A queste domande prova a rispondere Giuseppe Campos Venuti, urbanista di fama internazionale, che ha di recente pubblicato un libro, dal titolo Città senza cultura. Intervista sull’urbanistica, curato da Federico Oliva ed edito da Laterza.

A sentire l’autore, che è stato docente per trentatrè anni al Politecnico di Milano, il nostro Paese non godrebbe di buona salute. E per colpa soprattutto della rendita urbana. Se si volge lo sguardo alle città e al territorio nella sua interezza il brutto sembra prevalere sul bello e il disordine su un progetto riconoscibile.

Città senza cultura

Ma cosa è brutto? Scrive: “ A guardar meglio, è brutto il fatto che la città non eserciti oggi in Italia il ruolo per cui è nata millenni fa: un luogo in cui gli uomini potessero raccogliersi per soddisfare le proprie necessità, creando assistenza reciproca, servizi comuni, necessari per una società allora piccola, che poi si è trasformata diventando sempre più grande”. Per Campos Venuti, quando questi servizi pubblici e privati funzionano male come quelli italiani e non soddisfano più le esigenze dei cittadini, questi sono spinti a dire che la città è brutta, perché non funziona. E lo stesso discorso si può fare per il territorio. “Questa bruttezza- spiega- nasce dal fatto che leggi e piani esistenti non sono in grado di governare la città e il territorio in modo da soddisfare le esigenze dei cittadini. E il discorso si può allargare dal governo nazionale a quelli locali, incapaci perfino di usare quello che leggi e i piani possono comunque offrire. Non solo le istituzioni sono incapaci di fare leggi e piani nuovi, ma anche di usare quelli disponibili, che consentirebbero di affrontare e risolvere – per quanto è possibile- i problemi della città e del territorio”.

Il brutto per Campos Venuti sta anche nella deregulation, nella sregolatezza sistematica.

E non ci sarebbe niente di bello? Per l’urbanista: “Quanto di bello è rimasto – per esempio i centri storici ben conservati – sappiamo perché si è conservato: a questo proposito, ho spesso parlato di fortuna disgrazia, ricordando il ritardo con cui nel nostro Paese si sono realizzati l’Unità nazionale e lo sviluppo capitalistico moderno rispetto al resto d’Europa. Questi centri storici, però, pur avendoli preservati, li abbiamo trattati in modo perverso e irragionevole. Abbiamo salvato gli edifici, ma li abbiamo sommersi con un traffico automobilistico che ne compromette perfino l’aspetto estetico e che è esiziale per gli antichi tessuti”. Una volta il tessuto dei centri storici era articolato per funzioni: l’abitazione e il commercio di prossimità, l’assistenza agli anziani e l’istruzione ai bambini, l’artigiano di servizio e la produzione dei beni più popolari”. E oggi? “Dal centro storico – si legge- sono scomparsi i negozi di prima necessità sostituiti ora da vetrine, strumenti di pubblicità delle multinazionali, la cui economicità non dipende dal mercato locale di quartiere, ma da quello mondiale. E le vetrine hanno raggiunto fitti strepitosi, pagati tranquillamente dalle multinazionali, perché non dipendono dall’economia del posto. In questo senso dal centro storico è scomparsa la sicurezza”.

Città senza cultura

E le periferie della città consolidata? Sono definiti a ragione quartieri dormitorio, cresciuti sotto la spinta della rendita urbana, povere di spazi, parcheggi, verde. Per il docente, che è stato anche Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, “il territorio extraurbano è stato largamente manomesso e impera lo sprawl, termine inglese che sembra creato apposta per l’Italia e che definisce bene la situazione di dispersione urbana che la caratterizza”. Il problema, secondo lui, non è tanto l’aver costruito più che altrove, ma che abbiamo disperso le costruzioni nella campagna, disseminandola di insediamenti residenziali e produttivi. In Francia, Germania o Inghilterra il territorio è costellato dai piccoli centri separati gli uni dagli altri: e così la campagna si è salvata. “L’agricoltura- scrive- oggetto principale del territorio extraurbano dal punto di vista funzionale, è trattata in Italia come peggio non si potrebbe. L’agricoltura è stata gestita molto male: utilizza colture idroesigenti, che consumano il 60% dell’acqua disponibile ed è condizionata da una strategia della politica agricola comunitaria quanto meno discutibile”.

Ma la colpa di chi è? L’esperto non risparmia nessuno. E dice: “Di tutti, le responsabilità sono dei politici, degli operatori immobiliari, dei tecnici, ma anche dei cittadini, di tutti i cittadini, che mal sopportano le regole”.

Ma come risollevare le sorti delle nostre città, ammazzate dalle responsabilità politiche e culturali e, soprattutto, dall’incapacità di fare leggi e piani che affrontino il tema della rendita urbana, fino ad annullarne gli effetti negativi? Intanto per governare, occorre conoscere il territorio. E imparare a concepire una economia non indifferente al territorio, cioè ispirare alle esigenze ambientali ed economiche, oltreché paesaggistiche, molte scelte di governo ben al di là dell’urbanistica. Esempi? Chiarisce: “Se concentriamo la tematica ambientale sugli obiettivi necessari a rispettare il Protocollo di Kyoto, bisognerà che la legislazione relativa trovi un piccolo spazio per integrarsi all’urbanistica. Se come pare pagheremo sulle future bollette dell’elettricità i nostri ritardi nel rispettare gli impegni presi con l’Ue su Kyoto, per ridurre questi ritardi non potremo rifiutare anche il ricorso alla gestione urbanistica”. E allora, ad esempio, il Governo, con una norma generalizzata in tutto il Paese, potrebbe prevedere il rimborso delle spese per le alberature (in grado di assorbire anidride carbonica) ai privati e ai Comuni ogni volta che sorgeranno nuovi edifici, destinati ad abitazioni ed uffici, centri direzionali. Così l’esecutivo innescherà uno sviluppo consistente dell’industria vivaistica nazionale. In questo modo contribuirà anche a qualificare l’ambiente urbano e a valorizzare dal punto di vita commerciale gli immobili realizzati nei nuovi “condomini ecologici”.

Ma è un discorso questo che dovrebbe toccare anche le grandi infrastrutture per la mobilità. Pensiamo ad Autostrade, superstrade e nuove linee dell’Alta velocità.

Per finire Campos Venuti parla del sistema idrogeologico, che investe il regime dei corsi d’acqua e la tenuta dei versanti montani e collinari. Una situazione disastrosa in Italia. A detta dell’urbanista, dovremo preoccuparci di più del territorio nazionale che non regge più, prima che ci sia l’ennesima inondazione o il prossimo smottamento franoso.

Campos Venuti, città senza cultura

A cura di Cinzia Ficco