pino il parrucchiere, Luigi il falegname e il tabaccaio cineromano “Ale Oh Oh” la loro realtà supera la mia fantasia».

L’amore è sempre al centro dei suoi romanzi, tanto da essere definito il Nicholas Sparks italiano. Perché la scelta di raccontare storie d’amore?

«Lascio che siano gli altri ad usare per me questo appellativo, perché io non mi permetterei mai nemmeno di pensarla una cosa del genere, diciamo che mi sento più una specie di Nicholas Sparks all’amatriciana, sì insomma “de noantri”. Stiamo parlando del più importante scrittore di romanzi d’amore al mondo e al momento i numeri e i film tratti dai suoi libri dicono che lui è di un altro pianeta. L’ho sempre considerato un maestro e già solo essergli accostato fa di me un discepolo felice. A me piace scrivere romanzi d’amore, perché scrivo quello che sento, quello che il mio cuore ha bisogno di esternare, io amo l’amore e tutti i suoi derivati. Per me la scrittura è un modo per mettersi a nudo, scrivere è una seduta terapeutica. Ogni essere umano chi più chi meno credo abbia un lato romantico, per questo la componente romantica in un barista non può non esserci. Perché se ci metti l’amore viene tutto più buono».

Non solo l’amore. A fare da sfondo c’è anche Roma, bellissima ed eterna. Che rapporto ha con la sua città?

«Roma ti aspetta sempre come fossi di casa. Roma mi ha portato a passeggiare sull’Aventino, uno dei sette colli della città eterna. Passando dalla Bocca della Verità, al Circo Massimo, riposandosi qualche minuto nel roseto comunale, dove a maggio si possono ammirare centinaia di rose diverse, per poi proseguire attraverso le abbazie medievali più belle e importanti della città, dove, nel silenzio e nella luce che filtra attraverso i rosoni colorati delle finestre, capisci il vero significato della fede. Per arrivare infine in uno dei giardini più belli del mondo: Il giardino degli aranci da cui, dopo aver levitato tra decine di alberi di arance, si può ammirare uno di quei panorami che ti fanno chiedere: “Ma allora è così il paradiso?”, e scoprire invece che ne è solo la porta, quella del Priorato di Malta da cui dal buco della serratura si vede la cupola di San Pietro. Roma non ha significato nella mia vita, Roma è la mia vita.

Vivere Roma da turista è diverso dal viverla di chi lo fa ogni giorno da tutta la vita. Io cerco di regalare ai miei lettori la civis romana, la possibilità di sentirsi romano per il tempo di una storia e di continuare a esserlo nel cuore anche dopo aver chiuso il libro. L’ultimo caffè della sera come Il primo caffè del mattino parla di questo… E del caffè e dell’amore che il protagonista del libro credeva di aver perso e che invece è ritornato, forse per non lasciarlo mai più e del mio amore per Roma che non ha bisogno di ritornare perché non andrà da nessuna parte, resterà per sempre fisso nel mio cuore come le stelle nel cielo. Roma fin dalla sua nascita è sempre stata un po’ decadente, anche quando era al massimo del suo splendore, è un po’ nel suo Dna esserlo, in ogni epoca, per motivi diversi, o sempre gli stessi. Ma la città perfetta forse non esiste, se non nell’opera Città ideale, ma nel celebre dipinto una passeggiata al tramonto per le vie di Trastevere te la sogni».

I suoi libri sono stati tradotti in otto paesi europei e in sud America. Come è stata l’accoglienza all’estero?

«Ho avuto la fortuna di poter presentare i miei romanzi alla Fiera di Francoforte, di Madrid, nel programma televisivo più importante della Polonia e di rappresentare l’Italia al Festival di Letteratura Europea in Germania. Soddisfazioni che ti restano dentro e alimentano la tua passione per la scrittura nelle difficoltà di un mondo editoriale italiano che a volte fatichi a comprendere pienamente. La verità è che ogni giorno benedico la scrittura per essere entrata nella mia vita, perché grazie a lei ho avuto e ho la possibilità di conoscere posti e persone meravigliose, che da librai, lettori, al momento dei saluti diventano degli amici di vecchia data a cui voler bene per sempre».

La gestione di un bar non è affatto semplice. Sveglia presto, orari stressanti, quando trova il tempo per scrivere e come riesce a conciliare le due attività?

«Da sempre mi sveglio la mattina alle 4. Scrivo un’oretta e mezza, poi mi travesto da barista e vengo qui al bar a fare il caffè ad Antonio l’idraulico che di solito è il primo a bussare alla serranda. Da quando ho cominciato a scrivere, le cose sono andate ben oltre le mie aspettative. Diciamo che ho sublimato il sogno».

Libri, bar, altri progetti per il futuro?

«In realtà al momento sono molto concentrato su L’ultimo caffè della sera, è lui il mio progetto futuro. Tengo molto a questo romanzo per tanti motivi e ci terrei che venisse letto da più persone possibili».

Per contattare lo scrittore Diego Galdino potete trovarlo su Facebook oppure su Instagram. In alternativa come lui stesso dice: «Se qualcuno vuole farsi preparare un caffè da me lo aspetto al Bar».