“Chi lavora non fa sesso”: il libro di Roberto D’Incau
Francesco si ritrova a quarant’anni burn out. Capisce che sì, ha costruito una carriera, ma intorno a sé ha un vuoto affettivo, di sentimenti. Decide di rivoluzionare la sua vita: lascia il lavoro, inizia una psicoterapia, e parte per un lungo viaggio in Asia, alla ricerca di se stesso. Anche se nel frattempo ha perso l’amore. Roberta, che lo amava, ha sposato un altro. E’ una delle sedici storie raccolte nell’ultimo libro di Roberto D’Incau, dal titolo: “Chi lavora, non fa sesso”, edito da Salani, dedicato a chi ogni giorno si sforza di cercare un equilibrio tra sfera privata e vita professionale.
Il racconto di Francesco ha un lieto fine. E dimostra che, molte volte, una via d’uscita c’è. Ma nella realtà, non è sempre possibile bilanciare lavoro e amore. A volte sacrifichiamo gli affetti per soddisfare il nostro ego professionale. Le conseguenze? Una grande frustrazione, che, a sua volta, sconfina in depressione e ansia.
“Gli affetti e la professione- spiega l’autore- sono due parti fondanti della nostra esistenza: per il nostro benessere psicofisico e la riuscita del nostro percorso professionale, è fondamentale conciliarli, farli convivere, trovare tempo e spazio per entrambi. Quando questo non avviene, prevalgono l’insoddisfazione, lo stress, la voglia di mollare tutto. Fermarsi a riflettere su ciò che ci rende davvero felici o perlomeno sereni, è un dovere verso noi stessi. Chi lavora non fa sesso intende proporre soluzioni attuabili nella vita quotidiana, privata e professionale. L’equilibrio esiste, e spesso è a portata di mano, basta saperlo vedere. Io ci credo, spero di riuscire a convincere anche voi».
Dopo Quasi quasi mi licenzio, Chi lavora non fa sesso: logica conseguenza o si tratta di due aspetti differenti della vita professionale, che voleva studiare?
Chi lavora non fa sesso parla di un aspetto complementare. Di storie, di equilibrio e disequilibrio, tra la vita lavorativa e quella personale, tra amore e lavoro, quello che gli americani chiamano work life balance. Il libro precedente parlava di come mollare tutto, questo, invece, della ragione per cui arriviamo a voler cambiare vita e lavoro. È davvero necessario fare un’inversione ad U o esiste un’alternativa possibile? Cerco di scoprirlo.
E’ vero, le storie che lei racchiude in questo libro, sono tante. E in qualcuna ci si potrebbe ritrovare. Ma non pensa che incrociare la serenità, o addirittura la felicità, sia un processo molto più complesso?
Purtroppo, non si può imparare a essere più felici. Si può, però, imparare dalle esperienze degli altri: questo libro descrive, appunto, casi di equilibrio raggiunto, talvolta apparentemente impossibile, tra vita privata e lavorativa, e anche casi di equilibrio non raggiunto. L’obiettivo del libro è fare riflettere, con leggerezza, sulla nostra società e sugli equilibri personali, che stanno cambiando profondamente, talvolta in modo sorprendente.
Evidentemente, é passato tanto tempo da quando Celentano cantava: “Chi non lavora, non fa l’amore”. Ne è trascorso così tanto che oggi il problema si è ribaltato. Ma secondo lei l’Italia, in questo senso, è messa peggio di altri Paesi?
L’Italia non è messa peggio di altri Paesi in termini di work life balance, in senso assoluto, ma è vero che a livello sociale gli aiuti sono minori rispetto a quelli previsti in altri Stati limitrofi, come, ad esempio, la Francia.
In che senso?
Da noi sono inferiori gli aiuti alle mamme che lavorano, è più difficile accedere agli asili pubblici. In Italia, per un padre o una mamma che lavorano, non è facile gestire i figli. Questo, è evidente, ha un impatto forte sul WLB. Come spesso accade, noi italiani siamo bravissimi a organizzare soluzioni individuali. E ancora una volta, è la logica del “tirare a campare”, che prevale.
In questo discorso, allora, poco fa il Governo italiano?
Onestamente, il nostro Esecutivo non mi sembra molto sensibile ai temi del WLB, forse perché sembra un tema di nicchia e più legato alla felicità individuale che a quella sociale.
E, invece?
Non è così. La nostra serenità e il nostro equilibrio hanno un impatto forte, delle ricadute notevoli, su chi ci sta intorno.
Si possono quantificare i costi sociali?
Beh, pensiamo agli effetti delle visite mediche frequenti, alle assenze sui luoghi di lavoro.
Chi è più resistente al cambiamento, l’uomo o la donna?
Tra uomini e donne, sono più resistenti, cioè più impermeabili a modificare il proprio WLB, le donne, che spesso fanno le spese di un doppio carico di lavoro: quello all’esterno, a cui si aggiungono i figli e la casa. Come dico nel mio libro, la donna italiana, spesso, è in bilico tra due modelli: quella in carriera e quella tradizionale che, comunque, gestisce in prima persona la casa. E questo non può non avere ripercussioni negative sul suo WLB. Ci sono dei modelli tradizionali che agiscono, a livello inconscio, anche su donne molto proiettate nel mondo lavorativo. E questo scatena conflitti. Nel libro ci sono dei casi: “La regina della casa part time” e “Il richiamo della tradizione: la maternità al posto della carriera”, abbastanza illuminanti.
L’ “erotizzazione” del lavoro è più spiccata tra coloro che hanno un livello di studio e lavoro più elevato. E’ così?
Dedicarsi anima e corpo al lavoro, trovandone quasi l’unica fonte di piacere personale, è senz’altro più frequente in persone ad alta e altissima scolarità, ambiziose, per spinta propria, famigliare, o di contesto, in cui sono inserite. Spesso ci si ritrova in ambienti lavorativi, in cui non c’è scelta: o si è workaholic o si è dei dropout. E’ il principio dell’up or out, che vige in contesti fortemente competitivi, come le società di consulenza, i grandi studi legali, la finanza, eccetera.
Ma essere workaholic è, in fondo, solo un male?
Non è un male, ma solo se è una scelta davvero interiorizzata e non eterodiretta.
Quali sono i primi segnali che lanciano un corpo e una psiche incapaci di trovare un giusto equilibrio?
Il corpo, come sempre, è il primo a darci dei segnali di disagio, con il malessere fisico e psichico, con le malattie psicosomatiche, con l’ansia, l’insonnia, gli stati larvatamente depressivi.
Tra una decina d’anni staremo peggio?
Non penso che tra dieci anni saremo più malati di quanto non lo siamo ora. Negli ultimi anni c’è già stata un’esplosione di malattie psicosomatiche. Credo, però, che bisogna sapere cogliere subito i segnali del disagio, e fermarsi finché si è in tempo. Insomma, non bisogna tirare la corda. Il rischio è quello di bruciarsi, diventare burn out, e questo è dannoso anche a livello professionale.
La storia che le ha lasciato un segno?
Tra le tante, quella intitolata “La necessità di un cambiamento radicale”. Una testimonianza in un certo senso triste, ma che si chiude con un’apertura, una speranza: cambiare è sempre possibile, se lo si vuole veramente e se si impara a capire quali sono le cose che contano davvero per noi.
Un’attività professionale in Rete, è per lei, più insidiosa di altre quanto a WLB?
Per me la Rete, l’essere sempre connessi, sono uno strumento neutro. L’uso e le conseguenze di un uso randomico sono nelle nostre mani: può essere un disastro, si può diventare webaholic, oppure può essere uno strumento che ci permette di lavorare anche da casa, in situazioni in cui si ha la possibilità di mettere insieme i pezzi del nostro WLB.
Consigli ?
Il primo consiglio del mio decalogo, forse il più importante, è: “Ognuno di noi ha un equilibrio tutto suo, diverso da quello degli altri”. E’ fondamentale non dimenticarlo mai, anche quando chi ci sta vicino, magari per amicizia o affetto, ci suggerisce dei modelli diversi, più standard e accettati dalla comunità, in cui siamo inseriti. Solo ascoltandoci veramente possiamo raggiungere la nostra serenità e un equilibrio tutto nostro.
Roberto D’Incau, milanese, è un noto headhunter e coordinatore di progetti di executive coaching con grande esperienza a livello europeo. Collabora con i Master di moda di SDA Bocconi, Domus Academy e IED Moda Lab. Per Salani ha pubblicato con Rosa Tessa Quasi quasi mi licenzio. Non è mai troppo tardi per cambiare vita. www.langpartners.it
A cura di Cinzia Ficco