Aprire un bar: il manuale di Gabriele Cortopassi

Aprire e gestire un bar di Gabriele Cortopassi, edizioni Hoepli, non è il classico manuale, tecnico e asettico su come aprire un bar. È molto di più, trattandosi del diario, se così si può dire, di un’esperienza decennale. Cortopassi, barman e sommelier ha una lunghissima esperienza come manager e consulente negli Stati Uniti; attualmente è project manager per una catena italiana di caffetterie che utilizzano il franchising, formula commerciale in continua crescita.

Tra le altre cose, Gabriele ha ideato il blog www.aprireunbar.com in cui è possibile trovare notizie e aggiornamenti su questa attività. Il testo è una miniera di consigli e informazioni sui vari adempimenti legislativo-sanitari da adempiere, ma anche un validissimo aiuto su come fare un corretto piano di fattibilità, su come gestire i fornitori, su cosa voglia dire fare un budget e individuare il possibile target del proprio locale. Esempi chiari e raccontati con semplicità per dare tutti gli strumenti necessari ad avviare quella che, prima di tutto, è una vera e propria avventura imprenditoriale. Perché non basta avere una buona idea, bisogna anche sapere come renderla realizzabile e, possibilmente, remunerativa. Un libro che sfata anche molti luoghi comuni su un mestiere difficile e complesso, che non si improvvisa; che può dare molte soddisfazioni a patto di sapere davvero di cosa si sta parlando. Noi abbiamo raggiunto telefonicamente Gabriele, che tra un viaggio e l’altro ci ha raccontato cosa vuol dire diventare gestori di un locale.

Gabriele nella tua lunga esperienza hai notato quali sono i maggiori equivoci che circondano il lavoro in un bar? Ti faccio questa domanda perché durante i ventiquattro anni in cui ho lavorato in libreria mi sono spesso sentita dire: “Che bel lavoro, cosa darei per poterlo fare.” Molti di questi entusiasti sprovveduti hanno anche provato e dopo un mese sono scoppiati.

Capisco molto bene cosa vuoi dire. Anche rispetto al lavoro che c’è attorno ad un bar ci sono pericolosi fraintendimenti: il primo è quello di pensare che, tutto sommato, sia un lavoro semplice, in cui ci si può anche improvvisare. Invece non è affatto così, ci vuole molta professionalità e molta ricerca per creare un locale che abbia davvero qualcosa di unico. Il secondo grosso equivoco è quello di pensare che questa sia un’attività che, dal punto di vista dei guadagni, rappresenti un po’ il paese di Bengodi. Non è esattamente così. I margini di guadagno, se il bar ha un certo giro di clienti, sono tra il 25% e il 30%. Margini che si riducono fino al 15% se si tratta di un piccolo bar, a gestione familiare. E quando dico familiare intendo al massimo due persone.

Mi dici tre qualità assolutamente imprescindibili per aprire un’attività di questo tipo?

La prima direi in assoluto il “saper fare”, che sostanzialmente vuol dire fare bene qualcosa. E questo è qualcosa che presuppone una notevole esperienza alle spalle e una enorme passione; significa essere attenti, curiosi, avere voglia di migliorarsi sempre, di stare con gli occhi aperti perché gli stimoli possono arrivare da dovunque. Significa trovare e sviluppare una specificità al proprio locale e lavorare su quella. La seconda qualità, forse banale a dirsi, è lo spirito imprenditoriale con tutti i sacrifici che comporta, la fatica e la capacità di non guardare l’orologio quando si lavora, perché se sei proprietario di un locale devi essere sempre pronto per ogni evenienza. La terza qualità direi che è la capacità di rapportarsi al cliente, e questo non è sempre facile. Ci vogliono doti di equilibrio notevoli, soprattutto per far capire, senza equivoci, che siamo dei professionisti.

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Qual è l’aspetto che viene maggiormente sottovalutato quando si apre un’attività di questo tipo?

Assolutamente l’aspetto economico. È fondamentale fare un business plan attento e il più preciso possibile, un conto economico solido e concreto. Dedico molto spazio a questo nel libro proprio perché è l’aspetto su cui è più facile fare errori di valutazione che possono rivelarsi fatali. Il bar è un’impresa e va affrontato come tale.

Quali sono i fattori che, maggiormente, non fanno funzionare un bar?

Direi un’idea sbagliata, fin dall’inizio. Il piano di fattibilità dovrebbe comprendere anche quella che prima definivo unicità, qualcosa che renda il nostro locale particolare e non banale, diverso dagli altri. Un bar non funziona se non c’è nessuno che lo allatta, se mi consenti di usare questo verbo, che lo nutre con l’attenzione estrema a tutto ciò che può diventare fonte di nuovi sviluppi. E le idee possono essere prese da qualunque cosa, una notizia, uno spettacolo, una curiosità. Un bar non funziona se non c’è questa attenzione che parte dal presupposto che si sta facendo una cosa fondamentale: si stanno ospitando delle persone.

Una caratteristica tipicamente italiana è quella di pensare di “essere nati imparati” con quello che ne consegue in termini di curiosità e confronto. I gestori di bar in Italia partecipano a corsi di aggiornamento?

Solo negli ultimissimi anni si sta registrando un leggero interesse per questo genere di cose, anche se l’assurdo è che spesso i titolari mandano i dipendenti a fare questi corsi. E se è importante dare una formazione al personale lo è altrettanto darla a sé stessi in quanto titolari e imprenditori. Ma direi che è davvero un problema di cultura, come se imparare qualcosa di nuovo, confrontandosi con altre realtà fosse qualcosa di cui vergognarsi. Forse è anche questo il motivo per cui in Italia la maggior parte dei bar sono medio piccoli ed esistono poche catene. Forse si rimane piccoli perché non c’è un certo tipo di mentalità o forse resta un certo tipo di mentalità perché non si pensa in grande. Molto diverso da quello che accade negli Stai Uniti, in Germania e nei paesi scandinavi in particolare. Permettimi di concludere con una storiella che credo renda bene l’idea di un certo modo di fare di noi italiani: se un inglese non sa qualcosa passa dieci anni a studiarlo; se un tedesco non sa qualcosa passa quindici anni a studiarlo; se un italiano non sa qualcosa la insegna.

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A cura di Geraldine Meyer