Il cacciatore di meduse: il titolo potrebbe far pensare a una fiaba in chiave moderna ma, invero, è un romanzo, l’ultima fatica letteraria di Ruggero Pegna. Già affermato direttore artistico, produttore e autore televisivo, nonché di libri di vario genere, tra cui spicca Miracolo d’amore. Opera, quest’ultima, incentrata su una tematica sensibile, divulgata attraverso i mass-media sino a diventare un vero e proprio vademecum per le persone ammalate di leucemia e per i loro familiari.

«Quando imparerai a nuotare, ogni mattino dovrai cacciare almeno una medusa con le mani, poggiarla dolcemente sulla sabbia e pregare Dio affinché dia pace e ogni bene a te, alla nostra famiglia, agli uomini con la nostra stessa pelle e al mondo intero. Vedrai che, un giorno, anche tu incontrerai la tua splendida principessina e vivrai con lei, felice e contento, in un magnifico castello incantato, in cui si avvereranno tutti i tuoi e i suoi desideri! Nonno Jubba sapeva bene, invece, che la parte del castello non si sarebbe mai avverata e, dopo qualche attimo di pausa, aggiungeva: “ Ogni capanna è un castello, se ci sono dentro la pace, la salute e l’amore!”. Nello stesso istante in cui cominciava a parlare, sbarravo gli occhi ed era come se, improvvisamente, vedessi l’oceano brillare di migliaia di piccoli cuori luminosi. I loro movimenti lenti e leggeri mi trasportavano a spasso tra mille creature di ogni forma e colore. Immaginandole, m’immergevo e nuotavo sereno nelle buie profondità del mare. Accarezzavo il loro cappello e risalivo a galla, seguendo la danza dei loro tentacoli e di tutti i pesciolini che, come me, si lasciavano incantare. Presto mi feci convincere dalle strampalate ma affascinanti teorie del nonno».

cacciature di meduse

È con questa leggenda, raccontata da nonno Jubba, e con tanti altri sogni in filigrana nel cuore, che il piccolo Tajil, bambino somalo originario di Chisimaio, parte – con mamma Halima – dalla terra brulla di Africa per intraprendere la traversata della speranza alla volta dell’Italia, a bordo di un barcone sgangherato e insicuro, in balia delle onde alla ricerca spasmodica dell’eldorado.  Tajil e Halima approdano a San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani, iniziando la nuova vita tra una panchina, sotto il cielo terso e azzurro di Trinacria, e l’angolo buio di un garage impregnato dell’acre odore di benzina. Il bimbo s’inventa in cambio di qualche centesimo di euro – per necessità di sopravvivenza – il mestiere di cacciatore di meduse, che rende piacevole e meno urticante la vacanza sulla spiaggia – da lui resa libera dai fastidiosi e invadenti animali – dei villeggianti appartenenti a un mondo diverso dal suo e ostentatamente dorato.

Un districarsi del piccolo e abile cacciatore di meduse fra le mille difficoltà di un viaggio appena compiuto attraverso posti sconosciuti e luoghi della memoria. Tra la cruda realtà quotidiana nello sbarcare il lunario e la fiaba immaginifica della speranza di approdo a un’esistenza rinnovellata e più attagliata ai suoi desideri. L’autore, con uno stile fluido e lineare, un linguaggio fortemente espressivo nell’estrema sensibilità e con delicatezza, affronta – in questo romanzo coinvolgente e appassionante – il tema scottante e attuale dell’immigrazione nel nostro Paese, che viene analizzato e sviscerato, quasi vivisezionato, per mezzo delle vicende dei protagonisti, mostrandone le due facce a guisa di una medaglia. Da una parte, l’accoglienza e l’integrazione e, dall’altra, l’ostilità e la discriminazione culturale di non pochi cittadini italiani: un miraggio e un ostacolo insormontabile – in pari tempo – che talvolta trovano, inopinatamente, un punto di saldatura.

«Io sono un bambino nero. Non so perché il mio colore è questo, ma sono contento lo stesso, perché somiglio a mamma, al nonno e a tutti quelli di Chisimaio. Se fossi stato bianco, mi sarei vergognato sicuramente di stare là. Ora che sono grande e sono qui, non mi importa nulla se qualcuno mi chiama negro. Sono vivo e felice. E questo è bellissimo. Un nero vede il mondo come lo vedono i bianchi, perché gli occhi di tutti sono uguali, se non sono malati come quelli di certi vecchi. Durante il viaggio ho visto che, avvicinandoci all’Italia, la gente si scolorisce, fino a essere bianca del tutto quando si arriva qua. Non so il motivo e nessuno me lo sa dire. La Terra è di tutti, diceva mio nonno e, per questo, sto bene anche qui, in mezzo a gente con la pelle diversa dalla mia. Penso che il nonno avesse ragione quando diceva che la bontà non dipende dal colore della pelle, ma da quello del cuore».

La narrazione cattura il lettore, intercetta gli interessi e i gusti suoi, lo trasporta in un’atmosfera di vibrante umanità e di consaputa alterità con l’identificazione e la proiezione nel personaggio principale – il piccolo uomo Tajil – di cui condivide amarezze e delusioni, ma anche speranze, attese future e desideri raggomitolati dentro. Un appello ficcante e di elevato spessore etico, volto a scuotere le coscienze dall’indifferenza e dal torpore di un’omologazione nei giudizi espressi sugli altri, sovente appannaggio di diversa cultura e civiltà. Scopo precipuo del testo letterario di Ruggero Pegna – romanziere attento e raffinato – è quello, dunque, di un auspicabile superamento dei pregiudizi e degli steccati culturali, che mal si accordano con la temperie della convivenza civile e comunitaria a ogni latitudine. Ed egli lo veicola mediante il messaggio austero e dignitoso, ma profondamente umano, affidato a un uomo in nuce dell’altro continente, lanciato agli altri simili non con lo stesso colore della pelle. Alle persone che vivono uno status di privilegio e di agiatezza esistenziale, affinché siano, finalmente, consapevoli del dramma vissuto quotidianamente da migliaia, forse milioni di migranti. E diretto anche a chi governa le nostre sorti, perché con intelligenza e in continuità di saggezza trovi le risorse necessarie a impedire un tragico esodo di massa.

Uno strumento, insomma, pedagogico da utilizzare e da divulgare nelle aule scolastiche tra i coetanei di Tajil in sostituzione e al posto di quella retorica verbosa e inconcludente, sciorinata da molti a ogni piè sospinto nelle circostanze, ormai rituali, di inarrestabili stragi di bambini, donne e uomini in mare, per tacitare la loro coscienza che, come la carnagione del piccolo somalo, è sempre più nera.

Jessica Perri

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